Capitolo 43


Urla confuse mi rintronano nelle orecchie, mischiandosi al suono martellante del battito del mio cuore che, come un'orchestra impazzita, non smette di battere furiosamente.

Poi, uno sparo squarcia l'aria.

Il colpo infernale mi rimbomba nel petto, nei timpani, persino nelle punte delle dita, come un eco instancabile. Infinito. Doloroso.

Chiudo gli occhi e tento di portarmi le mani alle orecchie, nel disperato tentativo di allontanarlo, ma qualcosa me lo impedisce.

Abbasso lo sguardo ed è proprio in quel momento che mi accorgo di stare impugnando una piccola pistola.

Allora... sono stata proprio io a sparare?

Inorridita, lancio quell'oggetto mortale lontano da me, come se mi fossi appena resa conto di star reggendo un peso insostenibile.

Il senso di colpa incomincia a mordermi la coscienza, pezzo dopo pezzo, fino a quando l'unica cosa che riesco a desiderare è di raggomitolarmi su me stessa; accartocciarmi come un inutile foglio di carta, nella speranza di riuscire a sparire.

Tuttavia, un'inaspettata ondata di coraggio, una purissima infusione di energia, mi sprona a cercare di rialzarmi in piedi.

"Pensa ad Alex", strilla una voce dentro di me, così forte da graffiarmi i timpani. "Pensa-ad-Alex".

Le ginocchia, però, si piegano sotto il mio peso, incapaci di sorreggermi.

Tremo mentre, ancora una volta, mi ritrovo a terra, frustrata e amareggiata.

Poi, un gelo improvviso e soffocante mi cade addosso, come il peggiore degli inverni; mi ghiaccia i pensieri, mi blocca il respiro e, lentamente, mi rallenta i battiti cardiaci, fino quasi a fermarmi il cuore.

Quando il buio mi invade le membra, strappandomi definitivamente dalla realtà, non sento più niente.

***

Spalanco gli occhi di colpo e boccheggio alla ricerca d'ossigeno.

Come se fossi appena riemersa dalle profondità dell'oceano, apro e chiudo la bocca più volte, in maniera frenetica.

<<Si è svegliata, Marie!>>

<<Dio, Tessa, Finalmente!>>

<<Sia ringraziato il cielo!>>

<<Andate a chiamare il medico!>>

Qualcuno mi abbraccia con dolcezza, facendo attenzione a non farmi male, come se fossi fatta della stessa sostanza del vetro. Qualcun altro, invece, mi tiene la mano e continua ad accarezzarmi in maniera gentile.

Cerco di dare un volto a quelle voci, ma impiego diversi minuti prima di riuscirci.

E quando finalmente sono in grado di mettere a fuoco, mi rendo conto di trovarmi in un'asettica camera d'ospedale.

Il bianco avvolge ogni cosa, dalle lenzuola immacolate, alle spoglie, anonime mura. Persino la fredda luce del giorno, che filtra da un'enorme finestra senza tende, sembra incolore.

Ma sono un paio di occhi scuri, così neri da non riuscire quasi a distinguere l'iride dalla pupilla, ad attirare la mia attenzione: Andrew è vestito di nero dalla testa ai piedi e spicca in mezzo a quel candore, come un'enorme macchia di inchiostro su un foglio intatto.

Seduto accanto al letto, non accenna ad allontanare la mano dalla mia mentre domanda: <<Come ti senti, Tessa?>>

<<B-bene... credo>> ribatto, strascicando le parole.

Poi, piego la testa dall'altro lato e riconosco il viso familiare della nonna. <<Ci hai fatto preoccupare, tesoro>> piagnucola, avvicinandosi a me e accarezzandomi una guancia.

<<Come... sta... Alex?>> domando immediatamente.

Mentre attendo la risposta, il cuore incomincia a martellarmi nel petto.

La nonna sembra restia a ribattere, quasi combattuta, e nel suo sguardo non leggo altro che apprensione.

Forse sta valutando se sia il caso di dirmi la verità o meno...

Ma per quale motivo?

Prima che il mio cervello possa formulare tragiche teorie, il nonno fa il suo ingresso nella stanza, seguito a ruota da quello che ha l'aria di essere un medico.

È piuttosto giovane e di bell'aspetto: la pelle bronzea, i capelli biondi e gli occhi chiari tradiscono le sue origini, probabilmente californiane.

In altre circostanze mi sarei senz'altro soffermata ad ammirare il suo sorriso luminoso e le fossette ai lati della bocca.

<<La paziente si è svegliata, finalmente>> esclama, senza smettere di sorridere.

Andrew e i nonni si allontanano dalla camera per lasciare che mi visiti e, poco dopo, un'accecante luce mi viene direttamente puntata negli occhi.

<<Ricorda cos'è successo, signorina McRayan?>> mi domanda, mentre controlla che la dilatazione delle pupille sia nella norma.

Annuisco un paio di volte.

Ovvio che ricordo.

Sono cosciente di ogni cosa: del litigio con Michael, del rapimento, dello schiaffo e del colpo alla testa; ricordo il risveglio traumatico, la confessione di Mike, le imprecazioni di Alex mentre, per la seconda volta, si trovava a fare a pugni con il ragazzo che ha tentato di portargli via tutto per... vendetta.

Ma soprattutto, non dimentico l'assordante fragore dello sparo...

Michael sarà sopravvissuto al colpo che gli ho inferto?

Dovrebbe importarmi, eppure la rabbia e l'odio che provo nei suoi confronti, in questo momento, sembrano accecare ogni altro sentimento umano.

Persino la pietà o il senso di colpa crollano a terra, sconfitti da un enorme, ineguagliabile senso di giustizia: una parte di me, la più irrazionale, è convinta che quel ragazzo meritasse di morire.

<<Mic... Il mio aggressore è
sopravvissuto?>> indago.

<<Non posso dare queste informazioni...>> ribatte il medico, mentre delicatamente mi sfila le bende che mi avvolgono il capo, al fine di controllarne la ferita.

<<La prego, dottore>> tento di convincerlo, posando una mano sul suo avambraccio.

Lui esita, ma alla fine si decide a parlare.

<<Il signor Kane ha subito un'operazione piuttosto delicata>> mi spiega. <<Ha perso molto sangue, ma la pallottola si è limitata a colpire la spalla sinistra, senza compromettere alcun organo interno. È ancora in coma farmacologico, ma c'è una buona probabilità che sopravviva, sì.>>

Misteriosamente, sento farsi strada dentro di me un sollievo inaspettato: in fondo, realizzo, non ho mai seriamente desiderato che Michael morisse.

L'obiettivo era solo quello di allontanarlo da Alex ed evitare che quel ragazzo mettesse in atto il suo folle piano.

È proprio questo che racconterò alla polizia, quando deciderà di interrogarmi: si è trattato semplicemente di una disperata manovra di difesa.

<<Bene!>> esclama il giovane medico, sfoderando un ampio sorriso. <<Sembra che la ferita stia lentamente migliorando. Se non dovessero insorgere imprevisti, tra un paio di giorni dovrebbe essere già libera di tornare a casa, signorina.>>

<<Grazie di tutto, Dottor...>>

<<Taylor. James Taylor>> termina lui per me. Poi, dopo avermi informato che tra qualche minuto un'infermiera verrà a medicarmi, esce dalla stanza.

Trascorsi pochi secondi, però, è Andrew a bussare alla porta.

Lo sprono ad entrare con un gesto della mano, ma lui sembra indugiare sulla soglia.

Alla fine, si decide a tornare a sedersi accanto a me sul letto, ma si rifiuta di guardarmi.

<<Avrei dovuto metterti in guardia>> esordisce, continuando a tormentarsi le mani.

<<T-tu... sapevi tutto?>> trasalisco.

<<Lasciami spiegare, Tessa>> mi implora ed io, riluttante, decido di starlo a sentire.

<<Michael ed io siamo amici ormai da molti anni>> incomincia a raccontare. <<Quando ha saputo che lavoravi per mio padre, circa un paio di mesi fa, ha incominciato a cercare di estorcermi informazioni sul tuo conto. È solo allora che ho scoperto ciò che era successo tra voi. O, per lo meno, ciò che lui voleva che sapessi.>>

Fa una pausa, poi prosegue: <<All'inizio si trattava per lo più di semplici domande riguardanti la tua salute, il tirocinio o l'università... Ma più i giorni passavano, più le richieste aumentavano. Io, dal canto mio, ho sempre cercato di restare sul vago, talvolta evitando addirittura di rispondere.>>

Andrew si zittisce di nuovo, probabilmente per sondare la mia reazione, e vedendo che non ribatto, continua: <<Ero convinto che si trattasse di una semplice fissa passeggera, ed è per questo che ho evitato di parlartene: immaginavo quanto sarebbe stato doloroso per te disseppellire il passato e non volevo turbarti. Di certo non potevo sapere che la sua fosse una vera e propria ossessione. O che stesse studiando un piano per farti... per farvi del male.>>

Io annuisco distrattamente, satura delle infinite informazioni appena ricevute.

<<Perché era alla festa?>> domando qualche secondo dopo.

<<Desiderava vederti prima che ti trasferissi dall'altra parte della città. Diceva di volerti chiedere scusa per qualcosa che era successo tra voi, al fine di mettere un punto definitivo al passato. Ed io sono stato così stupido da credergli...>>

<<Che cosa ti ha raccontato a proposito di ciò che è successo un anno fa?>> continuo ad indagare.

<<Non è entrato nei dettagli>> ribatte il mio collega. <<Si è limitato a dirmi che dopo una serie di spiacevoli eventi, poiché Alex non faceva altro che trascurarti e addirittura tradirti, hai deciso di... concederti a lui. Ma te ne sei pentita e la vostra storia è durata solo una notte. A questo punto, suppongo che non si trattasse nemmeno della verità.>>

<<Mi ha drogato, Andrew. Michael mi ha drogato.>> Mi rendo conto che è la prima volta che lo ammetto ad alta voce, e il sapore amaro di quelle parole brucia sulla lingua come caffè bollente.

<<Quel maledetto figlio di...>> Andrew impreca e si leva in piedi bruscamente. Cammina a pugni chiusi, avanti e indietro per la stanza, per diversi minuti.

<<Te lo giuro, Tessa... Se lo avessi saputo. Se fossi riuscito ad intuirlo...>> mormora a denti stretti. Sembra davvero furioso.

Vorrei tranquillizzarlo, ma non mi sento abbastanza in forze per alzarmi dal letto e avvicinarmi a lui.

<<Non incolparti ingiustamente, Andrew>> esclamo. <<Tu ci hai salvato la vita e te ne sarò grata eternamente. Se non fossi intervenuto...>> lascio la frase in sospeso, incapace di continuare, e cerco in ogni modo di evitare di scoppiare a piangere.

Il mio collega si ferma al centro della camera e resta ad osservarmi a viso aperto. <<Ma sei stata tu a salvarti>> mi contraddice dolcemente.

Poi, torna a sedersi al mio fianco e mi prende di nuovo una mano tra le sue. <<Sei stata così coraggiosa... Hai salvato te stessa, hai aiutato Alex e sei addirittura riuscita ad evitare di uccidere quel bastardo.>> Mentre parla, Andrew continua a disegnare cerchi concentrici sulla mia pelle, che finiscono per rilassarmi.

<<Alex...>> Non so se sia la persona giusta con cui parlarne, ma ho bisogno di sapere. <<Come sta?>>

<<Se l'è cavata con un paio di costole rotte e qualche ferita piuttosto profonda, ma tutto sommato sta bene. Dopo aver saputo che ti sei risvegliata, ha deciso di tornare a casa con Katherine...>>

Il mio collega continua a parlare ma io ho ormai smesso di ascoltarlo: il nome di Katherine mi è bastato per decidere di non voler sapere altro.

<<Appena starò meglio>> mi affretto ad interromperlo, <<parleremo dei dettagli del trasferimento.>>

<<Non c'è alcuna fretta, Tessa>> ribatte lui, accennando un sorriso sghembo. <<Adesso devi pensare solo a riposare e a guarire. E non mi riferisco solo a quella>> dice, indicandomi il capo.

Gli lancio uno sguardo confuso, ma prima che il mio collega possa aggiungere altro, un'infermiera piuttosto anziana entra nella stanza.

<<Tornerò domani a vedere come stai>> mi saluta, stampandomi un bacio sulla fronte, mentre io sfodero un sorriso.

Quando è già sulla soglia, però, lo richiamo: <<Andrew, Michael ti ha mai parlato di una certa... Jennifer?>>

<<Se ti riferisci a sua sorella, sì, certo. Ma sono due, forse tre anni che si è trasferita in Italia e che non mette piede in America. Perché me lo chiedi?>>

<<Semplice curiosità>> mento.

Terminata la medicazione, trascorro parecchi istanti a pensare alla sorella di Michael - della quale non mi ha mai parlato, e a scervellarmi per tentare di capire che cosa centri in tutto ciò che è accaduto.

Alex avrà forse avuto una storia con lei?

Ma ben presto, sfinita e indebolita dall'effetto dei calmanti, finisco inevitabilmente per crollare in un sonno privo di sogni.

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