63. Flashback

Taehyung's pov.

La scuola mi era sempre piaciuta, sin da bambino amavo recarmi in quell'edificio privato e lussuoso che all'esterno pareva una grande chiesa appena ristrutturata, gli insegnanti erano sempre stati buoni e amorevoli nei miei confronti e solo al liceo ne avevo capito il motivo. I miei voti erano sempre stati molto alti, li meritavo ma crescendo ho capito che anche se non li avessi meritati probabilmente sarebbero comunque rimasti sempre gli stessi, i miei coetanei avevano fatto in modo che io aprissi gli occhi ma solo durante l'adolescenza avevo davvero compreso il significato di essere per tutti "il figlio di", perché per quanto mi sforzassi di essere un ragazzo normale agli occhi degli altri sarei sempre rimasto il ragazzino tanto sfortunato da aver perso la madre troppo presto ma anche troppo fortunato nell'essere l'erede di tutto quel patrimonio che avrebbero lasciato i miei genitori. Era ovvio che fossi invidiato, che molte persone ignoranti e poco empatiche risultassero gelose della mia vita ma non avevo mai avuto episodi traumatici a scuola, almeno non più traumatici di quelli che dovevo subire in casa. Alla fine i professori e tutti gli adulti in generale mi rispettavano ma non come persona, bensì solamente per il cognome che portavo al contrario gli adolescenti e prima di loro, i bambini quando frequentavo le scuole primarie, mi idolatravano e facevano a gara per avermi come amico. Mi piaceva farmi sempre nuovi e diversi amichetti nel giro di qualche settimana, ero sempre stato molto socievole e chiacchierone prima di trovarmi coinvolto nel mondo del lavoro e prima che assumessi il comando delle aziende di famiglia dunque non era mai stato tanto difficile per me stare in compagnia, ad ogni modo in cuor mio sapevo già da allora che l'unico vero amico sarebbe stato sempre e solo Jimin.

Alcuni miei ricordi dell'infanzia erano offuscati ma non solo per i traumi, naturalmente tutti i bambini con il passare dei anni tendevano a dimenticare i momenti trascorsi durante i primi anni di vita, facendo così spazio ai ricordi nuovi e molto più freschi. Anche quelli che riguardavano il mio migliore amico lo erano, non ricordavo nemmeno come ci eravamo conosciuti tanto eravamo stati uniti, avevamo sempre camminato mano nella mano proprio come due fratelli. I nostri rispettivi genitori si conoscevano, dunque quel nanerottolo che aveva più o meno la mia stessa età ma che continuava a vantarsi di essere più grande di me, si ritrovava sempre in casa mia e di conseguenza nella mia cameretta piena zeppa di giocattoli sempre nuovi. Nella mia testa era rimasta solo qualche breve ricordanza ma ciò che avrei sempre ricordato con amore sarebbe stata la sensazione di immensa fortuna che provavo ogni qual volta che lo guardavo negli occhi, il tempo per me passava male e velocemente ma lui era sempre lì a ricordarmi che tutto sarebbe andato bene e quando stavo con lui sentivo che potevamo provare a tirare quella corda del tempo, alle volte riuscendo persino a fermarlo. Mi faceva stare bene come nessun altro al mondo, era la mia metà e sarei stato grato della sua presenza nella mia vita per sempre.

Jimin c'era stato quando attorno a me c'erano centinaia di persone ma c'era stato anche quando non c'era nessun altro, quando la stanza si svuotava del tutto lui era l'unico che continuava a rimanere anche quando le luci si spegnevano e i buffet erano terminati. Jimin non era interessato alla ricchezza o alle opportunità che io o la mia famiglia potevamo offrigli, in verità mi era sempre sembrato uno stolto senza alcun futuro, uno di quelli che non era attratto dalla fastosità che contraddistinguevano i miei weekend o dalla continua ostentazione che veniva messa in atto. Forse era quel suo lato che mi piaceva o che mi intrigava maggiormente, la consapevolezza che non mi usava per diversi scopi come erano soliti fare alcuni amici di mamma o di papà, ero stato certo sin da subito che non mi avrebbe mai usato perché di carattere era avventato, raggiante e forse anche leggermente imprevidente e mi faceva sentire un amico normale, conforme alla media piuttosto che speciale come invece mi trattavano tutti quanti.

Nascere già speciali non era stato proprio il massimo, tutti finivano sempre per aspettarsi grandi cose da me e avevano delle aspettative troppe grandi per un bambino che non sapeva neppure cosa significava la parola "ambizioni" o per un adolescente che non aveva alcuna voglia di impegnarsi in nulla. Non credevo di meritare quell'appellativo fin troppo importante eppure non potevo far nulla per cambiarlo, al contrario con il tempo e poi anche con le continue sgridate da parte di mio padre ho compreso di dover mettere forzatamente la testa al posto e in quel modo ho imparato non solo a diventare un adulto frigido, proprio come la maggior parte degli uomini che lavoravano in quel campo e con la quale avevo avuto a che fare sin da bambino ma soprattutto avevo smesso di cercare il piacere e la felicità effimera.

Dopo la morte di mia madre, dunque alla tenera età di sei anni avevo già smesso di essere felice, era diventato per me impossibile ridere di cuore e pensare che la vita sarebbe potuta fiorire da un momento all'altro. Mia madre era l'unico fiore prospero della mia vita e non ne volevo altri, non ne cercavo perché sapevo già che avrei passato tutta l'esistenza attorniato solo da natura morta.

Dunque quel giorno che tanto aveva segnato la mia esistenza, era stato anche l'ultimo in cui mi ero divertito davvero tanto e secondo poi mi ero sentito vivo come non mai. Quella sensazione che credevo positiva tuttavia con il tempo si era trasformata nella peggiore che qualsiasi essere umano potesse essere in grado di provare. Essere sovraccaricato di compiti e di emozioni tutte negative mi aveva portato senza che me ne rendessi conto ad essere una bomba orologeria sempre pronta ad esplodere in qualsiasi tipo di occasione e quel giorno ero stato un fiume in piena di emozioni, così come lo ero stato tutti i giorni a seguire dopo aver compiuto quell'atto bruto della quale mi ero non solo pentito immediatamente ma sapevo anche che mi sarei ravveduto per anni interi, probabilmente fino alla fine dei miei giorni.

Era primavera, quasi estate. Avevo passato tutta la settimana a casa fingendo di stare male e giustificandomi sia con i miei compagni di scuola che con i dipendenti che lavoravano all'interno della villa, mi ero rinchiuso nella mia stanza perché avevo dei lividi sul viso e come io non volevo farli vedere a nessuno d'altra parte anche mio padre mi vietava di uscire, cosicché nessuno avesse potuto fare domande inopportune o supporre qualcosa che non sarebbe mai dovuto venire a galla. Era sempre la stessa storia, ogni qual volta che mio padre frustrava la sua rabbia contro di me, io ero costretto a fare una specie di quarantena in cui non avevo diretto di stare al contatto con nessuno per non dare nell'occhio, ovviamente però quel sistema non valeva per Jimin: lui si intrufolava sempre dalla finestra della mia stanza per non farmi sentire male solo, anche se a detta sua diceva di farlo solo perché non aveva altro da fare se non venire da me. Mi faceva sentire meglio, meno in gabbia motivo per cui lo avevo sempre ringraziato per quella sua accortezza del tutto naturale a quel metodo bestiale che aveva pensato mio padre dal momento che alle prime botte qualcuno aveva osato chiedere che cosa mi fosse accaduto, così dopo quell'episodio mi aveva obbligato a stare chiuso in casa finché non mi fossi ripreso del tutto o finché i lividi non fossero stati meno evidenti al punto che avrei potuto utilizzare un qualsiasi correttore per coprirli del tutto.

Quel giorno era uno di quelli, sarei potuto uscire tranquillamente e così feci: andai a scuola ma la stessa mattina mio padre mi mise in guardia e mi diede un orario ben preciso per fare ritorno a casa tuttavia non gli diedi ascolto e feci di testa mia, forse per la prima volta nella mia vita. Non c'era stato alcun alibi per la quale avrei dovuto compiere un gesto come quello ma forse per il semplice fatto che avessi bisogno di respirare un po' d'aria fresca o una genuina libertà, non tornai a casa.

Dopo le lezioni mi recai al parchetto vicino scuola con due miei amici di quel tempo, avevo bisogno di stare con qualcuno che non provasse pietà di me e allo stesso tempo però che non volesse stare con me solo ed esclusivamente per il mio cognome. Ero solito a stare attento nel selezionare le persone con cui consumare le ventiquattrore e avevo creduto che quei due lo meritassero tuttavia dopo quel giorno non ebbi più modo di vederli considerato che fu l'ultimo che vissi come un abituale adolescente.

Poi l'oscurità più totale.

Passammo il pomeriggio al parco a parlare del più e del meno e successivamente alla sala giochi; quelle ore di svago mi erano permesse tuttavia sarei dovuto tornare almeno prima della cena visto che agli occhi degli altri sarei dovuto essere sempre puntuale, preciso e responsabile tuttavia decisi di andare contro le regole poiché ero stufo di quella situazione e nonostante sapessi che ne avrei pagato le conseguenze, non mi tirai indietro e scappai dalla mia coscienziosità. Uno dei ragazzi aveva proposto di passare da casa sua, prendere dell'erba e fumarcela di nascosto nella scala antincendio del suo palazzo, quell'idea mi prese tanto che accettai subito. Ovviamente non era la prima volta che mi facevo una canna o che mi bevevo un'intera bottiglia di alcool tuttavia probabilmente mischiata alla stanchezza di vivere, che malgrado la mia giovane età, cominciavo già a provare: non solo dopo la morte di mia madre ma anche considerato che non ne potevo più delle continue incombenze che mi attribuivano o del comportamento bruto che aveva acquisito mio padre nei miei confronti, quell'unione mi fece un effetto insolito.

Solo dopo essermi divertito e soprattutto svagato, liberato la mente da ogni mia insistente preoccupazione come mai prima di allora, tornai a casa e sebbene l'orario non fosse assolutamente consono, mio padre si fece trovare seduto su una sedia del grande salone in attesa che varcassi la porta dell'entrata. L'ingresso era buio, silenzioso come se tutti stessero già dormendo eppure la figura di mio padre mi fece sobbalzare per la paura e solo dopo ridacchiare a causa del troppo alcool che circolava delle mie vene e probabilmente anche per il fumo che avevo assunto e che mi aveva annebbiato il cervello per qualche oretta.

Se fosse stato qualcun altro probabilmente non si sarebbe ricordato nulla di quel giorno, avrebbero dimenticato il giorno a seguire a causa della sbronza e non sarebbero stati di ricordarlo neppure dopo mesi, al contrario io nonostante fossi sballato, riuscivo a serbar memoria di ogni particolare, ogni dettaglio era conservato nella mia mente come se avessi vissuto tutto quello solo qualche ora prima.

"Dove sei stato Taehyung?" mio padre non mi aveva mai fatto paura, neppure quando mi menava o quando mi sputava addosso delle parole che mi facevano venire il voltastomaco eppure quando mi chiamava per nome mi faceva venire i brividi e sapevo a cosa dovevo andare incontro. "Apri quella fogna prima che ti tolgo la facoltà di parlare Taehyung" ancora quel nome a termine della frase. Rendeva tutto più reale e tetro, così come il suo sguardo torvo rivolto verso di me, sebbene l'assenza di luce eludeva al fatto che forse stava tutto nella mia mente.

Eppure il mio nome per intero echeggiava all'interno del mio corpo, la sua voce tuonava dentro di me e mi ricordava che dopo di quello conseguivano le botte, le minacce, le offese ma la cosa più brutta che potesse farmi rimaneva ingiuriare sulla figura scomparsa di mia madre. Lo odiavo quando lo faceva perché mi ricordava che prima di me, la vittima era stata lei e odiavo dover sentire le stesse cose che sentiva lei, provare il dolore che aveva provato lei forse anche a causa mia o per il mio bene.

Odiavo lui ma più di tutti odiavo me stesso.

Odiavo lui perché mi aveva reso schiavo di una vita che non volevo, perché mi aveva sottratto l'unica persona che amavo e dalla quale mi sentivo amato, lo odiavo perché mi aveva insegnato solo ad essere un aggressivo del cazzo, che il lavoro era prioritario e che i sentimenti dovevano essere respinti a tutti i costi. Lo odiavo perché mi aveva portato a commettere uno sbaglio e da lì mi aveva portato ad odiare anche me stesso. Io mi odiavo al punto di volere i suoi pugni sul mio viso, i suoi calci sulle mie costole, al punto che volevo mi menasse fino a che non avrei sentito più nulla, fino a chiudere gli occhi per la stanchezza mischiata al bruciore dei suoi colpi e risvegliarmi direttamente l'indomani perché era sempre bello sognare e poter dire sempre "questo è un giorno nuovo". Illudersi di voltare lo sguardo verso la finestra illuminata da un sole alto ed estivo e ripetersi che tutto sarebbe andato per il verso giusto, che tutto sarebbe finito presto perché quello era un altro giorno tuttavia quel rinomato e tanto ricercato altro giorno non sarebbe mai arrivato se non avessi pressato io per primo il tasto di partenza per poter realmente dare il via ad un giorno nuovo.

Questo l'avevo compreso solo dopo aver schiacciato quel fatidico tasto che non mi aveva però più permesso di mettere un reset nella mia vita. Non c'era il bottone di ritorno così come nella vita reale non vi era il game over, semplicemente non si poteva abbandonare quella stupida partita chiamata vita e così ero costretto a dover vivere finché quella specie di console si sarebbe spenta automaticamente e senza alcun preavviso.

Così nella stessa maniera mio padre si avvicinò a me a passo svelto e non cercai neppure di scansarmi, non mi mossi di un centimetro anzi al contrario lo stavo aspettando, quasi accogliendo come se non vedessi l'ora di ricevere la mia punizione. In realtà a lui non fregava nulla se ritardassi, se rientrassi tardi la sera o se facessi qualcosa che poteva nuocere alla mia salute però gli interessava moltissimo l'opinione degli altri, dei suoi colleghi o semplicemente dei giornalisti che si erano sempre impicciati degli affari Kim. Mio padre voleva che risultassi perfetto per non sfigurare la sua carriera e il suo cognome, era il suo unico affanno e mi stupiva davvero tanto il fatto che non comprendesse che l'unico rischio che correva era comportarsi in quel modo disumano con me, l'unico figlio che aveva. Se qualcuno avesse scoperto che dietro quel grande uomo in realtà si nascondeva un mostro allora si che tutto quello che aveva costruito negli anni gli sarebbe scivolato dalle mani come una saponetta sotto il fruscio dell'acqua corrente, eppure l'unico suo problema parevo essere io.

"Allora?" parlò ancora con quella sua voce tuonante e acuta, non gli importava se l'avessero sentito le domestiche che lavoravano in villa poiché lo rispettavano e lo temevano più di chiunque altro dunque sebbene rispettassero anche me, non potevo competere con il suo potere motivo per cui sorvolano e chiudevano un occhio ogni qual volta che un episodio di quel genere irrompeva nel salone di casa o nella mia cameretta. Anche da più piccolino nessuno mi aveva mai aiutato quando mi metteva le mani addosso, nessuno che lo avesse mai ripreso anche con mezza parola... nulla e in quegli anni mi convinsi che se ci fosse stata mia madre l'avrebbe fatto. Sarebbe stata l'unica che mi avrebbe difeso dalle sue carogne senza preoccuparsi delle conseguenze.

"Non avevo voglia di tornare" dissi semplicemente sperando che gli bastasse, non era realmente una questione seria come invece voleva far credere. Si trattava di una disubbidienza infantile e nient'altro, mi aveva rinchiuso per troppo tempo all'interno delle sue aziende e all'interno di quella maledetta villa, non ne potevo più. Volevo la stessa libertà che avevano i miei coetanei e se quella riuscivo ad averla tramite le bottiglie di birra e qualche spinello allora avrei continuato su quella strada. Il fatto che si innervosisse per azioni che avevo compiuto mi appagava, ero quasi soddisfatto di averlo spinto all'irritabilità e così lo stuzzicai ancora un po'. "Anzi ho voglia di uscire di nuovo" esclamai facendo un passo all'indietro e fingendo così di raggiungere la porta, ovviamente sapevo che non l'avrei mai aperta perché me l'avrebbe impedito prima che potessi anche solo sfiorare il pomello del grande portone.

"Non ti rischiare a fare un altro passo" mi minacciò puntandomi un dito.

"Vuoi venire anche tu papà?" chiesi sarcastico. "Porta un accendino in più nel caso il mio si dovesse scaricare" aggiunsi facendogli così intuire la motivazione per la quale avevo ritardato ma anche per la quale mi stavo comportando in una maniera del tutto nuova per lui, non ero mai stato ribelle o insolente nei confronti di lui o di qualche adulto in generale perciò era stato la prima volta anche per me assumere quel determinato atteggiamento che però mi diede subito una scarica di adrenalina che non avevo mai provato prima di allora. Mi gasai nel rispondere malamente a mio padre, che erano le parole che più si meritava d'altronde motivo per cui non mi sentii assolutamente in colpa, al contrario mi rese del tutto intenzionato a continuare perché avrei voluto provare altri stimoli e nuove sensazioni, simili a quella splendida esaltazione che mi fece percepire per una volta lo scorrere del mio sangue all'interno delle vene o il rumore del battito del mio cuore.

"Sei il figlio peggiore che mi potesse capitare" sussurrò e riuscii a percepire la veridicità di quella frase, lo pensava realmente anche se fino a quel momento ero sempre stato ai suoi ordini e alle sue subordinazioni, mi aveva sempre trattato di merda dopo la morte della mamma allora che senso aveva comportarmi bene se i profitti erano gli stessi di quando mi comportavo male?

Volevo solamente essere me stesso e mettere fine a quella sofferenza che per dieci lunghi anni avevo sopportato sia perché da un lato credevo di meritarli fortemente e sia perché credevo che fossero delle azioni giuste tuttavia crescendo capii che non era quello il modo adatto di educare né tantomeno di esprimere il bene che si voleva ad una persona. Mia madre era solita a riempirmi di dolci baci, di abbracci, di parole incoraggianti e di regali mentre mio padre mi aveva solamente dato soldi, una stabile reputazione, il rispetto della gente ma dentro di me, dentro quel bimbo ignaro erano rimasti solo gli insulti, le parolacce, le botte e le violenze che praticava sulla moglie e solo dopo anche su suo figlio.

Era assurdo il fatto che glielo avessi permesso sino a quel giorno e probabilmente il fatto che fossi fatto e ubriaco, mi aveva aiutato a comprendere la gravità della situazione e soprattutto mi aveva dato il coraggio di poter finalmente contrastare.

"Finalmente ci troviamo d'accordo su qualcosa" ammisi alzando le spalle, segno di incuranza. "Ma la cosa ancora più bella è che ci accomuna anche qualcos'altro" lo avvisai sorridendo. "Anche tu sei il padre peggiore che mi potesse capitare" quella parole sgorgarono dal cuore e come un fiume in piena colpirono di petto la figura di mio padre, che a quella risposta del tutto inattesa, specialmente dopo che avevo sempre subito in silenzio e come se quasi mi meritassi tutto quel male e quel tormento che mi donava senza alcuna pietà, sussultò e fece un passo indietro come se davvero avessi usato la forza delle mie mani per spingerlo.

Quel iniziale sconvolgimento però si trasformò nel giro di qualche secondo in un atto di ferocia che mi sebbene mi aspettassi, mi fece sussultare e allarmare per quello che mi sarebbe aspettato anche se mi fossi scusato immediatamente. Avanzò di un solo passo e con una mano afferrò il mio collo, cercai di divincolarmi e sfuggire alla sua presa ma lui strinse ancora più forte, tanto che feci fatica a deglutire.

"Dillo ancora se hai il coraggio" ringhiò a denti stretti mentre mi sentii l'aria mancare. Percepii i miei occhi diventare più grandi e più rossi al contrario la mia gola si fece più piccola. "Riesci a dirlo?" reclamò assottigliando lo sguardo. "Forza ripetilo Taehyung" mi sfidò e senza pensarci due volte intrufolai la mano tra i suoi capelli ma non per fargli del male, come per aggrapparmi a qualcosa tuttavia quel gesto istintivo lo fece incavolare maggiormente. Non era stato intenzionale e dunque mollai subito la presa, quasi pentito e intimorito dalle conseguenze che avrebbe potuto scaturire.

Non ero in grado di rispondere perché non ci riuscivo, mi stava facendo male e l'unica cosa che riuscii a sussurrare furono dei lamenti di disperazione e di supplica nella speranza che mi lasciasse andare. Del resto non volevo neppure ripeterlo una seconda volta, non ci tenevo a farlo innervosire ancora al contrario volevo che finisse tutto presto. Le mie labbra si aprirono mentre ansimavo per l'aria e in quel momento allentò la sua presa intorno alla mia gola ma continuò a tenere le sue dita intorno al mio collo cosicché non potessi sfuggirgli del tutto.

"Sei uno scarafaggio, ecco cosa sei" mormorò ad un centimetro dal mio viso. Cercai di sorridergli poiché in fondo non era l'offesa peggiore che mi avesse rivolto. "Tutto quello che vedi attorno a te e di quello di cui tanto ti vanti con i tuoi amichetti del cazzo in realtà non ti appartiene come credi" quelle parole mi fecero comprendere ancora una volta che mio padre non mi conosceva affatto. Era l'esatto opposto, non mi ero mai glorificato dinnanzi alle persone, forse perché erano solite farlo senza che aprissi bocca o forse perché davvero non mi interessava assolutamente, anzi avevo sempre sognato di essere come tutti gli altri. "Ed è per questo che dico che sei uno scarafaggio, non hai nulla di tuo e ti accontenti di soggiornare quasi di nascosto nel mio mondo, nell'abitazione che ho creato io durante anni e anni di lavoro" mi rinfacciò come se avessi scelto io di nascere in quelle condizioni, quelle affermazioni mi stupirono ma ancora di più la rabbia che uscii da ogni singola parola.

Come poteva un padre parlare in quel modo al proprio figlio?

"La-lasciami" mi innervosì per la sua vicinanza più per la sue parole e cercai di svincolarmi in maniera definitiva dalla sua presa tuttavia lui era evidentemente più forte di me difatti mi spinse con le spalle al muro.

Le sue mani rugose attorno al mio collo strinsero la presa ancora per qualche secondo e chiusi gli occhi, evitando di guardare i suoi occhi colmi di collera e ira nei miei confronti, pensai che stesse cercando di strangolarmi e mentalmente mi convinsi che glielo avrei permesso tuttavia a seguire toccò un tasto per me inviolabile che mi mandò in bestia e che mi scaturì una reazione irascibile e senza alcun freno.

"Saresti dovuto morire tu al posto di mia moglie" lo pensavo anch'io si ma odiavo quando rievocava la figura di mia madre, la stessa che aveva sempre trattato di merda. Ero contento che non potesse farle più del male quindi in un certo senso ero contento che non si trovasse più tra di noi, cosicché avrei potuto prendere il suo posto. "È morta per colpa tua"

Fu lì che riaprii gli occhi e lanciai un grido.

In un attimo la rabbia governò il mio cervello, non capii più nulla era come se dentro di me tutto si offuscò, tanto da darmi la forza anche sul resto del corpo e difatti tramite quella riuscii a liberarsi dalla sua stretta.

"Devi lasciarmi cazzo" urlai questa volta deciso al contrario di prima che pareva essere più un suggerimento, un consiglio che tuttavia non aveva accolto motivo per cui ora avrebbe dovuto assimilare la mia collera. "Ritira quello che hai detto pezzo di merda" le parole mi uscirono dalle viscere, non ero mai stato realmente incazzato prima di allora. Era una sensazione del tutto nuova sia per me che per mio padre che si ritrovò a barcollare per il tono troppo alto della mia voce o forse per il fatto per la prima volta mi stavo ribellando al lui o al suo volere.

Provò a contrastarmi, a reagire e a riprendersi la sua autorità di padre tuttavia non gli diedi né tempo e né modo per poterlo fare, quella volta non gli avrei ubbidito, non mi sarei sottomesso a lui e non mi sarei fatto prendere a calci per l'ennesima volta. Improvvisamente mi venne una gran voglia di fargli capire cosa si provasse ad essere picchiato, umiliato da un componente della famiglia e dal momento che l'adrenalina si era fatto spazio all'interno del mio corpo, anche grazie all'effetto delle sostanze che avevo introdotto precedentemente dunque mi trovai eccitato all'idea di fargliela finalmente pagare.

Lo colpii solo una o due volte ma prima di allora non mi ero mai ritrovato coinvolto in una rissa, ero parecchio esitante malgrado la smania di vendetta che scorreva all'interno della mie vene e così nonostante volessi essere al cento per cento il carnefice di quella situazione, mi ritrovai ad essere anche la vittima.

"Cosa credi di fare?" chiese mio padre cercando ancora di fare il duro tuttavia era evidente che fosse turbato e sorpreso dal mio atteggiamento.

Credeva davvero che avrei subito le sue perfidie per sempre?

Gemetti quando una sua ginocchiata mi arrivò allo stomaco ma malgrado il dolore che mi causò, non mi piegai in avanti e attaccai anch'io iniziando così un vero e proprio scontro fisico. Mio padre era abituato ad usare le mani e lo faceva per il senso di disgusto che diceva di provare nei miei confronti a differenza di me che dovetti invece rintracciare tutta la forza solo nel pensiero di poter vincere contro di lui.

Cercai di colpirlo ma la sua figura era molto più alta e ampia di me, che ero ancora mingherlino e fragile per poter contrattaccare i suoi colpi o anche solo per potermi difendermi. Dopo un paio di cazzotti la sua presa si fece stretta sui miei indumenti e mi spinse all'indietro dove mi fece sbattere la schiena contro un mobile, quasi persi l'equilibrio tuttavia nel giro di qualche secondo decisi di guardarmi intorno e aiutarmi con qualcosa, poiché capii di non potercela fare con le mie sole forze.

"Ti faccio fare la fine di tua madre se non ti scusi immediatamente Taehyung" ancora quel nome per intero, ancora che cercava di tenermi a bada. Ormai avevo capito il suo modos operandi e non mi lasciai sopraffare da ciò che per anni mi aveva trattenuto, non gli risposi nemmeno e con una mossa veloce raggiunsi l'arredo più vicino e afferrai il primo oggetto pesante che mi si presentò davanti, un'anfora in ceramica che era sempre stata presente in casa sin da quando avevo memoria.

Non ci riflettei neppure un attimo e quando mio padre si avvicinò a me per schiaffeggiarmi ancora vista la mia incessante insolenza, alzai la mano con la quale avevo acchiappato il vaso e con forza e velocità glielo scaraventai alla tempia. Sussultai per il frastuono che scaturì il vaso al contatto con la sua testa ma mi spaventai ancora di più quando percepii dentro una me una voglia matta di fargli altro male, di vedere ancora i suoi occhi spalancarsi e udire i gemiti fuoriuscire dalla sua bocca. Non riuscii a vedere la sua espressione poiché il suo viso era voltato dal lato opposto tuttavia scorsi del sangue scivolare sulla sua fronte, a quel punto mi guardai le dita tremolanti e non riuscii a distinguere se quello nella mia mano fosse il suo o il mio sangue mentre per terra vi erano i cocchi di quello che doveva sicuramente essere un pezzo antico e ricercato di chissà quale collezione di vasi.

Respirai affannoso e quando si voltò verso di me, con quello sguardo risoluto e prevaricatorio persi definitivamente l'ultimo briciolo di controllo che mi era rimasto. "Vaffanculo cazzo" gridai non curandomi di svegliare il resto delle persone che abitavano in villa.

Volevo solo dare sfogo a tutto quello che per anni mi ero tenuto dentro.

"Mi fai schifo" sputai con tutto me stesso prima di schiantarmi verso di lui e riempirlo di pugni, tutti quelli che mi aveva dato in passato e tutti quelli che avevo da sempre voluto dargli. Ogni ricordo che mi tornava in mente aveva un effetto tale da caricarmi di energia violenta e la manifestai tutta attraverso le botte che gli appioppai sulla faccia, sino all'ultimo che fu molto più aggressivo di tutti quelli precedenti tant'è che inciampò su se stesso nel tentativo di svincolarsi dalla mia salda presa.

Il suo corpo si accasciò su un fianco e rotolo gemendo di dolore tuttavia non mi fermai e non riuscii a interrompere i colpi che sentivo di dovergli dare per tutto quello che mi aveva fatto passare: ogni pugno era riservato a qualcosa in particolare, ogni punto che gli davo era significativo e sapevo che fosse riferito a tutte le azioni del passato che mi avevano fatto sentire prigioniero e vincolato ad una vita spregevole che non volevo.

Le prime botte erano riservate solo al bene di mia madre, lo stavo colpendo perché era stato un infame e perché non volevo neppure che la nominasse, non se la meritava e se avessi potuto avrei fatto in modo di fargliela scordare per sempre, ragion per cui le mie nocche si scaraventarono ancora più forte sul suo viso mentre i colpi a seguire erano per il dolore che aveva causato a me. Per gli abusi psicologici, per le minacce, per la parolacce che mi indirizzò sin da bambino e se fossero stati solo per quello, allora forse avrei trovato il coraggio di fermarmi in tempo tuttavia non ne fui in grado per il semplice motivo che mi tornarono alle mentre tutte le altre cattiverie che avevo dovuto subire a causa sua, la figura che in teoria avrebbe solamente dovuto proteggermi come nessun altro e amarmi incondizionatamente e pertanto mi feci sopraffare dal passato e ancora una volta dal rancore e dall'odio che provavo verso di lui. Era un modo per ricambiare tutti gli schiaffi che in quel momento capii di non meritare affatto, per avermi privato delle normali abitudini di ogni mio coetaneo ma più di tutto per avermi privato della mia mamma.

Udii i lamenti che fuoriuscirono dalla bocca di mio padre e godei nel sentirli, provai piacere nel sapere che in quel momento stava provando dolore che stava soffrendo nell'avermi sopra di lui rabbioso come una bestia.

La vista mi si appannò per qualche istante ma sapevo ancora di avere una preda sotto di me, una preda che avrei sbranato sino a che non avrebbe inalato il suo ultimo respiro.

Mi sentii indomabile, potente e forte come un re, mi parve di provare da sempre il bisogno di fargli del male e considerando che per troppo tempo avevo represso quel mio desiderio, sgorgò tutto insieme finendo in un dramma vero e proprio.

Non fui capace di darmi un freno, non riuscii a fermarmi. Lanciai un urlo colmo di disperazione e senza pensarci affondai le mani nella sua chioma ricoperta di gel, l'afferrai saldamente e iniziai a sbattere la sua testa sul pavimento, giurai che non mi sarei fermato fino a che non si sarebbe aperta in due e avrei visto il suo cazzo di cervello venire fuori come un fiore appena sbocciato. Volevo vedere cosa avesse in quella testa di merda per arrivare a stuprare sua moglie e a picchiare il suo stesso figlio.

Le mani cominciarono a prudermi dalla voglia di ucciderlo tuttavia solo quando formulai quel pensiero mi resi conto che la figura sotto di me non stava più provando a contrastare né a lamentarsi. Mi alzai immediatamente dal suo busto e guardai quella scena solo per qualche secondo.

Che avevo fatto?

Perché non respirava più?

Perché non mi stava più guardando con quell'odio negli occhi?

Perché non ero felice di aver messo fine alla sua vita? Avevo davvero messo fine alla vita di mio padre? Era quello che realmente volevo o mi ero solo fatto prendere dalla foga.

L'erba mi aveva dato alla testa, facendomi sentire leggero, vuoto e mi diede la sensazione di stare sdraiato su una soffice e bianca nuvola tuttavia in quel momento mi sentii pesante, schiacciato da un peso che non sarei riuscito mai a mantenere e difatti il mio corpo iniziò a reagire male. Mi alzai definitivamente e feci qualche passo per allontanarmi da lui. Le mani mi tremarono subito dopo, la testa venne avvolta da un capogiro insopportabile che mi fece perdere l'equilibrio e difatti caddi all'indietro e sbattei la schiena contro il mobile del salone. Non sentii il dolore all'impatto ma sentii il dolore in tutto il corpo, proprio come se qualcuno mi avesse appena investito, mi sentii mancare l'aria, una sensazione peggiore di quando mio padre provò a soffocarmi con una mano sola e credetti di morire per un attimo.

Non potevo credere a quello che avevo appena fatto. Non poteva essere vero.

Strizzai gli occhi come per appurare di non trovarmi in un brutto sogno, quello che sperai che fosse o probabilmente per il semplice fatto che avrei voluto cancellare tutte le mie azioni.

Che cazzo mi ero preso? Perché stavo piangendo?

Stavo piangendo davvero?

Le dita tremolanti raggiunsero una guancia e la tastarono per costatare se fosse bagnata e mi accorsi velocemente che fosse davvero colma di lacrime, motivo per cui mi allarmai ancora di più di quanto non già non fossi. Perché stavo avendo quella reazione tanto agitata? Perché mi sentivo confuso come se mi trovassi su una barca in balia della peggior tempesta che il mare potesse ospitare.

Quella era stato il mio primo caos mentale e me lo ricordo proprio come se l'avessi vissuto di recente, anche se avrei preferito non ricordarlo o non averlo vissuto affatto.

Cercai invano di regolarizzare il mio respiro, mi portai una mano all'altezza del cuore ma in verità l'unica cosa che avrei voluto fare era portarmela ai capelli per strappare ogni ciocca senza alcuna pietà. Sentivo di avere altra rabbia in corpo e non sapevo come scaricarla, soprattutto dopo quello che avevo fatto.

No, non l'avevo fatto. Non avevo il coraggio di aprire gli occhi e andare a controllare da vicino. Volevo solo sparire da quella casa e non tornare mai più.

Provai a deglutire ma mi si formò un nodo alla gola che non riuscii a sbrogliare e mi diede come l'impressione di provare ancora il dolore che mi aveva causato precedentemente mio padre, quando aveva portato le sue mani rugose attorno al mio collo. Era la stessa sensazione ma quella volta attorno al mio collo non vi era nulla se non un senso di colpevolezza che mi stava asfissiando e che mi portò a graffiarmi la gola con le unghie. Cercai di indietreggiare ancora, striscia da seduto ma sebbene mi fossi già allontanato dal corpo caduto di mio padre mi parve di non distaccarmi affatto e i miei occhi, che fossero aperti o chiusi, non rimossero quella scena e quel loop che mi portò meccanicamente a rigurgitare tutto l'alcool che avevo ingerito.

Mi asciugai la bocca con il palmo della mano e mi scostai dal mio stesso vomito, non capendo se fosse per la sbronza o per il voltastomaco che mi diede tutto quell'avvenimento. Cercai di mettermi in piedi ma le forze me lo impedirono, scoppiai così a piangere disperato cercando comunque di sopprimere i miei singhiozzi rumorosi.

Avrei voluto chiedere aiuto e qualcuno all'interno della villa me l'avrebbe anche potuto dare ma non potevo urlare o chiamare qualcuno, non in quelle condizioni ma soprattutto non con la visione che avevo davanti. In quel preciso istante il panico si impossessò di me, cosa sarebbe successo se qualcuno mi avesse scoperto? Se qualcuno avesse sceso le scale proprio in quel momento? Mi portai le mani ai capelli e li tirai di poco irrequieto tuttavia quei dolori che mi stavo infliggendo non erano abbastanza, non mi calmarono neppure un po' e non servirono per trovare sollievo e se da un lato sarei voglio scappare da quella situazione straziante quanto accidentale dall'altra ero consapevole di dover prendermi le mie responsabilità e che non potevo lasciare il mio destino alle mani del caso.

Dovevo fare qualcosa e dovevo farla alla svelta, prima che qualcuno mi cogliesse in flagrante e mi riducesse in miseria ma mi pareva di non esserne in grado.

Avevo la tachicardia, le immagini sembravano così reali eppure a me pareva solo un incubo o forse era quello che avrei voluto che fosse.

Il tempo si era come fermato, le lancette dell'orologio parevano non avanzare neppure di un centimetro tuttavia scorreva, era inevitabile ma non riuscii a stare al passo dei secondi che diventavano minuti e dei minuti che diventavo ore. Il sole sarebbe sorto a breve e così a seguire anche la villa si sarebbe svegliata presto, dovevo affrettare il mio procedimento se non volevo beccarmi una vita colma di mediocrità, di oscurità e isolamento.

Forse quella era solo l'occasione giusta per essere finalmente libero come avevo da sempre sognato tuttavia dovevo agire alla svelta sennò mi sarei sentito ancora più intrappolato di prima e soprattutto per l'eternità.

Il futuro brillante che avevo da sempre impresso nella mia mente e allo stesso tempo in quella che mi stavano accanto, aveva ora preso dei tratti pessimistici che non avevo neppure mai immaginato. Avevo ucciso una persona, il sangue del mio stesso sangue era appena diventato una vittima e a quel pensiero le mani cominciarono a sudarmi, il mio corpo divenne teso e nervoso, tanto che quando mi voltai mi spaventai della mia stessa ombra, che di sfuggita mi parve una figura con la pistola in mano.

Cominciavo a vedere cose che non esistevano a causa della troppa paura, quello era terrore puro e non l'avevo mai provato prima di allora. Iniziavo ad avere le traveggole a causa della crudeltà che non credevo mi appartenesse e che non credevo appartenesse nemmeno al genere umano.

In pochi brevi istanti avevo ammazzato uno degli uomini più celebri della Corea, uno di quelli che non era possibile nascondere agli occhi della gente, uno di quelli che se scompariva da un momento all'altro avrebbe fatto sorgere delle domande in tutto il mondo. Se fosse stata un'altra persona, magari priva di personalità o molto meno considerevole alla stampa e persino alla gente più importante che aveva attinenza alla politica, sarebbe potuto passare inosservato al contrario mio padre non lo era affatto. Tutti si sarebbero chiesti della sua scomparsa, non vi era alcuna maniera di sottrarsi a quel danno ma prima di gettare via ogni speranza, cercai di aggrapparmi alla prima che mi venne in mente ma allo stesso tempo all'ultima che mi rimaneva.

L'unica persona sulla quale avevo da sempre fatto affidamento e sicuramente se avesse accettato di aiutarmi anche in quella occasione, sarebbe stata anche quella sulla quale lo avrei fatto per sempre.

Cercai di non gettare lo sguardo sul corpo inerme di mio padre poiché ero troppo vigliacco per controllare le sue condizioni ma allo stesso tempo non ero così scemo da non comprende che la botta che gli avevo dato gli aveva costato la vita e soprattutto il sangue attorno a lui, che aveva sporcato l'elegante moquette di legno, lo avevano privato di respirare ancora.

Alla fine contro ogni aspettativa riuscii ad alzarmi e a sostenere sia il peso del mio corpo sia la colpa che portava, le mie paure cominciarono a pesare come dei macigni, provarono a schiacciarmi lentamente ma la volontà di trovare una soluzione fu più forte di qualsiasi altra cosa e così cercai di raggiungere il mio telefono.

Avevo bisogno di qualcuno su cui fare affidamento e quella persona era senza dubbio il mio amico d'infanzia, quello che diceva di stare al mio fianco solo perché non aveva di meglio da fare, che a parole non mi aveva mai dimostrato nulla ma che a fatti mi aveva dato tutto l'amore del mondo, lo stesso che non credevo di meritare dal momento che io come lui non gli avevo mai dimostrato nulla se non una semplice e banale amicizia sin dai primi tempi. Mi era stato accanto dopo la morte di mia madre quasi in maniera ossessiva, non mi aveva mai lasciato da solo e sebbene al funerale e solo in seguito anche alla cerimonia di addio ci fossero una quantità industriale di persone, io mi sentii solo e abbandonato ugualmente. Se non fosse stato per Jimin avrei voluto trovarmi sottoterra con mia mamma eppure quel bambino che solo dopo è diventato un ragazzino dalla testa sempre in aria, provava giorno dopo giorno a rendermi la vita più vivibile e mi dava sempre una ragione per la quale continuare a respirare. Gli dovevo letteralmente la mia vita e sapevo che mi avrebbe aiutato anche al costo di finire in guai seri.

Acchiappai il telefono del salone e composi il numero del mio migliore amico, sperando che fosse sveglio o che perlomeno si svegliasse a causa dei miei squilli. Mi ero affidato molto su di lui in tutti quegli anni ma mai mi era capitato di disturbare il suo sonno, motivo per cui probabilmente quella notte lo spaventai a morte.

"Taehyung?" rispose con la voce vischiosa, segno che stava riposando come giusto che fosse.

"Jimin" riuscii solo a richiamarlo poiché il solo emettere una parola mi fece scoppiare a piangere di nuovo, tanto che lo allarmai immediatamente, sentii un rumore dall'altra parte della cornetta e immaginai che si fosse alzato di scatto dal letto.

"Che succede Tae?" domandò con il fiato corto ma al telefono non potei dire nulla di più.

"Ti prego ho bisogno di te" piagnucolai come un bambino.

"Sto arrivando, non ti muovere Taehyung" ordinò. "Non fare nulla finché non sono da te" mi esortò prima di agganciare e correre verso casa mia. Non eravamo molto distanti tuttavia sarebbero passata sicuramente più di mezz'ora perciò in quel lasso di tempo cercai di ideare un piano dettagliato che non ci avrebbe messo nei casini ma soprattutto che avrebbe fatto in modo che nessuno ci potesse mai scoprire o anche solo dubitare di noi, due semplici ragazzini.

Per quanto mi sforzassi però non riuscivo a formulare un pensiero di senso compiuto e l'unica cosa che la mia mente era in grado di partorire erano quelle immagini che si ripetevano dentro di me, proprio come un filmato messo in loop. Io che entro in escandescenza per l'indignazione di una frase ma anche per tutto quello che mi aveva fatto passare in precedenza, li avevo collezionate tutte perché non riuscivo a dimenticare nulla e così quella semplice frase sulla quale sarei potuto andare oltre, aveva acceso in me un pretesto per poter mettere fine a tutta quella agonia che si prolungava da troppo tempo. Avevo permesso che l'ira si impossessasse del mio corpo per qualche istante, lo stesso istante che mi era costato una vita in continua accusa e lo stesso che mi aveva reso un impetuoso voglioso di sangue e di vendetta. Ripensai velocemente a tutta la mia inutile giornata ma senza che me rendessi conto il mio cervello tornava sempre al secondo prima che spaccassi il cranio del mio stesso padre, il momento esatto in cui persi per la prima volta il controllo del mio corpo e diedi ragione solamente al mio istinto, potendo essere così facilmente paragonabile ad una bestia.

Un vero e proprio mostro.

Era quello il termine giusto che veniva utilizzato dalle persone per identificare un assassino, io lo ero appena diventato. Avevo ucciso una persona e quante altre ancora ne avrei potuto uccidere? D'altronde l'avevo già fatto una volta, sarei stato in grado di farlo una seconda volta?

Mi sarei dovuto far rinchiudere, probabilmente era quella la scelta più facile e soprattutto più giusta. Sarei dovuto essere dietro le sbarre di una cella, insieme a tutti coloro che erano stati capaci di commettere un omicidio. Non poteva essere considerato solo un errore. Io non volevo ucciderlo ma l'avevo fatto tuttavia non ero pronto per pagarne le conseguenze e probabilmente non lo sarei stato mai.

Lui mi aveva rovinato la vita già per troppo tempo, non potevo permettere che continuasse a rovinarmela anche da morto.

Avrei dovuto reagire.

E fu proprio in quel preciso istante che mi convinsi che quel gesto bruto che avevo commesso quasi involontariamente, come se le mie mani avessero deciso ancora prima della mia testa, fu in realtà voluto, premeditato da tempo e quasi mi obbligai a credere che fosse stato un volere della mia anima. Era quello di cui avevo realmente bisogno ma soprattutto era anche il volere di mia madre.

"Mamma" sussurrai al pensiero di lei, alla sua figura che teneva sempre fissi gli occhi su di me, che mi proteggeva e mi accudiva anche dal cielo. Mi vennero i brividi all'idea che mi avesse guardato mentre mi macchiai la coscienza di una colpa indelebile e le mani di un rosso sangue che mi lasciò la pelle rugosa. Provai a strofinarle nei pantaloni ma la sensazione di lerciume rimase così provai ancora, finché i palmi non cominciarono a bruciare per il dolore.

Io avevo ucciso mio padre per il semplice fatto che avevo perso il controllo delle mie azioni, avevo lasciato che l'impulso prendesse il comando su di me e finii per condannarmi ad una vita di rimpianto e sofferenza tuttavia in quel momento mi convinsi di non averlo fatto casualmente, senza alcuna intenzione, anzi a differenza di come erano realmente andate le cose mi invogliai a credere che l'avessi fatto volontariamente e per una persona in particolare

Pensai che sarebbe stata la maniera migliore per esprimere la mia vendetta, non solo verso di me ma specialmente per mia madre che non meritava tutte quelle pene.

Da lì nacque la frase che portai non solo dentro al mio cuore ma che scrissi anche dietro la fotografia che avevo fatto incorniciare per tenerla sempre con me all'interno del mio studio.

"Non ti ho potuto salvare ma ti ho vendicata" era quello che pensai, forse per trovare una giustificazione o forse solo per cercare di mettere a posto tutti i pezzi che erano rimasti sparsi per troppo tempo. Quella frase tuttavia mi fece sentire meglio, mi fece sentire sollevato e meno colpevole di quella vicenda perciò la portai dietro con me, come per ricordarmi che dietro a ciò che avevo commesso vi era una ragione di fondo e quella ragione era la morte prematura di quella donna.

Avevo sei anni quando mio padre mi privò della presenza di mia madre e ne avevo sedici quando io stesso mi privai dell'unica figura che mi era rimasta.

Sospirai. In cuor mio sapevo di aver fatto bene ed era proprio quel pensiero che mi spaventava. Avevo il terrore di me stesso e delle mie prossime azioni.

Quando posai il cellulare sul mobile accanto al divano, fu inevitabile scontrarmi con l'ampio specchio a muro che mi si ritrovò davanti. Sbattei le palpebre un paio di volte a quella visione e guardai il mio riflesso malandato: avevo i capelli scompigliati dalle botte che avevo preso da mio padre, il collo era graffiato dalle mie stesse unghie, le guance erano leggermente arrossate dal calore che emanava il mio stesso corpo e gli occhi erano completamente dilatati a causa delle canne e umidi dal mio pianto.

Ero una schifezza tuttavia non provai alcuna compassione. Facevo orrore e mi venne la nausea solo a fissare il mio aspetto, avevo davvero le sembianze di un mostro e immediatamente ebbi paura di dover provare quella sensazione per il resto dei miei giorni.

Quando sentii un rumore giungere dall'estero saltai in aria e impugnai il primo oggetto che mi si presentò davanti, come per potermi difendere da un possibile attacco. Inizialmente ebbi timore che mio padre si fosse rialzato e che fosse di nuovo pronto per aggredirmi e probabilmente una parte di me ci aveva anche sperato tuttavia in men che non si dica mi resi conto che fossero i passi di una persona proveniente da fuori e così mi calmai. Respirai affondo e mi preparai in caso di attacco tuttavia l'ombra bassa e minuta che oltrepassò la finestra accanto alla porta principale, mi diede un indizio sicuro su chi fosse.

Aprii l'ingresso ancora prima che suonasse il campanello cosicché non svegliasse nessuno in casa, lo afferrai dal polso e lo feci entrare velocemente ma quasi di soppiatto.

"Stai bene" disse accompagnato da un sospiro di sollievo, come per dire "allora sei vivo" e fu lì che avrei voluto rispondere "si, ma c'è qualcun altro che è passato a miglior vita" malgrado quello sfizio, mi ritrovai semplicemente ad annuire alla sua affermazione. "Mi vuoi dire che cosa sta succedendo? Non sono nemmeno le quattro del mattino" si lamentò giustamente gesticolando tuttavia il mio iniziale silenzio lo turbò come neppure la mia supplica al telefono aveva fatto.

"Jimin non so cosa fare" cercai solo di parlare ma le parole mi uscirono solamente se accompagnate da un pianto sfrenato e da dei spasmi eccessivi che non sapevo come placare. "Non so cosa ho fatto" aggiunsi perché ero incerto sia di ciò che avevo fatto sia su quello che avrei dovuto fare per aggiustare quell'accaduto, sul quel presente ma anche su quel recente passato che gravava già sulle mie fragili spalle.

"Calmati Taehyung" allungò le mani per toccarmi e darmi conforto. "Così non capisco nulla e non posso aiutarti"

"Tu devi aiutarmi" quasi gridai, in preda alla disperazione facendogli così sgranare gli occhi. Non mi aveva mai visto in quella maniero, ne ero certo perché neppure io mi ero mai visto in quelle condizioni di smarrimento e scarsa lucidità. "Io non volevo Jimin, non l'ho fatto di proposito te lo giuro" continuai sconnesso cercando di fargli capire ciò che avevo fatto senza però dirlo davvero, senza dirlo ad alta voce perché non ne ero ancora in grado e forse cercai anche di giustificarmi ancora prima che scoprisse l'atto disumano che avevo compiuto.

Con quale coraggio l'avevo chiamato? Come avevo osato coinvolgerlo in una questione tanto pericolosa? Che cazzo di amico ero?

"Ti aiuto, è ovvio che ti aiuto Taehyung sennò non sarei venuto fino a qui quindi per favore dimmi che ti prende" mi disse stringendomi le braccia e a quel punto decisi di mostrargli direttamente ciò che avevo fatto piuttosto che cercare di spiegarlo a parole, considerato che non riuscivo neppure a formulare una frase di senso compiuto, credei che quella fosse la scelta migliore da fare. Lo presi per mano debolmente e feci strada verso il grande salone ancora poco illuminato tuttavia era ben evidente il corpo inerme di mio padre su quel pavimento freddo e macchiato ormai del suo stesso sangue, che in quell'oscurità pareva di colore nero piuttosto che rosso.

I nostri piedi si immobilizzarono alla vista del corpo di mio padre ormai senza vita e mentre lui rimase con lo sguardo fisso sulla sua figura, io spostai lo sguardo verso di lui giusto per vedere la sua reazione, i suoi occhi erano sgranati e la sua bocca era rimasta aperta formando così una piccola "o" di totale stupore. Sarebbe scappato? Avrebbe lasciato la mia mano? Aggrottai le sopracciglia aspettando che parlasse o che facesse qualsiasi cosa tuttavia lo shock probabilmente lo aveva traumatizzato tanto che non riusciva neppure a ribattere, così mi girai nuovamente verso il cadavere che giaceva a terra a pochi metri da noi. Aveva gli occhi spalancati ed erano ormai privi di lucentezza, come se all'interno non ci fosse più realmente alcuna anima mentre sulla testa aveva un buco dalla quale continuava a fuoriuscire del sangue e che non riuscivo a posare lo sguardo poiché ogni volta che lo facevo, mi veniva da vomitare soprattutto al pensiero che ero stato io a crearlo. Il suo cranio era sfondato dalla tempia e la nuca così come il collo era ricoperto da una pozza di sangue che pareva ingrandirsi sempre di più con lo scorrere dei minuti, avevo evitato di osservarlo prima di quel momento poiché non trovavo il coraggio tuttavia con Jimin al mio fianco, ero riuscito a trovarlo.

Percepii il suo respiro diventare sempre più irregolare e come avevo immaginato lasciò la presa della mia mano, però non per dirigersi verso la porta e urlando che fossi solamente un pazzo e un criminale con la quale non voleva avere nulla a che a fare al contrario mi mollò solamente per avvicinarsi al corpo di mio padre. Era evidentemente molto più audace di me che non avevo neppure la fermezza di esaminarlo per più di un minuto intero, forse perché sapevo di aver causato il suo decesso mentre Jimin aveva assistito unicamente alla salma esamine e attaccato al rivestimento della pavimentazione.

I suoi passi erano graduali e titubanti, malgrado ciò però arrivò ad una vicinanza che io non credevo possibile, era come se volesse esaminarlo meglio come per controllare in maniera definitiva che fosse deceduto davvero e che non si risvegliasse da un momento all'altro.

"È morto" esclamò in un sussurro portandosi una mano alla bocca, era sconvolto ma non tanto quanto avevo immaginato.

Che mi credesse capace di fare una cosa del genere? Magari l'aveva sempre pensato che avrei finito per ammazzarlo? O forse era tutta una mia impressione dovuta dal fatto che fossi fottutamente spaventato e quella paura di conseguenza generava insicurezza, che mi avrebbe portato a vedere nemici dopo non c'erano, nemici nel corpo di amici.

Jimin mi avrebbe tradito? Sarebbe scappato lontano da me dopo che aveva accurato ciò di cui ero capace? Si sarebbe disgustato al punto che avrebbe spezzato la nostra amicizia? Erano quelle le domande che mi ero posto nel giro che qualche minuto, gli stessi che si era preso l'arancione per metabolizzare quello che aveva appena visto.

Quella volta non avrebbe dovuto essere preoccupato per me, per le mie ferite e per una volta non avrebbe dovuto avere paura per ciò che mio padre avrebbe potuto farmi, al contrario avrebbe dovuto avere paura di me, di quello che ero stato capace io di fare.

Jimin aveva preso la chiamata ma non aveva riflettuto abbastanza ragion per cui mi aveva soccorso immediatamente, aveva corso per darmi un aiuto tuttavia in quella frazione di secondo avrei capito se mi avesse dato un ceffone e poi avrebbe chiamato la polizia per farmi imprigionare e per tenermi lontano da lui.

Era la cosa più giusta che allora potesse fare tuttavia oltre ogni presupposizione si avvicinò a me, ancora traumatizzato da quella visione sotto di lui.

"Abbiamo ucciso il signor Kim" sussurrò tremando.

Abbiamo.

Fu in quel momento che capii che non mi avrebbe mai tradito; una parte di me apparteneva a lui e una parte di lui sarebbe appartenuta a me per sempre. Eravamo anime gemelle e quel giorno le nostre già salde affinità, si unirono maggiormente in un unica mente e in un unico cuore. Eravamo due persone distinte e separate ma era come se fossimo una sola poiché quel crimine ci avrebbe legato per sempre, quasi controvoglia e forzatamente.

Jimin tramite quelle parole mi fece comprende che non fosse intimorito da me, che non mi giudicava e che si sarebbe preso la colpa senza neppure che glielo chiedessi. Aveva messo piede dentro quel salone come se fosse al corrente di ciò che avevo fatto, ma convinto e disposto a condividere con me quel fardello. Per me si sarebbe preso quella colpa e avrebbe rischiato il suo futuro.

Quel plurale aveva semplicemente fatto in modo che non mi sentissi mai più solo e quel giorno ebbi la conferma che avrei potuto contare per sempre su qualcuno e quel qualcuno era proprio Jimin.

Spazio Autrice

Capitolo leggermente crudo ma mi è piaciuto tantissimo scriverlo, spero sia piaciuto anche a voi soprattutto per farvi comprendere appieno le sue azioni passate, considerato che dal punto di vista di Jungkook non è molto evidente. Purtroppo lui tende a non mettersi nei suoi panni e forse anche per questo non riesce a capirlo ne tantomeno a perdonarlo.

Ovviamente non è finito qui, il flashback continuerà nel prossimo capitolo per capire che fine farà il cadavere ma specialmente come Jimin darà il suo contributo al suo amico.

-Federica

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