Capitolo 29
Diedero ultime istruzioni generali e poi uscirono in fretta, così come erano arrivati.
Due secondi di silenzio teso, in cui probabilmente tutti metabolizzammo quello che era appena accaduto. Quello che avevo fatto.
Avevo firmato.
Ero legata ad un cazzo di contratto, dal quale stava appesa per un sottile filo la mia vita.
La mia cazzo di vita.
Non miei soldi.
Non il mio corpo.
Non la mia casa.
Ma la MIA vita.
<"Vi faremo avere nostre ulteriori notizie presto"? Ma andate a fottervi e lasciateci in pace!> aveva esclamato Akira, incurante della presenza dei nostri genitori, interrompendo quei secondi di silenzio. Ovviamente non era il momento per rimproverarlo e neppure era passato per l'anticamera dei loro cervelli. Stavano fissando me.
Gli occhi scuri mi scrutavano con preoccupazione, spavento (terrore), pietà (per la triste fine che farò), un fondo di gratitudine (li avevo salvati) e tanto rimorso (avrebbero preferito sacrificarsi loro).
Io sentivo il mio corpo lì ma la mia anima era volata via con la mia libertà, lontano da me.
La testa era pesante ma solo un pensiero mi passava per la mente.
"E ora...?".
<May...> mi provò a chiamare con premura mia madre. La voce era incrinata e gli occhi lucidi. Scommettevo che si stava rigirando nella compassione verso di me.
Si avvicinò a me, ma io la schivai. In quel momento non volevo contatto (strano) e allo stesso tempo volevo il tepore che ti scalda il cuore e che ti fa dire "casa" (discordante).
La mia testa girava, la stanza girava, la mia famiglia girava, io giravo..
"Tutto stretto, vicino, opprimente, soffocante. Una via d'uscita, una via d'uscita, una via d'uscita. Non respiro bene. La testa mi scoppia. Tutto troppo vicino, troppo vicino, troppo vicino!" i miei pensieri erano scoordinati e frammentati.
"Devo scappare, scappare, scappare!" mi dissi in una sorta di istinto.
E corsi via da lì, quasi beccandomi in faccia la porta che collegava il salotto allo stretto corridoio.
Mi fiondai in camera mia e sbattei la porta con violenza, molta di più della solita.
Mi appoggiai con la schiena contro la porta della camera. Scivolai col sedere a terra. Mani fra i capelli, iniziai a ripetermi come un mantra "E ora? E ora? E ora?", stringendo di più le gambe al petto.
Come era possibile rovinarsi la vita in un meno di un minuto, in circa dieci secondi? Come si poteva, con una semplice firma? Come mai avevo accettato? ("Mamma, papà, Akira; ecco perché...")
Le lacrime facevano forza per uscire dagli occhi e non le trattenni. Appoggiai gli occhiali accanto a me mentre sfogavo quel subbuglio interno con le lacrime.
<<Piangere fa bene, piangere fa sfogare>> diceva la gente.
E io volevo sfogarmi del tutto, ritrovarmi ad essere un guscio vuoto per essere reso inutile e lasciare me e la mia famiglia in pace.
Ma non poteva accadere, giusto?
Perché il mondo non si era divertito abbastanza con Amaya Miura condannandola ad avere un Quirk, giusto?
Perché ero con troppi pochi dolori, giusto?
Beh, che giustizia del cazzo allora!
Perché ero intervenuta quel 20 aprile? Perché non ero morta o non ero stata salvata da altri, come probabilmente sarebbe accaduto? Perché esistevo solo io come vittima manipolabile, in modo contorto, dalla legge?
Un unico suono mi risalì la gola e, scattata in piedi, occhi appannati da lacrime e miopia, strizzai le palpebre e sfogai in parte ciò che avevo dentro con un grido gutturale di rabbia. Quel grido era il mio "perché?"; un perché rabbioso e iracondo, ma anche disperato e melanconico, che chiedeva solo di essere placato.
Ma non potevo e, in piedi, continuai a piangere, la gola raschiata da quell'unico suono urlato. Almeno avevo le finestre chiuse, altrimenti tutto il vicinato avrebbe sentito le mie urla e si sarebbe fatto domande.
E tutto quello doveva rimanere nascosto, assolutamente.
"Prima regola: deve essere un segreto". E grazie al culo, avrei voluto dire mentre la leggevo: mica era una cosa che avrei detto in giro come nuovo vanto!
Fissai un attimo fuori dalla finestra. Nonostante non avessi gli occhiali addosso, sapevo bene che cosa si vedeva. Il cielo azzurro, un pezzo della via, una parte di facciata laterale dei vicini e piccola parte del loro giardino. Se mi avvicinavo e abbassavo lo sguardo, intravedevo la striscia di cemento che percorreva come una cornice casa mia, su quel lato.
Mi fissai sul cielo azzurro, però.
E decisi che mi dava sui nervi. Troppo azzurro, troppo sereno, troppo da giornata felice rispetto quello che avevo nel petto e nella mente. Avrei preferito ci fosse stata pioggia, piuttosto.
Tra rabbia e dolore mi buttai sul letto a faccia in giù, inspirando profondamente contro la federa del cuscino.
Lì c'era l'odore della mia camera: era strano, particolare (forse era il mio stesso odore, però non ne ero certa). Sapevo solo che sentirlo era calmante. Il dolore alla gola lenita si acquietò, la rabbia di liquefò in un distillato di tristezza pura, le lacrime scorrevano più placide; come un fiume che dopo la piena dell'acquazzone ritornava al suo normale regime.
Lasciai che quel nulla mi avvolgesse nel suo morbido e curante abbraccio, sospirando ancora contro il cuscino. Non so quanto tempo rimasi così, sapevo solo che era terapeutico. Mi faceva pensare che tutto quello fosse una cosa lontana, distante milioni di anni luce, perfino irraggiungibile... per il momento, volevo solo evitare una totale crisi di nervi.
Non sapevo come ne sarei potuta uscire.
Forse ero andata più volte vicino nella mia vita ad una completa crisi di nervi, ma ero sempre riuscita a tirare il freno a mano ed arrestarmi prima dell'inevitabile. Però non sapevo se anche quella volta ci sarei riuscita. Era tutto così dannatamente assurdo. Tutto così difficile. E non potevo staccare la spina, mh?
Bussarono alla porta di camera mia chissà quanto dopo.
Sollevai la faccia dal cuscino solo per dire: <Fa' attenzione agli occhiali per terra>, prima di rimettermi col volto spiattellato sul morbido. La porta fu aperta e richiusa in fretta, come ad evitare di interrompere il momento (già fatto con il bussare).
Sentii le ciabatte risuonare per terra (questo rumore così non può farlo Kiki e pa' crea più tonfo coi passi... è mamma) e un rumore sul comodino: doveva aver messo gli occhiali lì. Le feci un po' di spazio da quel lato e lei si sedette, facendo sprofondare un po' di più il materasso.
Silenzio. Un silenzio assordante, fastidioso, che mi faceva ronzare la testa.
Mi concentrai sul respirare (inspira ed espira, inspira ed espira, inspira ed espira)
Poi la mamma mi appoggiò una mano sulla nuca, carezzandola leggermente.
Ancora nessuna parola da parte sua. Che stesse aspettando un mio gesto?
D'altronde era nuova quella situazione. Non si è ritrovata a vivere in veste di figlia il problema dell'avere un Quirk, figuriamoci quello!, e di sicuro non c'era scritto su alcun libro "come calmare tua figlia dopo che è stata costretta a firmare un contratto come militare speciale, mettendo così a rischio la sua stessa vita".
E supposi (e tutt'ora suppongo e spero) di essere stata l'unica in quella situazione.
Sfregai leggermente la testa contro la sua mano, come ad incitarla a continuare. Volevo coccole, volevo essere vezzeggiata, volevo tornare indietro nel tempo con quei gesti d'affetto, come se avessi ancora 4 anni; con l'unicità manifestata ma senza tutti quei problemi.
<May...> mi richiamò a un certo punto mia madre e seppi che dovevo girarmi ed affrontarla. Mi girai a pancia in su e la vidi che mi scrutava preoccupata (lo capivo nonostante fossi senza occhiali). Non ebbi la forza di sorriderle. Non ebbi la minima forza di illudere neanche la parte credulona di me.
La fissai negli occhi, nonostante li vedessi sfuocati, e feci: <Ho paura.>
Un singhiozzo le uscì dalle labbra e fu come un colpo al cuore per me ("Non piangere ma', non piangere! Ti prego...").
Non volevo vederla triste.
Non potevo.
Dovevo sollevare il morale a lei, a papà e a Kiki. Glielo dovevo, come quella firma: d'altronde, non mi hanno mai abbandonato nonostante avrebbero avuto un motivo "logico", cioè che avessi per pura casualità un Quirk!
Così scattai a sedere come a molla e l'abbracciai, incastrando il viso tra la sua spalla e il suo collo. La strinsi forte: volevo darle tutto quel calore, tutta quella forza, tutta quella consapevolezza che ero riuscita ad acquisire in quei momenti perché volevo che lei stesse bene. La volevo felice.
<Ho paura...> ripetei in un singhiozzo che venne replicato da mia madre <... ma per voi tre farei di tutto, mamma. E mi va bene, in fondo; devo solo... rendermene conto per bene.>
E fu allora che mi strinse forte, molto forte, intenta a strapparmi tutta l'aria dai polmoni e, con essa, anche tutto il dolore che mi stava facendo affogare nell'etereo. Continuò a singhiozzare e io continuai a ricambiare la stretta, passando piano la mano sulla sua schiena. Cercai di restare forte io, nonostante fosse di solito la figlia a sfogarsi con la madre che faceva la roccia, e non viceversa. Ma da ben più di 12 anni avevo sconvolto la vita della mia famiglia, perciò non mi era sembrato troppo strana come situazione.
Però non ressi a lungo.
Sentivo un dolore perpetuo e diffuso per tutto il corpo che mi stava annientando (sapevo fosse solo una cosa della mia testa, ma era lei ad avere il controllo su tutto), e ciò era quintuplicato dal dolore di mia madre, che si stava diffondendo nelle mie ossa.
Mi strinsi più forte a lei e piansi anch'io, fino a sentirmi il naso quasi completamente tappato e gli occhi troppo irritati per continuare a piangere. Allora mi staccai leggermente da mia madre e mi soffiai il naso in un fazzoletto mezzo usato, abbandonato sul comodino, sapendo in che condizioni orribili fossi (non ero come quelle persone fighe stile nei film, che sono bellissime anche dopo aver pianto).
Quando ebbi ripreso il controllo su di me e mia madre si calmò a sua volta, lei mi disse: <Papà e Akira sono in soggiorno... andiamo da loro?>
Annuii e, inforcati gli occhiali ma rimanendo scalza, la seguii fino in salotto, dove trovammo papà e Kiki accoccolati su uno dei due divano con le espressioni di dolore ben scolpite nei loro lineamenti.
Mi avvicinai veloce e, appoggiati gli occhiali sul tavolino, li abbracciai entrambi, a emulare quello fatto con la mamma. Però loro si erano momentaneamente calmati e, in un tremule sospiro, ricambiarono l'abbraccio a cui partecipò pure mia madre, con un nuovo singhiozzo.
Io invece rimasi muta, mentre stringevo papà e Kiki: ero io a dover sorreggere loro, almeno in quel momento; perché già tanto ero conscia che ci sarebbero state in futuro tante volte in cui sarei stata io in assoluto bisogno di supporto. Per una volta (e per tutta la vita) mi potevo sacrificare io per il bene loro.
E così ecco come nacque la "grandiosa persona" che diventai agli occhi di molti, come venni osannata; nacqui tra lacrime, dolori e ricatti.
Ero stata ridotta in ceneri, in attesa di rinascere nel modo più spettacolare da esse. Come una fenice, in qualche modo, sarei risorta. Ma anche per quello ci volle tempo; il tempo giusto dopo un lungo processo.
N/A: ed eccoci qua! Depression time, fatto!
Io: però... mh, manca bisticcio time! Rimedierò!
May: *inizia a pregare*
Io: non preoccuparti! Ne sarai estranea!
May: *dubbiosa*
Io: =)
May: *prega*
E detto questo, alla prossima settimana!
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top