Capitolo 18

Al ritorno, sul bus, Asami si sedette vicino alla nostra amica che andava in sede e che, incrociandola sul bus ogni morte di papa, era sempre contenta di rivederci (come noi due con lei).
Io mi sedetti nei due posti liberi dietro di loro, rimanendo poi con il posto affianco vuoto.

Molti a dire, di sicuro, davanti alla società “Ma io non sono razzista”, ma appena voltavo lo sguardo su di loro e ai loro occhi balzava il marchio nero sulla mia pelle chiara (anche se, ehi, di lì a non troppo avrei dovuto incominciare ad abbronzarmi), sorpassavano.
Solo pochi si sedevano, cercando di mantenere per quanto si potesse le distanze. Ma allora lasciavo il beneficio del dubbio, pensando fosse semplice bisogno di distanze dagli sconosciuti, cosa che condividevo.

Comunque; Asami e la nostra amica, Sakura (sì, ha lo stesso nome di mia madre), avevano chiacchierato tutto il tempo del ritorno, mentre io ascoltavo la musica fissando fuori dal finestrino.

Quando partì “Get Out Alive”, due versi nella prima strofa mi rimasero impressi mentre la canzone scorreva: “Don't put your life in someone's hands/ They're bound to steal it away”.

E io mi dissi che ero proprio fregata e che quella canzone arrivava troppo in ritardo nella vita. Avevo dato tante volte un pezzo di me a qualcuno con cui pensavo potessi essere al sicuro, e invece avevano sgretolato pian piano quell’amore e quella fiducia miei come se fossero solo un giocattolo destinato a rompersi, ritrovandomi indietro, alla fine, solo la mia parte dell’anima bruciata e calpestata.

Ormai di me stessa rimaneva così poco che l’avevo affidato tutto ad Asami, inconsciamente. E ora lei aveva quell’ultima parte integra, buona, di me tra le mani. E facendo così, cercando di non parlarmi, mi metteva ansia e paura; stringendo (conscia o meno di ciò) la presa sulla mia anima, iniziando a renderla polvere da spargere nel vento.

Avevo paura, ogni giorno, nell’inconscio, che mi sgretolasse l’anima e mi lasciasse vuota e sola con parole amare. Avevo paura di perdere pure lei, che era tanto a cui mi aggrappavo in quella parte della mia vita. Lei e la mia famiglia in quel momento erano i miei capisaldi e se loro cadevano, tutto accompagnava.
E allora sarei diventata io stessa cenere.

Un essere con le sembianze fisiche di Amaya Miura ma il cuore inesistente e dentro di sé il caos nero.
E non stavo ad esagerare neppure un po’ mentre me lo pensavo.
Mi era capitato una cosa del genere in seconda media, mentre tanti “se” e tanti “ma” diventavano mezze certezze e poi certezze complete e allora tutto iniziò a sgretolarsi.

Ero riuscita a sollevarmi fra la scoperta di Wattap, gameplays su YouTube e… Harry Potter. Io dovevo a Joanne Rowling tanto, troppo. Mi aveva aperto gli occhi, mi aveva fatto capire dove in parte sbagliassi, mi aveva aiutato a passare meno d’Inferno la fine della seconda media e l’inizio della terza perché mi ero aperta, riuscendo a legare con una mia compagna di classe (che mi aveva introdotto al mondo degli anime) e mi ero aperta al mondo, mi ero messa in gioco per conoscere altri.

Mi ero sentita così felice e contenta quando, alla fine della terza media, mi dissi che potevo definirmi amica di Asami Watanabe.
Poi, durante le vacanze primaverili della terza media (ad aprile saremmo andate in prima superiore), mi aveva spiegato abbastanza bene tutte le sue rogne ma, ovviamente, alla perfezione tutto lo sapevano solo lei e i suoi genitori.

E qua, per ora, potrei definire la sua vita a grandi linee con “Problema passato? Bene, eccone uno più grande in arrivo!”

Mi ricordavo anche quando, una sera, eravamo arrivate ad esporci più a nudo, più per come eravamo in realtà, facendo risalire prima lei dubbi ed ansie.
Io avevo iniziato a parlare di me con una frase del tipo: <Non ho sofferto così tanto a livello fisico come te, ma diciamo che anch'io ho avuto i miei periodi no…>

E le avevo spiegato come avevo passato in quasi totale solitudine anni della mia vita, tra pianti soffocati nei cuscini, finti sorrisi, impegno nell’unica cosa in cui (un minimo) ero io a potermi permettere di guardare dall’alto in basso gli altri, e non il contrario…

E le avevo detto che più di una volta avevo pensato ad opzioni come autolesionismo o ficcarmi in testa cose che portavano alla bulimia o anoressia ma che non ci riuscivo, rimanendo nel grigiore in cui ero e mi dicevo che non ero buona neppure a morire.

Quella sera Asami mi aveva abbracciato e io non mi ero ritirata, adorando il contatto fisico nei momenti come quelli (a differenza di lei che, nel raccontarmi del suo passato, aveva voluto rimanere scostata).
Io per sentirmi meglio avevo bisogno di poter stringere le braccia contro il petto di qualcuno, affondare il viso in lacrime nella sua spalla e sentire la sua mano rassicurante accarezzarmi la schiena o i capelli.

Credo che fosse in quel momento in cui spiattellai la mia anima (o ciò che ne rimaneva) nelle mani di Asami, dicendole implicitamente: “Ora questo lo tieni te e lo tratti bene.” e da lì in poi mi ritrovai fregata.

Arrivò la fermata di Sakura e la salutai calorosa mentre scendeva.

Lei fece lo stesso, anche se fissò per qualche secondo fissa negli occhi Asami la quale si girò verso di me dai posti davanti a me.
Tolsi un auricolare, aspettando che dicesse qualcosa, e lei fece sorridendo: <Ed ora siamo solo noi due!>.

La guardai cercando di rimanere neutrale, emettendo un semplice <Mh> mentre una canzone come le altre mi martellava l’orecchio con ancora su l’auricolare.
Facevo la bambina, ne ero conscia, ma mi aveva ignorato; non poteva comunque pensare che qualsiasi cosa lei facesse, io le andassi dietro tutta sorridente: non ero mica il suo cagnolino!

Lo sguardo di Asami si fece un po' triste e sospirò: <C’era una cosa che mi tormentava e ne potevo parlare solo con Sakura, perciò ti ho un po’ evitato dalla quarta ora… scusa?>

<Non me la prenderei tanto se non fosse che l’hai fatto solo con me, con tutti gli altri sei sempre… sorridente e felice, invece con me pari bipolare.> sospirai.

Lei abbassò lo sguardo, si alzò con lo zaino e si sedette vicino a me, scostando il mio zaino verso me.
Lo appoggiai ai miei piedi con uno sbuffo e, divaricando le gambe in una posa molto poco femminile, feci: <Perché questo spostamento?>

<Sono pessima come amica, paio bipolare e non sono mai costante con te. E mi sento uno schifo. È che…> si interruppe, mordendosi il labbro inferiore.
Pareva pentirsi di aver parlato fino a quel punto. Pensai cosa avrebbe potuto darle fastidio oggi da parte mia (sempre che c’entrasse direttamente con me) e pensai all’occhiata che mi aveva rivolto durante la ricreazione.

<Non dirmi che sei arrabbiata perché ho passato la pausa con Inoue-kun e non con te e Masa-chan!> notai, infastidita. <È proprio quello. E poi… “Inoue-kun”? Già lo chiami così?> ribatté, stizzita, mentre si stava scaldando.
E per una cazzata, aggiungerei e avrei aggiunto perfino allora.

<Ma che problemi hai oggi, Asami? Lo sai benissimo che io “kun” e “chan” non li uso come si dovrebbe, che li uso per forma di rispetto e non come se fossero un onorifico da confidenza! Io li uso fin quando non entro in amicizia seria con quella persona che allora chiamo per nome e basta, o ancora ogni tanto con “chan” o “kun” alla fine del nome. Per esempio con Masa ancora ogni tanto uso “chan”. E poi, quando ho smesso di chiamarti Watanabe-chan o Asami-chan?> le spiegai, stizzita.

Ci rifletté qualche secondo prima di decretare: <Da, più o meno, dopo gli esami. Dopo praticamente mesi che ci conoscevamo.>

<Appunto. Anche per Kouno spesso uso il “kun” perché non ho così confidenza con lui da chiamarlo senza. E anche se tutta la classe sa come mi sono abituata ad usare “kun” e “chan”, ridacchia quando li uso coi ragazzi perché per loro ha altro significato che io li usi! Tu neppure li usi quegli attributivi, sai benissimo questo mio modo di fare e te la prendi comunque! E poi… e poi… sei gelosa o arrabbiata perché ho passato la mattinata con Inoue-kun? È un nostro nuovo compagno di classe e mio compagno di banco e non gli da per nulla fastidio il mio essere con Quirk: non è pregiudicato e questo è già un punto a suo favore. Tra l’altro è simpatico: non mi pare un idiota e io voglio provare a costruire un’amicizia con lui. Problemi con ciò?> la aggredii.

Asami stette zitta un minuto prima di parlare.
Calma e pentita.
Strano che fosse così.

<Sai che sono “possessiva” con le persone a cui voglio tanto bene. Pure con te lo sono, e anche tanto, ma non te lo dico o dimostro bene, a differenza di Masa o della mia “sorellina”> (per chi se lo chiedesse, intende la sua migliore amica che conosceva fin da piccolissime) e prese un respiro.

Proseguì fissandomi negli occhi: <Vali tanto per me, Amaya, ma devo mai sfoggiare il mio istinto di protezione con te perché passi invisibile o vieni schivata da molti; tutti coglioni ovviamente per ciò, anche se fanno bene a non infettare l’aria respirando vicino a te perché altrimenti li sistemo io… Comunque, stavo dicendo…? Ah, sì. Quel Shinichi non me la racconta giusta e ho paura che ti possa solo usare o che abbia secondi fini. Tutto qui. E tutte quelle occhiatacce erano per lui, non per te.>

Oramai eravamo arrivati a destinazione e perciò scendemmo dal bus.
Restai un attimo lì per finire il discorso e lei fece lo stesso.

<Asami, a parer mio esageri... come spesso fai con chiunque su cui sfoggi la tua possessività (che io trovo abbastanza sciocca, in generale). Mica tutti vogliono approffittarsi di altri, figurarsi di me!, o hanno cattive intenzioni con la sottoscritta: ho solo avuto sfiga io a ritrovarmeli attorno per molti anni.> e le sorrisi dolce, ad occhi chiusi e con il lato sinistro più incurvato in alto del destro.

Aperti gli occhi, la vidi scuotere la testa e fare: <È che tu sei… unica. E speciale. Sei il fantastico girasole di cui abbiamo già parlato e che tutti, anche quelli con le migliori intenzioni, vogliono cogliere e tenersi per sé. Non sai quanto è difficile resistere alla tentazione ogni giorno.> si lasciò sfuggire, per darsi una manata in fronte.

Arrossii, sentendomi imbarazzata per lei, e chiesi: <Q-quale tentazione?>
<Quella di tenerti tutta per me, evitando che entrino nel raggio di 3m chiunque mi risulti anche solo un attimo sospetto.> borbottò.
Ridacchiai e la abbracciai.

<Mi so difendere anch’io, tranquilla. Forse ci metto un poco a reagire, ma lo faccio anch’io. E secondo me esageri, un po’ in tutto. Prima di tutto: non ho un valore così grande in generale. Secondo: non posso valere così tanto per te, in questo modo; per te, a parer mio, possono valere così tanto solo tre persone fuori dalla tua famiglia di sangue: il tuo fidanzato, Masa e la tua “sorrellina” Takako.> risposi, per poi staccarmi.

Rimase muta per un po’ e allora io feci: <Devo andare, a domani Asami.>
E mi misi pure l’altra cuffietta, alzando il volume della musica al limite sopportabile dalle mie orecchie.

Non seppi mai se Asami rispose con un “A domani” o qualcos’altro.

Arrivai a casa e notai una lettera nella cassetta fuori dal cancello.
Mi stupii nel leggere il mio nome sulla busta e, guardando poco più in sotto, aggrottai le sopracciglia.

Il mittente proveniva da un certo “Istituto dello sviluppo dei Quirk” situato nel capoluogo di provincia, in periferia, e sorprendentemente verso il lato della provincia dove abitavo io.

Lo sapevo solo perché ricordavo per puro caso che quella via segnata lì sotto al nome dell’edificio fosse all’entrata della città.
Salii i gradini, rigirando la busta più e più volte, dubbiosa.
Non avevo mai sentito nominare, stranamente, questo luogo.

Mi sembrava strano che fosse un semplice avviso o roba del genere, ma potevo solo pensare a qualcosa del genere perché dentro la busta pareva esserci della semplice carta, dato il peso, probabilmente era una lettera.

Aprii la porta e sentii mia madre chiamarmi dalla cucina, seguita da mio padre.
Strano che mamma non fosse già a letto a riposarsi.

<Ciao ma’, ciao pa’.> salutai stanca dalla giornata ed entrando nella cucina con lo zaino in spalla, il giubbotto addosso e la lettera continuata ad essere rigirata nella mia mano, nella speranza di qualcosa di indefinito pure a me.

<Dove hai trovato quella lettera? E per chi è?> chiese mia madre.
Alzai lo sguardo su loro due.
Mio padre stava mangiando l’insalata, mia madre aveva ancora il grembiule addosso anche se non pareva impegnata in lavori casalinghi e la TV era sul canale 6, dove in onda c’era un cartone animato americano per tutta la famiglia che nella nostra casa era gradito.
La cucina in generale… beh, era nel suo stato solito, piena di robe sulla tavola con un piatto per la sottoscritta ed altri due sporchi abbandonati lì (quelli di mia madre e di mio fratello).

<L’ho trovata nella cassetta delle lettere, è indirizzata a me e viene da un certo “Istituto dello sviluppo dei Quirk” in città.> risposi, grattandomi la nuca.

<Non so cosa sia…> sospirò mio madre mentre papà saltò su e fece: <È un nuovo istituto dove i possedenti di Quirk vengono allenati e monitorati per entrare nelle forze di polizia e dell’esercito.>
<Perché dovrebbero aver mandato una lettera proprio a me?> chiesi.
<Lo scopriremo solo se aprirai quella busta.> mi esortò mia madre implicitamente e io strappai senza remore la carta.

A pensarci adesso, forse non sarebbe successo nulla se avessi buttato via la lettera o l’avessi nascosta ai miei genitori o avessi “gentilmente” risposto con un “No”(anche se dubito di questa terza opzione).

Ma non feci nulla di quello.
E quel che è avvenuto, è avvenuto; d'altronde…
Il passato non lo puoi cambiare.

N/A: Asami é un po' possessiva.
E io sto continuando a fare piccoli flashforward con quelle frasi finali giusto per far venire ansia.

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