Capitolo 9

Asami sbatté le palpebre e aggrottò le sopracciglia, chiedendo: <Che hai? Tutto ok? La tua faccia fa quasi paura.>
<Mh?> mugugnai in risposta, venendo definitivamente strappata dalla gabbia dentro di me da colei che momentaneamente mi ci aveva fatto ricadere.

<Mi hai respinto malamente, strano da parte tua, e... hai sia gli occhi lucidi che le sopracciglia aggrottate. Sembri sul punto di piangere e prendere a pugni qualcosa insieme.> mi spiegò. Passai un dito sotto l'occhio destro e avvertii chiaramente la lacrima che catturai senza volerlo.

<È che... è strano come ti comporti. In questi giorni sei rimasta piuttosto distante sul piano dell'affetto manifestato, sempre incavolata ed indisposta ai MIEI abbracci, mentre quelli di Levi eccome se li cercavi e te la accoccolavi contro...> borbottai a mezza voce, con la rabbia che risaliva e l'allarme "Cazzata in corso" che mi scuoteva dentro. Ah, e tra l'altro, Levi era ispirato a Levi Ackerman di "Attack on Titan" data la sua solita espressività, spesso comparabile a quella del personaggio (soprattutto l'anno prima).

<Amaya...> tentò lei ma ripresi a parlare, dicendomi "Io se faccio una cosa, la faccio fino in fondo!".
<E prima, hai evitato che me ne andassi perché sapevi che ti servivo ancora e che sapevo fin troppi tuoi punti deboli e lacune per lasciarmi a quelli lì e rischiare in una mia qualche vendetta nei tuoi confronti, mh? E ora mi abbracci e fai tutta la dolce perché ti serve un favore dopo giorni di assenza di gesti affettivi, no?>

<Ma...> ritentò lei, ma ancora una volta le parlai sopra, per finire il mio fiume in piena. Era una cosa già notata l'anno scorso e che avevo ingoiato più volte ma adesso, scossa e stanca, dovevo sfogarmi.
<Dimmelo che finché saremo alle superiori mi starai accanto, fingerai nel tuo modo migliore di attrice di essermi vicina al cuore, ma che infine lacererai come tutti gli altri passati prima di te! Dimmelo che sei come tutti gli altri, che così forse in quinta riuscirò a farmene una ragione!>

Volsi lo sguardo su di lei, gli occhi talmente lucidi da appannarmi del tutto la vista e la voce sul punto di rompersi.
<Perché, anche con queste idee sempre in testa, non riesco a lasciarti lontana da me perché con te, "con la tua probabile farsa" sarebbe meglio dire, ci sto bene e non ti tradirei mai o sparlerei male alle tue spalle; solo forse quando mi conficcherai il coltello nel petto mi renderò conto dei miei stessi sbagli. E della verità. Come tutti, mi lascerai. A quanto pare le mie amicizie finiscono sempre così. E forse lo stai già programmando...> sentivo che avevo finito e, anche se avessi voluto continuare a parlare, non avrei mai potuto: uno schiaffo, non così forte ma molto sonoro, mi fu stampato sulla guancia destra.

<Ma che cazzate stai dicendo?> quasi urlò. <Quella tua fottuta vocina, di cui mi hai già parlato, devi sopprimerla, cazzo!, perché non è neanche lontanamente simile a quello che pensi!> e i suoi occhi, anche dietro la sottile plastica delle lenti a contatto, facevano trasparire la sua rabbia; resa quasi più straordinaria dato che la parte sotto degli occhi era miele, a causa dell'esposizione di quella parte dell'iride al Sole. Io me ne stetti zitta, mentre toccava a lei fare il fiume in piena.

<C'è un motivo se in questi giorni sono incavolata, e quello lo sai, ma c'è pure un motivo perché da te gli abbracci non li voglio durante l'incazzatura e anche perché nell'ultima settimana sono stata più fredda con te! E ti avrei spiegato tutto a casa tua più tardi, perché i miei non possono farmi stare a casa mia perché c'è mio fratello malato ed è meglio che io non stia tanto tempo con lui negli stessi luoghi, e perciò volevo chiederti se potevi proporre ai tuoi se potevamo stare insieme a casa tua. Anche perché entrambe ne abbiamo bisogno. Ma a quanto pare tu no.> e, ferita, fece un passo indietro.

Le lacrime mi scorrevano sulle guance, inesorabili, mentre dentro di me avrei voluto darmi ulteriori ceffoni forti in viso per aver agito come cazzo mi pareva, e non come la cauta me avrebbe fatto.
Io NON POTEVO permettermi di farmi vedere per davvero altrimenti avrei perso tutto, io DOVEVO essere come un riccio.

Tutto dentro, tutto dentro, tutto dentro: quella era per me la migliore soluzione.

Ma ormai il danno era fatto, rintanarsi dentro i miei fragili aculei non sarebbe servito a nulla. E usai l'ultimo mio appiglio, feci ciò che mi era più naturale.

<SCUSA!> urlai, prendendole il polso. 
Chiesi scusa per ciò che ero solamente io.
Ecco cos'era la mia ultima carta da giocare, ora dovevo solo sperare di giocarmela bene.

<Scusa.> ripetei più calma, allentando la presa ma non mollando il suo polso (nonostante sapessi che lei non volesse il mio contatto fisico quando era incazzata).
<Ti chiedo di perdonare per l'ennesima volta questa mia parte di me pessima, che fa un mucchio di errori e che non dovrebbe ricevere venia, ma io la chiedo comunque. Sarei contenta di chiedere ai miei e di ospitarti a casa e sapere le tue motivazioni e, come ho detto prima, mi farebbe troppo male lasciarti andare anche se fossi sicura al 100% che tu sia un danno. E io non sono neppure sicura se sia proprio tu il danno tra noi due.> risposi, mettendomi a nudo. Praticamente avevo preso la mia anima dalle parti recondite di me e gliel'avevo mostrata.

Ora stava lei decidere che farci: buttare a terra quella fragile me, rompendola, o tenerla in mano con delicatezza, salvandola. Contro tutto il mio lato pessimista, mi abbracciò forte e immerse la faccia nel mio petto, ad altezza clavicole. Sorrisi commossa, aveva scelto di tenere in mano la mia anima, mi aveva dato un'altra opportunità.

<Tu hai perdonato mille e mille miei orribili atteggiamenti, pure quelli della scorsa settimana e soprattutto dello scorso anno. E tu non hai mai fatto in modo di essere consolata, solo consolatrice; praticamente. Se non ti perdonassi, che amica sarei?> chiese infine retorica e non potei essere stata più contenta di quelle parole. La tenni stretta a me, credo quasi comprimendola, ma avevo paura che potesse scomparire appena avessi allentato la presa.
La tenni stretta a me, stando attenta a non stritolarla troppo per non rovinare quel momento. Avevo paura che appena ci fossimo staccate, appena avremmo fatto scoppiare quella bolla di dolcezza creatasi, lei sarebbe sparita e la mia felicità con lei.

Un sonoro colpo di tosse ci destò, stizzendo la sottoscritta. Ci staccammo e mi voltai alla ricerca di chi avesse tossito appositamente per farci separare. Vagai lo sguardo in giro e se non fosse stato per Asami, che mi tirò per la manica e indicò davanti a me, non mi sarei mai accorta del poliziotto dotato di Quirk di prima a tre metri massimo di distanza da noi. E ciò era tutto dire, data la sua stazza; ma con me non si poteva mai definire un limite alla mia incapacità in diversi campi, tra cui l'osservazione attenta.

<Signor...?> chiesi io, avendo già dimenticato il suo nome: io e la mia dannata memoria paragonabile a quella della pesciolina Dori. E infatti, per la pessima figura fatta nel richiedergli il cognome, divenni rossa in volto e fissai il pavimento. La sua risata, sinceramente divertita, mi fece rialzare timidamente lo sguardo e disse: <Fukuda, agente Fukuda, membro del corpo di dotati di Quirk statali e a servizio della polizia di questa prefettura, signorina.> mi spiegò, come recitando un manuale ed io annuii.

<Comunque... Amaya, secondo te i tuoi possono venire a prenderti adesso?> chiese Asami verso di me, speranzosa.
Scossi la testa.
<Mio padre è in servizio per controllare che non ci siano disguidi ad una festa di un paesino ed é in servizio dalle 7:00 fino alle 14:00 e mia madre è ancora al lavoro e non può venire a prenderci perché siamo troppo distanti e oggi dovrebbero arrivare dei tizi di certe agenzie e deve accordarsi sulle merci che vuole ricevere o roba del genere...> spiegai.

Asami sembrò esasperata: <E ora come facciamo a tornare a casa?>
Mi si illuminò una lampadina nella testa e risposi: <Forse passa un bus alla stazione ma non ne sono certa... dovrei controllare i miei Screenshots. Peccato che il mio telefono e tutta la mia roba siano rimaste al terzo piano...> e mi massaggiai per qualche attimo la radice del naso, alzando di poco gli occhiali: eravamo ad un apparente punto morto.

<Io sono qui per questo.> rispose Fukuda. <Mh?> feci, togliendo le dita dalla radice del naso e permettendo agli occhiali di fare il loro lavoro, e cioè farmi vedere.

<Abbiamo sondato gli altri piani ma non abbiamo visto nessuno. Quelli catturati, e coscienti, hanno detto che non avevamo preso che alcuni. Erano solo una piccola pattuglia, a detta loro. Al loro quartier generale, sempre a detta loro, sono in così tanti e con Quirk molto potenti, capaci di far impallidire tutti noi. Comunque non è ciò quello che volevo dirvi...> si accorse l'agente di polizia, mentre la mia paura saliva.
Erano davvero così pericolosi?
Non avrei mai più voluto averci a che fare, mi ricordo che mi dissi...

Adesso credo che il Fato quella volta rise sguaiatamente ai miei pensieri, dato quello che accade poi.

<Comunque... la struttura della scuola non è così danneggiata e gli effetti personali degli studenti sono, in generale, in buono stato. Quasi tutti gli altri sono già andati a recuperare la loro roba. Andiamo pure adesso, se volete. E no, non potete andare da sole: è già tanto che vi permettiamo di recuperare i vostri oggetti.> spiegò l'agente di polizia, con tono abbastanza freddo. E quelle ametiste che aveva al posto degli occhi... Erano quasi contenitori di ulteriore potere, di magia stregata: il viola, insieme al nero, era il colore delle streghe popolari. 

Riscuotendomi dai miei pensieri, acconsentii: <Per me va bene.> e vidi Asami annuire.
Salimmo per le scale antincendio esterne, che producevano un immane rumore, data la loro struttura in un vecchio metallo.

Raggiungemmo in fretta la classe e, buttati nello zaino le cose rimaste sul banco, scendemmo mentre io accendevo il telefono. Asami aveva già il suo telefono con sé, visto che ce lo aveva in tasca durante matematica, dimenticato lì dalla ricreazione, e perciò era venuta lì solo per riprendere i libri di testo, visto che comunque non le piaceva lasciare sue cose in giro, più i soldi. Appena accesi il mio, mi arrivarono trenta WhatsApp dai miei genitori ciascuno e dieci chiamate perse da mia madre, mentre da mio padre solo tre. Chiamai mia madre e sentii chiaramente la disperazione in quel suo corto <Pronto?>

<Mamma, sono io, Amaya.> risposi, provando a tranquillizzarla, ed invece scoppiò e pianse. <Hanno fatto una notizia speciale poco fa dappertutto: TV, radio, Facebook e chi ne ha più ne metta. La madre di Asami mi ha detto tramite telefono esattamente due secondi fa che sua figlia l'aveva richiamata e, nell'accordarsi sul da farsi, aveva chiesto se poteva stare Asami a casa nostra, facendosi assicurare da lei che tu stessi bene. Ma nonostante le sue parole volevo sentire la tua voce e adesso che l'ho sentita... sono un po' più tranquilla. Mio Dio, Amaya, ritorna a casa al più presto con un qualsiasi bus. E mi va benissimo che Asami stia a casa nostra: hai bisogno di lei, che ha vissuto tutto insieme a te, adesso. Io posso pure tardare qualche ora, anche se mi fa male non poter venire da te ma quei coglioni non sono arri- oh cazzo! Sono dall'altra parte della strada!> esclamò agitata.

Ridacchiai interiormente a quella sua agitazione e per come saltasse di pale in frasche in un secondo: cosa ereditata da lei in certe conversazioni. <Un'ultima cosa prima di riagganciare, tesoro.>.
Il tono si era fatto improvvisamente serio.

<Oltre a mandarmi un messaggio appena arrivi a casa, dimmi una cosa: sei stata te a provocare il terremoto, anzi, i terremoti?> mi chiese con estrema serietà.
Io emisi un semplice: <Sì> anche se timorosa delle conseguenze, che non furono eccessive. Anzi, non ve ne furono perché mugugnò un verso per poi chiudere la chiamata. Chiusi definitivamente la chiamata, agganciando dalla mia parte.

Poi andai nella mia galleria e, guardando velocemente tra i miei screenshot sui diversi orari per le diverse tratte dei bus, notai che una passava alle 11:55.
Guardai l'orologio. Le 11:37.
Feci due considerazioni differenti. La prima fu il rendermi conto che ciò che mi erano parse ore non erano che stati una mezz'oretta neanche. Seconda cosa: io e Asami ci mettevamo ben 20 minuti a piedi per arrivare fino alla stazione. E io le ali come Angel non le avevo, neppure il teletrasporto, né la super velocità. Solo avere la predisposizione ad essere un pericolo pubblico di neanche così basso rango, e lo ero pure senza l'utilizzo dei miei poteri. Sbuffai sonoramente ed esclamai: <Non è possibile! Ne passa uno alle 11:55, ma sono già le 11:40, oramai, e non ce la faremo mai a piedi!>

<Se volete posso darvi io un passaggio con l'auto della polizia, se è solo fino alla stazione dei bus.> spiegò Fukuda e, con gli occhi illuminati, iniziammo entrambe ad annuire. <Ci farebbe un enorme favore.> dissi. <Allora sbrighiamoci.> e a grandi falcate si diresse verso il veicolo.

Letteralmente gli corremmo dietro fino all'auto, nella quale ci fiondammo. Lui partì appena chiudemmo la portiera e partì. Rispettò il limite della velocità e, senza usare le sirene, riuscimmo ad andare a velocità spedita. La mia scuola, o almeno la succursale, era a metà strada tra il centro e la stazione dei bus, forse un pochino più vicina a quest'ultima. Peccato che a piedi ci mettessi ben venti minuti.
In auto, normalmente, credo cinque-dieci minuti. Anche se il casino aveva attirato gente, Fukuda riuscì a sorpassare nei momenti giusti e, nonostante il giro lungo fatto, riuscimmo ad arrivare in tempo record. Avevamo percorso una strada parallela a quella più corta ed usata, che anche dalla stazione dei bus si vedeva quasi imbottigliata.

Controllai l'orologio. Le 11:50. Mancava pochissimo. E, se non sbagliavo, quella linea partiva dalle ultime corsie.
"Merda..." mi permisi di pensare.

Presi, o meglio, strappai, lo zaino dalle spalle di Asami, me lo misi con lo schienale sulla pancia e, con i due zaini addosso in maniera ridicola, iniziai a correre. Eravamo dal lato davanti dei bus rischiando di venire investite, dato che quel lato era per uscire dalla stazione, ma quello era l'unico modo per vedere quale era il nostro. Asami mi superò e arrivò davanti ad un bus nella 12° o 14° corsia e non tirò dritto, ma girò per andare verso l'entrata davanti.
Raggiunsi l'inizio del bus cinque secondi dopo di lei.

Lei era col fiatone sul primo gradino del bus per salire. Riuscì a chiedere, nonostante l'asma volesse impedirle di parlare, se passasse per il nostro paese. Dovette essere positivo perché si girò raggiante nella mia direzione a cercarmi e, appena mi vide, mi fece cenno di salire. Per fortuna, essendo ad un orario un po' del cavolo, era per metà vuoto. Ci sedemmo nei primi posti trovati, mentre entrambe eravamo in preda al fiatone. Io mi rialzai un attimo e notai, nell'istinto, l'orario sul mio orologio, che segnava le 11:56.

Avevamo appena lasciato la stazione, perciò era passato un minuto... giusto in tempo. Appoggiai lo zaino di Asami al mio posto. Lei prese il suo zaino e lo mise nel poco spazio che c'era per terra. Mi sedetti accanto a lei con il mio sulle ginocchia.

Rilasciai un sospiro sollevato. Ma poi gemetti dal dolore per la schiena e Asami notò che mi stavo provando a massaggiare con la punta delle dita la zona lombare da seduta.
Mi fulminò con lo sguardo.
<Non avresti dovuto metterti il mio zaino sul davanti.> ribatté.
Odiava essere aiutata ed essere considerata debole.

<L'ho fatto per riuscire a prendere il bus con più certezza. E poi vorrei farti notare che sei riuscita ad arrivare davanti al bus quasi schiattando.> replicai secca, ma senza cattiveria.

Dovette abbassare lo sguardo ed arrendersi alla verità.
<Ci cambiamo di posto?> chiese dopo qualche secondo. Non ne vidi il perché (anche se io adoravo il finestrino, come lei, e il fatto che volesse andare verso l'interno lo trovai strano) ma annuii e slittai verso il finestrino, mentre si alzava e sedeva al mio posto. Mise lo zaino, sdraiato, sul posto. Aggrottai le sopracciglia: lei dove voleva sedersi allora?

<Volevo sedermi su di te... ti da fastidio?> mi domandò con un leggero sorriso, stanco. <Non mi dispiace.> e mi tolsi lo zaino dalle ginocchia, mettendolo ai piedi dell'altro posto. Asami si mise seduta sulle mie gambe, mettendosi con la schiena rivolta al finestrino, rivolgendo i piedi sul suo stesso zaino.

Appoggiò la testa al vetro e mi sorrise. Io ricambiai.
Era un bel momento.
Poi unì la sua mano alla mia.
<Scusa, per tutto.> fece.

<Ehi ehi ehi. A casa mia le scuse.> ridacchiai. Lei fece lo stesso. E ci godemmo quel viaggio in un magico silenzio tra noi due, cullate dalla radio a basso volume del bus e il rumore costante ma ovattato delle ruote sull'asfalto.

N/A: adoro il dramma. 

E, piccola avvertenza, questa situazione è solo la prima di una lunga sequenza in cui la rivedrete e vi farò venire voglia di pigliarle a pesci in faccia per farle rinsavire.

Detto ciò, alla prossima!

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