Capitolo 2


Fiumane di studenti passavano a vanti e indietro alla porta a quell'ora, al momento della fine di buona parte dei corsi, e coloro che uscivano dalle infrastrutture si ritrovavano mura di persone, mura di carne con occhi e orecchie e nasi, che stavano lì appostate e parlavano fra loro muovendo le loro labbra come per dare respiro vitale ai loro pensieri e diffonderli nell'aria circostante. Un velo di vento veloce passava leggero fra di loro, come a intrecciarsi con i loro sospiri, e rimandavano in tutto l'aere i loro pensieri, e così alcuni frammenti del loro ragionare arrivava alle orecchie di Alberto, che ora usciva dalla medesima porta da cui era entrato nell'edificio.

Uscito, decise di dirigersi verso il centro. Si mosse, come le petre lungo il fondo di un mare, e superò uno, due, tre gruppi affollati di studenti, quando sentì una voce chiamarlo da dietro con un tono vagamente noto.

Alberto si girò sul posto per poi tentare di indovinare da dove fosse stato lanciato quel richiamo ignoto, ma le masse si facevano sempre più compatte mettere si sforzava di vedere qualche volto noto, così che in breve tutto fu una semplice falange di studenti e bici, e Alberto non poté riconoscere più niente.

Si rigirò e procedette a camminare verso l'uscita che si affacciava sulla piazza maggiore, e intanto che andava il cielo si rifaceva sempre più chiaro, non terso, ma leggero, e così il calore lo avvolgeva teneramente, come le mani di madre attorno al nato che allatta al proprio seno, e a piccoli sorsi pure lui, con lo sguardo, beveva la distesa di fresco cielo che si muoveva sempre più vicino a lui.

Delle persone gli passarono accanto, un cinguettio solitario si diffuse nell'aria, qualche ragazzo corse nella direzione opposta alla sua, e Alberto andava avanti ancora ripensando alla lezione e chiedendosi come meglio riordinare la caterva di appunti che in linee sparse aveva trascritto dal suono che aveva ascoltato dal professore sul suo quaderno, più simile a un campo di Caporetto che un quaderno per lo studio.

Si fermò per allacciarsi una scarpa dai lacci che ballavano allegri da qualche minuto ad ogni passo, e proprio quando si chinò su un ginocchio, sentì una voce che confermasse la sua incertezza di prima.

"Alberto?" chiese una persona, un uomo, dalla voce grave e gentile, che gli si era parato davanti con passo insicuro.

Alzando lo sguardo, egli poté notare un volto dai lineamenti che ricordavano qualcosa di indefinito.

Guardò in alto e vide un viso che lo guardava con occhi di nero d'ossidiana, incastonati in una pelle scura, e notturne erano le sfumature dei capelli e della barba, e questa scendeva lungo la faccia come a formare delle basette a mo' di elle, e le labbra carnose erano chiuse in un sigillo che non lasciava traspirare nulla. Le ciglia arcuate rimanevano schiacciate dalla piccola fronte, poi venivano i corti capelli volti al cielo, e a questi era opposto il mento, come punta di una mascella imponente e sporco del lieve grigio che accompagna la pelle sbarbata più volte. Lì come lingua di terra in mezzo al mare, c'era un paio di baffi dello stile painter-brush, e si sviluppavano fra l'arco del labbro superiore e il naso sottile. Un pendente si aggrappava all'orecchio sinistro, e Alberto poté vedere un paio di argentei serpenti avvolgersi a un bastone grigio e stranato.

"Sono io" rispose, finalmente, un attimo disorientato.

"Certo che sei tu" parve confermare l'altro, sorridendo

"Ma tu? Chi saresti?" chiese Alberto riprendendosi dall'iniziale sorpresa, e incrociandone lo sguardo carico di gravità con gli occhi suoi. Il ragazzo sollevò un ciglio, senza scomporsi, poi chiese "Alberto, ti ricordi di me?" gli chiese, roteando lievemente la testa e pressando gli occhi sotto le sopracciglia.

"No, chi saresti?" chiese, facendo un silenzioso mezzo passo all'indietro, mostrando cautela nel non mostrare la sua reticenza a parlare con quel mezzo sconosciuto.

"Giacomo?" disse con lo stesso tono con cui si pone una domanda

"Non ti conosco, penso."

"Ma se siamo andati alla stessa scuola per cinque anni!" esclamò, stupefatto. E come un fulmine scende rapido dal cielo, così salì su per la testa di Alberto il ricordo di Giacomo, più giovane, ovvero meno virile, di certo ancor nudo del piercing e di quello sguardo fermo, né ricordavane i capelli così ordinati.

"Giacomo, tu!" fece sorpreso nel rivederne il volo passato mezzo nascosto dietro delle fattezze ben diverse, cambiate dal tempo.

"Ebbene sì, me essere Giacomo" e rise brevemente, poi lo guardò fisso negli occhi, con le palpebre di poco socchiuse rispetto alla normalità, e l'apostrofò "Albé, ma quanti anni sono passati, due o molti di più, se non mi riconosci?". Gli sorrideva, pur facendo trasparire una vena di curiosità su quell'atteggiamento strano che Alberto mostrava.

"Saranno passati due anni, ma io non so dirti tanto, a dire la verità, ecco. Non ricordo molto, ricordo quasi niente, ad essere sinceri, ecco. "

"In che senso?"

"Semplice, ho avuto un'operazione recentemente, e ora non ho nessuna memoria, ma si tratta di un'amnesia temporanea. Confido che passi rapidamente, davvero, proprio ieri mi stavo struggendo per ricordare il nome di una persona, un mezzo anziano, dall'aspetto strano, eppure non ne ho cavato alcun ragno dal buco. Vabbè, poco importa. Ora ricordo, abbastanza bene, non tutto." e smise di parlare per ascoltar lo stomaco suo che domandava con fame e stanchezza del cibo, e lui ora si sentiva un po' fiacco e un po' con la testa vuota, dolorante per lo sforzo.

"Senti, io vado a mangiare ora, vieni con me, dai, così mi dici di più su cosa è successo in questo tempo lungo, va bene?"

E andò, e l'altro lo seguì, e mentre girovagavano si scambiavano qualche parola solinga.

"Ma, tu cosa fai ora?" gli chiese Alberto

"Ora studio, all'Uni, ingegneria, meccanica. Tu?"

"**..**" rispose

"Ah, non ti facevo da robe del genere, con rispetto, eh"

"Alla fin fine mi sono convinto, e non mi dispiace neanche così tanto"

"E a cosa ti porta?"

"Devo ancora capirlo, non ho le idee molto chiare."

"Uhm, hai ancora tempo, no?"

"Sì, dai. Comunque, volevo chiederti, cosa ne è successo degli altri? Non li ho sentiti da un po'"

"Beh, non so che dirti, né se abbia senso, se oggi ci vediamo la sera"

"la sera?" chiese dubbioso Alberto "in che senso?", al che Giacomo lo guardò stravolto e lasciando nel cuor dell'altro la pruriginosa sensazione di essersi dimenticato qualcosa.

"Ti ricordi che stasera ci dobbiamo vedere fra tutti noi, vero?"

"ehm, no"

Si guardarono per un paio di secondi tesi, in cui rallentarono prima e poi si accostarono alla fermata di un autobus.

"Bene, allora te lo ricordo io, ora. Stasera, alle sette e mezza" e poi, con tono un po' sommesso e allo stesso tempo che pareva invitarlo, aggiunse" a casa tua".

"Ah, non ho alcuna mera memoria di ciò che dici, ecco. Forse, dovresti dirmi qualcosa di più"

"va bene, ma che ne dici se andassimo per il parco lì?" e indicò con l'indice uno spiazzo verde alla loro destra e in avanti per duecento metri, circa.

"Ok" disse l'altro automaticamente, con gli occhi rotoloni che rimanevano stanti nel vuoto. Proseguirono, e nell'inoltrarsi nella macchia selvatica Alberto cominciò ad errare colle iridi da tutte le parti e per ogni cosa. Osservò alcune ragnatele tempestate di rugiada cristallina che rimandavano colori vivi ad ogni passante, e nella contemplazione il miraggio di un ricordo passato riapparì nebuloso nella testa sua.

Aveva incontrato Giacomo a scuola, al terzo anno di superiori, durante uno dei suoi nuovi giorni nell'istituto dove era stato immatricolato dopo aver lasciato una scuola precedente, difficoltosa, e nella velata indifferenza che lo accolse sin dall'inizio.

Giacomo era silenzioso, riservato spesso, e si scambiarono un paio di parole durante un'ora di laboratorio scolastico in cui si ritrovarono a dover seguire il lavoro assieme più perché obbligati che per estroversione, come si poté evincere osservando gli altri compagni che si associavano fra di loro senza mostrar alcun interesse nei confronti del nuovo arrivato.

Aveva provato a parlargli, a Giacomo, ma questi si era mostrato refrattario a dire una qualsiasi cosa su sé stesso, al che Alberto aveva pensato che fosse più conveniente che tacesse e aspettasse che fosse l'altro a diventar loquace, se mai fosse successo, e riprese a seguire i conti e le percentuali su un foglio, scarabocchiando qualcosa ogni tanto sulla pagina che dovevano usare entrambi per annotare i cambiamenti di ciò che andavano osservando; e fu proprio un accidente che Giacomo notò gli appunti dell'altro e la grafia elegante e le scritte fini.

"Bella grafia" commentò, senza mostrarsi troppo interessato

"Grazie" gli rispose, stupefatto da quell'osservazione alquanto inusuale. "Posso chiederti qualcosa?" gli domandò l'altro, con sguardo fermo e penetrante. E non lasciò ad Alberto neanche il tempo di fiatare, che subito chiese:

"Come mai scrivi sempre durante le lezioni?"

"Perché mi piace, no?"

"Sì, hai ragione. Ma cosa ti piace scrivere?" gli chiese, con tono più cortese e sbrinandosi un poco, comprendendo la sensazione che faceva sorgere in Alberto, che di certo si sentiva sotto una sorta di interrogatorio.

"Storie, di vario genere, di molti generi. Non so come spiegarmi, è tutto e niente, no? Alle volte sembra di scrivere una roba gigantesca, un'epopea, altre volte mi pare di dire scemenze" rispose, assorto nel pensare a come rispondere, facendosi statua, e gli occhi erano fissi su un punto vuoto.

Giacomo, al sentirlo, sorrise lievemente, ma rilassò il labbro subito, tornando serio, Riprese a seguire la tabella dei dati.

"Come mai questa domanda?" lo seguì Alberto, che dalla curiosità dell'altro parve venir contagiato, come il cadere periodico delle tessere del domino, e gli venne rivolto un sorriso non sorridente, non malizioso, non violento, che non pareva neanche uno scherno, ma solamente un gesto, un'espressione che doveva certamente venir interpretata come un rifiuto silenzioso di rispondere. Il tempo volò, non si dissero altro, ma, con sorpresa di Alberto, l'altro gli si sedette accanto in classe, e si guardarono vicendevolmente negli occhi, per un attimo, e poi tornarono ai loro pensieri.

Così fece la conoscenza di colui che ora, nel presente peregrino, gli stava a far compagnia, ma tanto tempo quanto il soffiar di vento in un giorno plumbeo e mogio sarebbe passato prima che davvero potessero parlarsi con la franchezza tipica di chi davvero sa di potersi permettere alcune libertà con chi gli è affine. Eppure, lentamente, fra giornate di malumore e giorni dal sole alto e imperioso, si parlarono, a piccoli sorsi e poi sempre di più, e fra disegni sciocchi sui quaderni, fra richieste di aiuto per i compiti pomeridiani, e gli intervalli che passavano dentro l'aula, poiché fuori faceva troppo freddo. Nugoli di nuvole si formavano durante tutte le giornate, ora prima ora dopo, e spesso nei pochi minuti di intervallo succedeva che le forme grigie si aggregavano fra di loro, minacciando di mandarla giù con violenza, Così, conveniva starsene seduti o camminare solo lungo i corridoi, ma Alberto preferiva starsene in classe, e Giacomo quietamente gli stava vicino, e ogni tanto uno dei due tradiva il proprio stato di quiete e distacco parlando un poco, e spesso all'uno veniva di leggere le righe dell'altro e commentarle interiormente.

"In fin dei conti, scrivi storie allegre" disse Giacomo con l'ironia fra le labbra, al che l'altro rise e rispose "Sono finali alternativi ai soliti, penso" e aggiunse "Se vuoi, puoi leggere, cioè, puoi leggere con il mio permesso" e accompagnò la frase con un gesto di finto fastidio.

"C'è bisogno della tua autorizzazione personale e speciale, quindi? Allora, se è così, chiedo umilmente che il sottoscritto possa leggere i Vostri scritti, Vostra magnificenza". Così, spensierati, andavano passando le giornate a scuola, per poi vedersi nei pomeriggi quando ne avevano possibilità.

Ed ora, a distanza di anni, ecco che Alberto ricordava quegli attimi fugaci e dolci, e nel presente, nella viva stagione che viveva gli veniva difficile potersi immedesimarsi in ciò che era stato. Certo, col tempo erano cambiati, e grazie al passare dei giorni, mesi e anni ecco che aveva collezionato i momenti più belli del passato nella sua testa; pure, ora non poteva più sentire le stesse emozioni, non con la amnesia che forte si era abbarbicata fra i solchi del cervello suo, ed ora null'altro c'era da fare.

Stava così, seduto vicino a Giacomo, come una volta, ma per nulla simile a prima, come un fiume in due attimi successivi.

Tacevano mentre osservavano lo zampillare delle acque di una fontanella posta lì di fronte a loro, come fosse stata messa non tanto come una decorazione, ma parte propria del parco, e ogni tanto una rondine vi ci fiondava contro come un fulmine fuori dal nulla per poi risalire in cielo, verso celeste confine della volta che gli copriva.

"Giacomo, come si chiamano gli altri? Non riesco a collegare nella mente mia i loro nomi alle facce rispettive, e mi sembra di star facendo solo confusione. Non capisco, sembrano così vicini a me, come volessero parlarmi una ad una, le lor anime, eppure non riesco ad afferrare chi sia chi. Ricordo vagamente solo Fremandi"

"Ricordi tanto bene chi più ti è stato caro, vedo" e abbozzò un riso "e pure alla mia mente dico solo un nome, affinché si imprima nella mente mia come alte cime, perché è cresciuta con me, e non meno dolce è poterne rivedere il viso, da cui solo tempo mi tiene diviso, da Berenice, mi ha rallentato di reincontrarla, Berenice, la sorella di Fremandi. Ma caduto è il nostro volo, ed ora ci teniamo ad altezze minori, come amici, così da non bruciarci dall'ardore se volassimo troppo in alto, né cadiamo per inerzia e freddezza, come capita a color che si avvicinano raso al mare e per errore fatale ecco che cadono."

"L'avevi detto, se non mi sbaglio, che vi eravate lasciati con la promessa di rimanere amici, no?"

"Sì, certo. Anzi, non proprio ci siamo lasciati, quanto abbiamo deciso di smettere di condividere certi momenti e sentirci tanto liberi fra di noi, ma, comunque, siamo rimasti in buoni rapporti, meglio che rapporti. Non abbiamo cessato di sentirci, non fino a poco tempo fa, quando ha detto che doveva viaggiare all'estero, ed ora so poco di lei, se non che stasera certamente ci sarà. Sono ansioso di rivederla"

"Temo di pensare a ciò che alberga nel cuor tuo. Forse hai ancora bisogno di tempo per riflettere su chi tu sia ancora e che dovresti andar oltre a tutto ciò, per il bene tuo e suo, no?"

"Non so, 'Berto, alle volte ancora vorrei vederne l'occhio chiaro, ridente, e perdermi in quel pallido blu che, come acqua, si diffonde in tutta l'iride sua. Non riesco più a credere nell'amore, non senza lei, eppure son cosciente di aver fatto bene a chiederle di fermarci, e anche lei si è mostrata convinta che fosse meglio dar fine alla nostra relazione. Devo pensarci, nel profondo mio." e sospirò, lanciò qualche occhiata in giro, si rigirò verso Alberto e, memore della domanda iniziale, continuò:

"Gli altri sono Carlo, come il tuo di nome, quello primo, ed Elisabetta, di cui so sì e no qualcosa grazie a ciò che mi ha comunicato Fremandi. Eh sì, Freddie, che è il primo che hai nominato, e l'ultimo che nomino io. Non perde la sua abitudine di essere sempre al centro di ogni discorso, prima o poi. Manco fosse il Sole, eppure biondo come il sole lo è, se non di più. Comunque, di lui so meno di quanto sappia di tutti gli altri, sebbene sia con lui con cui mi sono tenuto in contatto di più,

Fatto sta che, comunque siano andate le cose, ora bisogna riallacciare le fila di ciò che siamo stati con ciò che siamo.

Eppure, Alberto, io ogni volta che vago con la memoria al nostro comune passato rivedo i riflessi di noi fra le camere della mia testa e, sospirando ora di felicità e ora per tristezza, penso che verrà un giorno in cui i posteri guarderanno noi, noi nelle foto, e sorrideranno. Forse sentiranno le calde voci nostre, i nostri odori, forse un po' sgradevoli forse un po' troppo dolci, eppure scambieranno con noi i loro risi. Probabilmente sentiranno ciò che abbiamo provato noi, Forse no. Troppi forse, troppe foglie che vanno avanti e indietro, molte muoiono, poche si decompongono lentissimamente, poi pure loro cedono alla forza della Natura. Comunque, dicendo, ho fame"

"Andiamo, ho bisogno di cibo per ascoltare i tuoi pensieri di mezzogiorno. Sei sicuro di aver mangiato? Sembri un eremita con le noie e la brulicante fame nello stomaco."

Andarono lungo le stradine piccole lungo il parco e si sedettero a un bar piccolo posto lì fra le chiome di un gruppetto di alberi, dunque ordinarono, consumarono il pasto e solo allora ripresero a chiacchierare:

"Ti ricordi di quella volta che venimmo qua, anzi, di quando andammo là" e indicò una piccola radura al limitare dell'erba con il fitto bosco "e ci siamo persi fra le selve e le polle d'acqua?"

Infatti, anni fa, in un caldo pomeriggio di tarda estate, già spiravano i primi venti miti e l'arsura s'era dileguata dalla città, Alberto era arrivato nel luogo indicato dove gli altri lo stavano già aspettando da qualche minuto, e, nel vederli lì posti tutti assieme, parevano dei denti di leone che parlavano fra loro e che tacquero solo al vederlo affaticarsi verso loro dopo aver corso in bici per quasi mezz'ora, quasi dimentico di dover essere lì in anticipo rispetto all'ora segnata. E lì, quasi addormentato fra tutti, con il ciglio calato sugli occhi per stanchezza, stava Giacomo, sdraiato su un tronco abbattuto e steso per terra.

È arrivato il nostro signore, vedo" disse Fremandi "ora possiamo allegramente partire allietati della sua presenza. Anatema su di noi, se mai venisse a mancarci l'eroe nostro"

"Risparmi mai il tuo sarcasmo agli altri?"

"No, sono contrario ai risparmi, servono a ben poco, figuriamoci quando si tratta di risparmiare sarcasmo. Di quello, ne ho in abbondanza per tutti, tutti color che non lo capiscono"

"Ma se ho pure colto cosa dicevi?!"

"No, io ero serio"

"Ma va a..."

"Vedi, non cogli il sarcasmo" disse, e sorrise mentre si inoltrò nella foresta lasciando gli altri dietro sé

"Nessuno lo capisce" disse Elisabetta

"Non è vero, semplicemente si diverte solo facendo ironia e sarcasmo. Ah sì, si diletta con battute di cattivo gusto, dimenticavo, che sciocchina che sono"

Tornarono a essere muti e rimasero lì ad aspettare che il Sole calasse di un po' e nel mentre Giacomo rimaneva sdraiato, con le mani intrecciate e gli occhi che vagavano fra le foglie che gli stavano lì sopra, a osservarlo e a farsi ammirare.

Dopo che passò qualche minuto, eccolo riaversi dal torpore tardo pomeridiano e rimettersi sui fianchi.

"Albe, come va?" chiese, e gli altri risero della improvvisa e ritardataria domanda

"Bene, tutto bene Tu? Hai dormito bene? Ti vedevo immobile come un morto, lì sdraiato fra l'erba; quindi, ho preferito non svegliarti"

"A dire la verità, non è che abbia propriamente dormito, piuttosto sono stato sdraiato a fantasticare su cose a caso. Non so neanche io a cosa stessi pensando nello specifico, ma so che rimangono immagini strane. Vabbè. Direi che potremmo andare, no?" e guardò gli altri come per voler far capire che stesse volgendo la domanda a tutti loro.

Si alzarono e sia avviarono pure loro mentre il sole se ne andava scendendo delicatamente lungo la cresta del cielo, e nelle immagini del sole si perdettero i loro riflessi, rimandati in cielo dalle polle di acqua che lì e qua trovavano man mano che proseguirono.     

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