7° capitolo: ricordi tra le foglie

Sono le cinque del mattino, è domenica e io non riesco più a dormire. Non smetto di pensare a cosa è successo alla festa: perché Eva mi ha fatto quella domanda? E per quale motivo ha coinvolto Marco? Non ci capisco niente. Troppi pensieri riempono la mia mente che è già confusa per conto suo.

Ma una cosa la so: io non amo Marco e lui non ama me, sono stata una cretina a pensare che io potessi provare qualcosa per lui.

Tuttavia i miei dubbi e i miei problemi non mi lasciano in pace. Sono troppo nervosa e delusa per tornarmene a dormire. Così scendo le scale. La luce del sole evidenza i contorni dei mobili. Accendo la televisione, mi sdraio sul divano grigio in pelle e guardo un film strappalacrime che parla di un amore destinato a interrompersi a causa della morte di lei. Film con questa trama ce ne sono tantissimi, quindi non mi emoziona più di tanto. Niente in questo momento potrebbe scuotere il mio cuore che sembra essersi trasformato in ghiaccio.

Mentre i due protagonisti si baciano per l'ultima volta, i tenui raggi dell'aurora filtrano attraverso le tapparelle e raggiungono il mio volto. Batto le palpebre infastidita quando mi toccano gli occhi.

Il brontolio del mio stomaco mi avverte che è l'ora di fare colazione. Mi dirigo rapidamente in cucina. Apro uno sportello, prendo il latte e i miei adorati cereali al cioccolato, verso tutto in una ciotola e mi riposiziono di nuovo nel divano. Metto play e finisco di guardare il film.

«Ehi! E tu che ci fai alzata a quest'ora?» Mi domanda mio padre sorpreso. Poi sbadiglia.

«Buongiorno anche a te, papà.» lo saluto guardandolo divertita.

«Accidenti! Non andare a scuola ti fa uno strano effetto, eh?» Mi dice con la voce ancora impastata dal sonno, mi scompiglia i capelli e va in cucina.

«Perché non mi metti un bel film?» Si siede accanto a me nel divano e mangia la sua tazza di latte e cereali.

« Va bene, che ne dici se mettiamo "Un turco Napoletano " di Totò? È il mio preferito.» gli suggerisco entusiasta.

«E mettilo. » mi risponde sorridendo.

Lo metto e subito partono le risate.

«Guarda papà! È così forte che apre le sbarre della prigione solo con le mani.» gli faccio notare con le lacrime agli occhi.

«Certo, è forte come Maciste. »mi spiega serio.

Anche se è la millesima volta che lo guardiamo, ridiamo ancora come matti di fronte alla scena dell'evasione.
Comunque funziona: per ora mi sono dimenticata di ieri sera. Peccato che ci pensi mio padre, pur senza volerlo, a ricordarmelo.

«Oddio, ma davvero a quei tempi andavano a mare con le camicie da notte?» Domandai divertita da quella scena.

«Sì, a quei tempi era così.» afferma mio padre sorridente.

«Com' è andata ieri la festa?» Mi chiede continuando a guardare la televisione.

Un grande macigno si posiziona di nuovo sul mio petto. Mi ero liberata e ora è tornato.

«Bene.» mento senza scendere nei particolari.

«Mi fa piacere, angelo mio.» mi stringe la mano come se avesse capito che fosse successo qualcosa e poi la toglie per accendere il cellulare e controllare se avesse avuto chiamate dai suoi dipendenti o altre cose.

Io e mio padre siamo molto uniti, lui mi capisce solo con uno sguardo. Sono stata abituata fin da quando ero piccola a dirgli sempre tutto, a confidarmi come se fosse il mio migliore amico, ed è davvero così. Ma questa volta penso di tenermi dentro quello che davvero è successo ieri alla festa. Non mi va di turbarlo per una sciocchezza e poi io e Marco siamo amici e lui viene spesso a casa mia se gli dicessi la verità, mio padre non lo guarderebbe più come ha sempre fatto, ma sarebbe diverso ed è l'ultima cosa che voglio, quei due vanno molto d'accordo e sono contenta così.

A un certo punto suonano al campanello. Sarà sicuramente Susanna la nostra donna delle pulizie.

«Vado io!» Esclama mio padre scattando sull'attenti e diventando nervoso, molto nervoso, così tanto da avere le mani sudate.

Lo osservo e rimango spiazzata perché prima che apra la porta si guarda allo specchio che si trova nel corridoio e sistema i suoi capelli brizzolati.

«Buongiorno, signor Marino.» lo saluta la donna con una voce più soave del solito.
Esibisce un sorriso a trentadue denti che le illumina il volto. Stranamente oggi è più allegra rispetto agli altri giorni e in più ho notato che ha un nuovo taglio di capelli che la rende ancora più bella di come non sia già.

«Buongiorno a lei, signorina Susanna.» ricambia mio padre con un timbro più serio e profondo. Raddrizza la schiena e tira un po' dentro la pancia. I due si guardano fissi negli occhi senza accorgersi di me. Qui, sicuramente gatta ci cova, allora c'è davvero qualcosa tra quei due. Sono contenta per papà, Susanna è una brava donna. La conosciamo da cinque anni e le sono molto affezionata.

«Papà, perché non ti vai a cambiare? Sei ancora in pigiama.» gli suggerisco ghignando sotto i baffi dopo averla salutata e i due scoppiano a ridere imbarazzati.

«Prego Susanna.» mio padre la fa accomodare e lui va nella sua camera da letto a cambiarsi. Lei si siede e mi sfoggia un gran sorriso.

«Come va ?» Le chiedo gentilmente.

«Molto bene e tu?» Mi risponde appoggiando i gomiti sul tavolo.

«Bene, grazie.» le dico. Dopodiché mi giro verso le scale e vedo mio padre scenderle. Si è sistemato e mentre si avvicina a noi sento anche che si è messo il profumo. Incredibile!

«Bene, finalmente hai liberato il bagno.» mi alzo e mi dirigo verso il frigo per prendere una bottiglia d'acqua. Lo apro e noto che è quasi vuoto.

«Sì, è tutto tuo ora.» si siede accanto alla donna delle pulizie.

«Papà, il frigo è quasi vuoto.» gli faccio notare.

«Lo so, domani vado a fare la spesa.»

«No lascia, ci vado ora io. La Conad è aperta anche di Domenica.» mi offro volontaria per lasciarli soli e ne approfitto anche per prendere una boccata d'aria fresca.

«Cosa? Tu che vai a fare la spesa? Oh, miracolo!» Sbotta ridendo sotto i baffi.

«Sì, perché cosa c'è ? Non posso andarci?» Gli chiedo fingendomi infastidita.

«Certo, nessuno te lo impedisce.» commenta incredulo.

«Ok, vado a cambiarmi.» chiudo il frigo e vado in bagno.

Dopo alcuni minuti scendo le scale. Mio padre mi dà i soldi e la lista delle cose che dovrò comprare, inoltre mi avvisa che tra poco andrà al ristorante e che ci resterà fino a stasera e che quindi dovrò cucinare io e mi raccomanda di non incendiare la casa. Sbuffo scocciata perché non ha mai fiducia in me. Mi guardo un' altra volta allo specchio e poi mi dirigo vicino alla porta per prendere il giubbotto che sta sull'appendi abiti.

«Bene io vado, bye» li saluto, metto il giubbotto ed esco.

Appena metto piede fuori, un venticello fresco colpisce il mio viso facendomi venire la pelle d'oca. Mi stringo ancora di più nel giubbotto.
Questo freddo improvviso mi fa ricordare che l'estate, la mia stagione preferita, è finita e che siamo in autunno. Le foglie dal verde virano al giallo, i fiori appassiscono e gli storni iniziano a spostarsi da zone molto fredde a zone più calde.
Certe volte mi porta tristezza. Per me indica la morte, la solitudine e l'angoscia. Ma non violente, bensì dolci e malinconiche, proprio come la brezza che accarezza i miei capelli. Una delicatezza incongrua con le emozioni che si agitano nel mio cuore.
Non ci sono arrivata da sola ad avere questa visione del mondo e dei colori. Sono stata aiutata.
Mi fermo un momento a osservare alcune foglie di faggio che volteggiano nel vento e da qui, mi ricordano Luca. È strano, ma se ripenso a lui la prima cosa che ricordo è il suo pastrano marrone. Solo dopo ricordo anche i suoi capelli marroni come gli alberi spogli e i suoi occhi neri come le foglie bruciate. Ci incontrammo all'ultimo anno di liceo in gita con la scuola. Non mi entusiasmava l'idea di visitare la mostra d'arte di Van Gogh.
La sola idea di ammirare i quadri di un pazzo che
si tagliò l'orecchio solo perché litigò con l'amico non mi piaceva tanto. Avrei preferito andare a vedere un pittore più allegro come Andy Warhol.
Ricordo che stavo scherzando con Marco quando lo vidi. Si era attardato un momento per ammirare la "Notte stellata". Non avevo mai visto un'espressione e uno sguardo più belli e intensi di quelli. Da dove mi trovavo potevo vederne il profilo. In quel momento desiderai che guardasse così anche me. Risi di me stessa perché mi sentii gelosa di un quadro ma proprio grazie a quella risata lui si girò a guardarmi e io restai senza parole.

Mi attardai a mia volta mentre Marco si distrasse a parlare con un nostro compagno di classe. Scivolai lentamente indietro fino a raggiungere Luca e gli sorrisi sentendomi le guance calde. Lui ricambiò e io gli chiesi con un coraggio che non sapevo di avere: «Posso farti una foto?» Il ragazzo mi osservò sorpreso da quella mia domanda inaspettata, però mi sorrise.

«Sì, certo.» e si mise in posa.

La scattai e lo ringraziai. Gliela mostrai anche, ma prima di andarmene via mi chiese a sua volta se poteva fare lo stesso con me. Io acconsentii felice e fu allora che si presentò. Il suo nome mi piacque fin da subito.
Fu strano anche questo, conoscevo un mucchio di Luca, ma era la prima volta che questo nome mi faceva quest'effetto. Lo sentivo reale, lo sentivo vivo. Per la prima volta lo associai a un colore: quello dei suoi occhi. E mi misi a ridacchiare di me stessa.

Poi mi chiese il nome e se potevamo farne una insieme. Lui si accorse della mia risatina divertita e ridacchiò a sua volta, contagiato dalla mia allegria. Dopo mi chiese se la mostra mi stesse piacendo e io gli risposi che stranamente quel folle pittore che si suicidò senza un motivo logico, mi stava piacendo particolarmente.

Ci accorgemmo di essere rimasti indietro e ci affrettammo a raggiungerli. Luca si scusò sostenendo che fosse colpa sua se mi stavo perdendo la visita. Era più forte di lui, disse, certi quadri avevano questo potere e io ribattei che lo capivo.

E lui, come colto da un'illuminazione, mi domandò se sapessi come Van Gogh avesse dipinto "La notte stellata" io gli dissi che qualcosa la sapevo e lui mi approfondì l'argomento spiegandomi che dopo l'episodio del litigio con il suo collega pittore e il conseguente gesto estremo di tagliarsi l'orecchio, mentre era in ospedale una sera sognò quel cielo fantasioso e lo dipinse proprio in quel momento.

«Quello era il dipinto della sua speranza.» concluse lasciandomi riflettere sul significato di quella sua ultima frase.

Poi chinò il capo e aggiunse, con un sorriso dolce: « O almeno io la vedo così.»

Io annuii d'accordo. Non avevo mai visto quel pittore da quel punto di vista, dopo di lui pensai che Van Gogh fosse davvero un genio e da quel giorno, quel pittore strambo ma anche  eccezionale, divenne il mio preferito.

Lui continuò a dire che ogni colore fosse un' emozione unica: il blu scuro unito al nero rappresentava non solo il cielo ma anche le tenebre, il bianco indicava la luminosità della luna che durante quella notte in cui lui la dipinse si pensava che era Marte che si trovava più vicino a noi e quindi che fosse più luminoso.

Ma non era solo la fotografia del cielo. Era la foto della sua anima in quel momento. Anche se sapevo che riflettesse l'oscurità del mondo, per la prima volta realizzai che ero circondata dall'anima di Van Gogh.

Luca mi guardò e sembrò dirmi con lo sguardo : «So come ti senti, perché così mi sento anch'io.» Era incredibile quanto in quel momento mi sentissi vicina a lui, mai nella mia vita mi ero sentita così affine con qualcuno, ero davvero felice.

Poi ci riunimmo alla scolaresca. All'uscita ci scambiammo i numeri e poi ci rivedemmo altre due volte.

Lui arricchì molto la mia vita e la mia cultura, mi mostrò l'arte in una maniera nuova e alternativa e ne ero davvero affascinata. Ero talmente incantata che mi ero scordata che cosa avessi potuto dargli in cambio. Io ero bravissima con le materie scientifiche, ma mi sembrava una cosa ridicola, cioè il massimo che avrei potuto dargli erano delle ripetizioni di algebra. Il terzo giorno tornammo alla mostra e lì fui io a posare per lui, davanti alla "Notte stellata" e poi come se fossimo in un film ci baciammo.

Quella sera uscii con gli amici e Marco notò che avevo la testa tra le nuvole. Parlandomi mi fece vuotare il sacco e poi usò la sua parlantina per convincermi a lasciarlo. Non capii come avesse fatto, ma ci riuscì e dentro di me da allora, qualcosa si spense.

Da quel giorno non ho più rivisto Luca. Non so che fine abbia fatto e questo mi rattrista.
Riemergo dal ricordo e riprendo a camminare, con gli occhi pieni di lacrime. Da quel giorno, mi rifugio dietro a una maschera di cinismo e sarcasmo per non soffrire più.
Mentre cammino, cercando di detergermi le lacrime, sbatto contro una persona:«Ehi, stai attenta... Fede?» Sentendomi chiamare trasalisco e lo guardo. Sgrano gli occhi: «Paolo!»

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