capitolo 5
Sveglia alle sei di mattina. Il sole è ancora timido. Mi alzo come un soldato, come facevo quand'ero nelle forze armate. Sistemo il letto, un'abitudine che non mi tolgo neanche a volerlo. Butto giù un caffè americano. Doccia. Vestiti. Ascensore. Ogni. Fottutissimo. Giorno.
La puzza di smog è un tutt'uno coi miei polmoni. Ormai l'avverto a malapena. E l'unica dolce nota della mia esistenza m'aspetta lì, sul ciglio della strada. Una Ford Mustang del 2011, d'una tinta tenue, tra il celeste e il grigio sporco. Mi era mancata. Se la mia schiena da trentenne non ne risentisse, ci dormirei.
Mi vedo nel riflesso del finestrino quando apro la portiera. Non mi ero accorto di non essermi ancora specchiato. Il biondo che mi fissava con occhi vitrei e spenti, alto circa un metro e ottantacinque, si fa da parte per lasciarmi sedere sul posto del guidatore. Entra poco dopo nell'auto assieme a me, deciso ad accompagnarmi fino a lavoro. Quanto vorrei che mi lasciasse in pace.
Bruce non stava tanto male da mesi. Gli ultimi tre, passati in solitudine, sono forse stati i più duri della sua intera esistenza, peggio di quelli passati tra le bombe. Ha avuto un assaggio di cosa si provi ad avere una vita normale, cosa si provi a essere importanti per qualcuno per cui si ricambiano i sentimenti. Ed era quasi certo che non se la sarebbe fatta scappare, ma certezze di quel tipo sono infami.
Avuto quell'assaggio, Bruce sente di non poterne più fare a meno. Ma sebbene la amasse a livelli di uno stalker, non si sarebbe mai permesso di infliggerle a forza la propria presenza.
Passa una mano sulla ferita che ha sulla guancia – un piccolo e profondo taglio che s'è fatto lavorando, seppur dirà d'esser caduto –, accende la radio, eppure oggi non guarda la strada. Guarda una piccola luce nel fondo, lontana, al di là dell'orizzonte stesso. Sente una voce. La sua coscienza. Lo incrimina, lo giudica, lo condanna a una vita solitaria. Guarda in faccia agli spettatori di un film di cui lui è la comparsa. Guarda... me?
Posso distinguerla chiaramente in mezzo alla nebbia, riesco a vederla, riesco a sentirla. Voglio investire la voce della mia coscienza. Non credo sia facile, ma mi tortura e non vedo altra scelta. Sono disposto a sacrificare me stesso, a dare al pubblico ciò che vuole, la dipartita della comparsa, la sua tragica fine, lasciando spazio al protagonista della storia. Così il piede destro preme con decisione l'acceleratore, spinge fino a quando la figura di un'automobile non si delinea. Corro, inseguo la morte, affronto il mio pubblico, fino a che la macchina più lontana sulla corsia non diventa pericolosamente vicina. Solo allora, all'ultimo centimetro, cambio la mia folle idea e freno la corsa.
Distolgo lo sguardo. La voce tace, almeno per un po'. Credo di averla spaventata. Mi è sufficiente a prender fiato. Chiudo gli occhi. Respiro. L'olfatto mi gioca un sadico scherzo e per un secondo credo di sentire l'odore pescato di Freya. La macchina ora immobile in mezzo alla strada riempie l'area che mi circonda trasformandola in un palcoscenico su cui suona un'orchestra di clacson. Non vi bado. Stringo con forza il freno a mano e tengo il pollice incerto sul pulsante. Respiro.
"Che cazzo fai?" un ringhio feroce attraversa il vetro. Non vi bado. Respiro. Annullo l'ambiente. Vorrei piangere, lasciarmi andare, ma non ho lacrime con me.
Mi manca.
Mi mancano entrambe.
Mi manca il vecchio me.
Abbasso il freno, rimetto la prima, sollevo la frizione e riparto. Tetra e frenetica monotonia.
Devo fare una deviazione. Da Burton non ci vado in queste condizioni. Così opto per il bar desolato in fondo alla via, l'unico bar che mi piace, quello che per ovvi motivi sta per chiudere, incapace di sostenere le spese. È un angolo metropolitano che mi ritaglio quando voglio stare tranquillo. Di solito funziona, ma non ci vado da almeno cinque mesi.
Siedo al bancone. Ordino una tripla dose di caffè. Rhonda mi serve anche un muffin, lo fa per affetto... un affetto che a malapena ricambio, ma a cui sorrido debolmente, per pura cortesia. Suo marito Alan zoppica borbottando qualcosa nelle cucine. Lo vedo attraverso la finestra delle comande. E poi accade l'imprevedibile. Il campanello sopra la porta d'ingresso suona per la seconda volta quel giorno.
Se Rhonda e Alan saltano sul posto e si voltano verso il nuovo cliente con un sorriso a trentadue denti, io affogo l'ultimo barlume di gioia nella tazza del caffè. Il cliente si siede. Parla.
"Una tazza di latte fresco. È possibile?"
"Certo, figliola!"
La risposta materna di Rhonda conferma l'ipotesi. Non riconosco la voce, né l'odore, né niente che le appartenga, fatta eccezione per la pesante aura che si porta appresso. I miei occhi blu corrono sulla superficie di legno lucido, scivolano su tutto il bancone, fino a che non incontrano le mani femminee della cliente. Il bicchiere del bianchissimo latte le viene servito, incontra le lunghe dita della donna prima che la cinepresa sollevi l'inquadratura.
Mi sta guardando.
Non è la prima volta che lo fa. E nemmeno la prima che ne sono attratto, come se fosse il canto d'una sirena.
Sorride. È la mia versione al femminile, poco più bassa, forse di dieci centimetri, ma chiaramente in forma e letale. Bionda, occhi di un azzurro che vedo ogni giorno nel mio riflesso sul vetro della Ford. La vera, sostanziale differenza sta nel sorriso. Lei sembra il joker, io sembro la versione malvagia Batman.
E ora lo so.
È lei la protagonista della mia storia.
Figlio di puttana. L'avete visto quello sguardo? Da contorcer le budella. Cos'è successo? Dove siamo? Fatemi ritrovare il segno.
Ah ecco, l'ha incontrata!
Bellissima. Non è vero? Il corpo di una dannata barbie, i muscoli che nasconde sotto la morbida pelle sono degni di una combattente, le cicatrici celate dai vestiti ne sono testimoni. Occhi da gatta – o da volpe, sarebbe meglio dire –, colorati di un blu intenso e ipnotico. Dita che sembrano artigli felini. Labbra rosate e piene ma sempre stese in un ghigno attraente. Ciuffi dorati che le ricadono sulle spalle. E una smisurata ossessione per il latte.
Dove l'ha già vista? Bruce ci riflette. Poi ricorda il suo accompagnatore, uno spilungone più alto di lui, capelli castani, sigaretta in bocca. Un tipo silenzioso. Nessuno dei due gli aveva dato la sensazione d'esser una persona comune. Che la bionda lo avesse seguito?
È lei a togliere dubbi quando si avvicina alla nostra comparsa. Sceglie lo sgabello immediatamente prossimo al suo, non vi mette distanze inutili, non ha niente da temere. O almeno ne è certa. Le certezze di quel tipo sono infami, pensa Bruce. Ma lei è serena, sorride e beve il suo latte sorseggiando fino a metà bicchiere. Poi torna a guardarlo, mentre lui vieta il contatto visivo direzionando le iridi altrove, davanti a sé.
"Basta un errore a volte, sai? Un oggetto fuori posto. Un testimone. Una videocamera nascosta o un'impronta digitale." Strano esordio per quella donna, ma senza dubbio toglie molti quesiti per aggiungerne di nuovi. Non serve l'esperienza e l'intuito di Bruce per capire che la bionda stia facendo riferimento al lavoro da sicario. E non serve esperienza o intuito per percepirla come una minaccia velata. "Se dovessi tirare a indovinare, quale sarebbe l'errore che un professionista – meticoloso e infallibile come te – potrebbe commettere tra questi?"
Lei è in attesa. Gli occhi ancora puntati su di lui, in cerca di una risposta, una reazione, un movimento. Ma Bruce rimane impassibile. Anzi, nega. Perché negare è ciò che può fare al momento. Come si risponde a una domanda di quella natura? Come risponderebbe una persona comune e insospettabile per allontanarla? E perché a lui proprio non viene in mente? Perché l'unica fantasia che riesce a immaginare è quella di stringer la mano attorno alla sua gola e farle smettere di blaterare?
"Credo lei abbia sbagliato persona." Risponde immutabile.
"No, io non commetto errori. E parlavamo del tuo. L'unico, d'altronde. Ho atteso mesi affinché ne commettessi uno. Dunque, dimmi: qual è tra quelli elencati?"
Insiste, serpe velenosa. Bruce rischia di perdere la pazienza, ma ripensa alle sue parole. Lo segue, ha atteso un suo errore e avrebbe potuto scegliere quello specifico giorno per parlargli proprio vedendolo particolarmente irritabile. Lo sta provocando. E diamine se rischia d'ottenere ciò che desidera.
"Perché seguire un meccanico? A cosa lo devo?"
"Adesso ci arriviamo." Mette a tacere il fallimentare tentativo del cambio d'argomento. Poi continua. "Ma visto che non vuoi darmi soddisfazioni, lo dirò io. Ti dispiace?"
"Prego."
E così finalmente si toglie quello sfizio. Vomita le informazioni con un accento giapponese che prima Bruce non aveva notato. Forse anche lei è più irritabile di ciò che crede. "L'impronta digitale. Una, minuscola e quasi impercettibile, sulla maniglia della porta. Stanza numero dieci, Plaza Motel, ormai tre mesi fa. Colpa della rossa, vero? Ti ha distratto. Hha! L'amore!"
È con quell'ironico sospiro che la bionda viene segnata nella lista nera di Bruce. Le palpebre dell'uomo calano come due serrandine, attribuendogli uno sguardo affatto giocoso. Finalmente volta il capo, lento e calcolato come farebbe un cyborg. Gli sguardi tornano a incrociarsi. Ora che lo vede così vicino, il sorriso della donna si estende ancor di più: negli occhi di Bruce ci vede l'oceano in cui s'è perso e la stanchezza di rimanere a galla.
"Chi sei?" domanda lui.
E adesso lei può affermarlo con fierezza. "Il tuo salvagente."
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