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È circa una settimana che mi sveglio angosciata. Una morsa stringe il mio cuore e l'affanno inibisce i miei polmoni. Mi alzo così la mattina, con lo sguardo spaesato e la sensazione di smarrimento. Ruoto gli occhi da destra a sinistra, poggiando la mano sullo sterno che si contrae velocemente. Respiro ed inspiro. Mi alzo e afferro la bottiglia d'acqua sul comodino. Svito il tappo e ne sorseggio quel tanto che mi basta per rendere il palato meno impasticciato di quanto non lo sia. Madre mia, mi vien da dire, mentre stropiccio la pelle del viso. Ma che mi sta succedendo? Mi asciugo il sudore sulla fronte con un asciugamano. Questa e quella dell'acqua non sono mie abitudini, ma accorgimenti adottati da pochi giorni a questa parte, esattamente da quando ho l'incubo. Unico e solo, che si manifesta nel cuore della notte. Tutte le notti. 

Lo scenario è il medesimo, il comune di Minori, paese dove sono nata e cresciuta. Vedo la sala consiliare adornata con composizioni floreali semplici ed eleganti. Ciuffi di fiorellini bianchi e gialli incorniciati da steli verdi e nastri di paglia. Le sedie in legno sono disposte sul lato destro e sinistro, creando una piccola navata, in fondo alla quale c'è un tavolo e due sedute bianche.

Pietro, il mio futuro marito, è di spalle. Le gambe leggermente divaricate e le mani incrociate davanti. Mi scruto attorno, notando con dispiacere che nessuno dei nostri familiari è qui con noi. Eppure siamo i figli, siamo i nipoti, i cugini, possibile che nessuno sia felice per noi? Abbiamo atteso cinque anni, il nostro primo passo è qui ora. Stiamo per sposarci e nessuno ci celebra. Il sindaco mi invita ad avvicinarmi. Mando giù il magone e mi incammino verso l'altare, passo dopo passo, rivedendo scene di un amore iniziato per caso, con un semplice sorriso. Le risate, i litigi, le vacanze al mare, gli inizi di un nuovo anno. E un anello, accompagnato dalla proposta di matrimonio. Ed io, che si lo voglio.

Poggio una mano sulla spalla di Pietro, chiudendo gli occhi per smorzare la tensione. Sospiro e riapro le palpebre. Faccio un passo indietro. Lo scenario è totalmente cambiato. Sono in spiaggia, davanti all'attracco delle barche. Piove a dirotto, le nuvole nere coprono il cielo. Sono completamente fradicia, i capelli appiccicati al viso. Lui si volta, ma non è Pietro. Non è l'uomo che devo sposare.

Ti sei scordata di me?

Gli occhi profondi di Vito mi riportano indietro di anni ed è a quel punto che mi sveglio ed è a quel punto che mi domando perché dopo tutto questo tempo. 

***

Il negozio di Maria, la fioraia del paese, non è molto distante da casa mia. Imbocco il vicolo di Santa Lucia, soleggiato da un maestoso Giugno. Il tacco quadrato delle mie ballerine schiocca sui sanpietrini. Tra qualche giorno ci sarà la promessa di matrimonio e l'idea di esser così agitata non mi fa impazzire. 

Erano anni che non pensavo più a Vito, al modo in cui ci siamo lasciati. A quel giorno così uggioso che ha fatto da spartiacque tra le nostre vite. Vivendo in un piccolo paese, tutti conoscono tutti ed io Vito l'ho visto crescere, così come lui ha visto crescere me. Tuttavia ho razionalizzato la sua presenza e l'impatto che aveva su di me solo in piena adolescenza, quando, uscita da scuola, mi ritrovavo a passare davanti la boutique dei suoi genitori. Uno di quei negozi di abbigliamento di classe e lusso, dove entrano uomini di un certo tipo, amanti della raffinatezza e del bel vestire. Ed era lì che lo si vedeva di giorno, quando, fatto il suo dovere al liceo, raggiungeva i genitori. Eppure Vito era famoso al bar Stella, dove si esibiva come barman. O meglio aiuto barman, perché a lui dei caffè, dei cocktail, delle camicie sartoriali e delle cravatte non gliene frega nulla. Di quei lavori a lui non importava niente, se non la paga a fine mese. A lui piaceva la divisa, il mare e la Marina militare. E se studiava come un matto o era il primo azionista della libreria del paese era solo per sostenere adeguatamente i test d'ammissione. Questo era il suo unico scopo, la sua missione, il suo riscatto dopo tanti sacrifici.
Lo ricordo bene il giorno in cui lo scrutai per la prima volta. Avevo quindici anni, lui ventitré. Carico di fascino, i suoi occhi scuri e penetranti si scontrarono con i miei che, quel giorno, ero pure abbastanza nervosa. Faceva caldo, l'anno scolastico stava per concludersi ed ero da poco diventata donna.

E che guardi a fà?

Tié- mi passò una bottiglia d'acqua- biv nu poc, staj tropp agitat (Tieni, bevi un po', sei troppo agitata).

Lo guardai in malo modo. Afferrai la bottiglia e me ne andai, non degnandolo di uno sguardo.
Allora non sapevo che per quei occhi avrei perso la testa.

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