Capitolo 1


La luce trafilava fra le persiane della finestra, colpiva lo specchio appeso alla parete opposta e veniva fatta cadere sul volto di Alberto. Dall'angolazione con cui entrava la luce dalle finestre si capiva che dovessero essere le dieci inoltrate, e a dimostrarlo erano le ruote delle auto che sterzavano e non lasciavano nessuna libertà di dormire o almeno risvegliarsi lentamente. I clacson dei guidatori seriali ruppero la quiete di Alberto, il quale si sentì chiamato dal dovere di alzarsi ed andare all'università.

Decisosi ad andare, Alberto si levò dal letto e si mosse verso il bagno, coi vestiti stesi lungo l'avambraccio, e si fece una doccia e si rasò quella quasi sparuta radura che infestava il petto ancora un po' adolescenziale; quindi, mangiò due biscotti e bevve del latte, e solo dopo che ebbe sistemato tutto, preparò i tomi e tutto nella borsa a tracolla, uscì.

Si toccò di nuovo la cicatrice, ma non sentì nulla, soprattutto perché a rapirgli l'attenzione fu il rumore che venne dall'appartamento di fianco, dove viveva Minerva. Probabilmente stava anche lei sistemando la casa sua, come era solito fare appena svegliatasi. LA vecchia signora era oramai una costante nella quotidianità di Alberto, anche se non si potesse dire la stessa cosa del ragazzo per Minerva, in quanto la signora era quasi sia cieca che sorda, oltre a possedere una voce flebile che usava solo per proferire poche parole di aiuto o di ringraziamento quando aveva bisogno che qualche buon'anima le facesse una commissione. Minerva, che era rimasta sola, dato che il marito era tornato ad essere materia slegata da qualche anno, e i figli s'erano dispersi un po' dovunque lungo tutto il globo terracqueo; ora rimaneva da sola, ma ciò che sorprendeva molti era che aveva ancora sete di vita, a differenza di molti altri anziani che desiderano una morte rapida per le loro ossa, oramai abbandonate da tutti.

"Chissà, forse dovrei farle una o due visite, dato che anche io un giorno diventerò come lei, un invisibile nella società. Sì, dovrei farle questo favore" ma già si muoveva verso l'ascensore per andare rapidamente verso l'università.

"Quindi, se vado velocemente verso la stazione riesco a prendere al volo il treno delle dieci e tre quarti, poi verso le undici e mezza trovo la mia fermata, quindi arrivo nel centro di D..... e poi è una scarsa ventina di minuti di camminata, ed eccomi arrivato. Sarà una frenetica corsa, mi sa" si disse, abbandonando ogni pensiero finché non arrivo alla piattaforma del treno che aspettava, e solo dopo essere salito in carrozza e aver fatto timbrare il biglietto poté riposarsi.

Rischiò di perdere la partenza solo perché si era sentito tentato di fermarsi, l'aria fresca di mattina, la rugiada sul verde dell'erba, la nebbiolina onnipresente e tutto il resto sembravano volerlo fermare e accoglierlo in quegli attimi di natural quiete, ma, più tentennava, più forte era forte il contrarsi delle viscere sotto la sensazione che rischiava di perdere il treno e non potere neanche vedere il treno partire, figurarsi arrivare in città in ritardo, neanche. Dovette levarsi dalla testa quella tentazione e partire rapido e con buona lena.

Correva quasi, nell'ansia di perdere il treno, e scivolava solo per fortuna fra le persone che gli venivano contro solo, così da far turbinare l'aria con l'eleganza delle statuine che si muovono ancora in alcuni piccoli modellini che si possono vedere fortunatamente in alcuni musei.

Nel muoversi rapido oramai aveva perso quasi il fiato e si sentiva stremato, con la fronte imperlata di sudore salato e i capelli delle tempie già bagnati, e fu così che cadde. Ma cadde perché si incantò nella sua mente, rotolando in avanti, ruzzoloni, e il sangue dalla ferita della fronte andò a mischiarsi col rosso che Alberto vedeva. Vedeva un velo bordeaux, uno staccio di un vestito che non riconosceva, lì di fronte a egli, e sapeva che l'immaginazione che gli velava la vista era, appunto, solo una apparizione illusoria, una figura che lì non c'era mai stata, nella realtà, e pure il piede non sentì nulla quando proseguì nella stessa direzione, ma forte fu il fastidio che lo colse quando cadde e realizzò di vedere il miraggio di un drappello di vestito.

Un vestito, un abito che stranamente gli pareva di aver già visto, sebbene scandagliando la pozza delle sue memorie non trovasse molto, così che decise di ignorare ogni particolare e liberarsi la mente di quel pensiero, almeno per quel tratto di strada.

Ora, seduto in una carrozza, rifletteva sulla mattinata, controllava di non aver dimenticato nulla, sebbene fosse poco pratico come esercizio, ora ch'era distante da casa sua, e provava a cogliere qualche collegamento con quella visione e il suo passato.

Così fu che nel ricordare a piccoli sorsi, scatto dopo scatto, egli si sentì una voce gradualmente meno ovattata spuntare in testa sua, e la melodiosità sua andava un attimo a rasserenare l'inquieto animo ch'era scosso da quell'incidente e dal rischio di arrivare tardi. E vide un ragazzo e il completo da cui mancava un pezzo e il sorriso leggero e di dio che gli si dipingeva in fronte lo spinsero a chiedersi:" E che? Ch'è egli per occupare la mia testa ora?" e l'iridi degli occhi suoi si caricavano delle immagini che più gli assalivano la mente e il contorcersi delle viscere.

Resuscitato fra i ricordi d'Alberto e dalle forme confuse e indistinte della immaginazione, immacolato nella sua concezione originaria fra le pareti cerebrali del cranio d'Alberto, tornava a far parte della realtà del ragazzo l'immagine tanto cara d'un altro ragazzo, biondo, dal nome normanno Manfredi, chiamato Fremandi oramai da tutti coloro che lo tenevano caro in sé stessi.

Chi era egli? Fremandi ritornava lento a fluire nel bacino di certezze ed immagini del passato, sì lentamente che pareva quasi non muoversi, così che Alberto non ricordava se non il viso e il nome, nulla più, cosa per cui scavare nel suo passato era meglio farlo innanzi nel tempo.

Per ora, bastava asolo sentirne il nome fischiare nelle tempie ed ecco che una incerta familiarità risuonava fra le figure che una ad una so avvicinavano a lui e gli parevano parlare con voci vibranti.

Ed ora che le parole rimanevano forti e venivano pronunciate solo nella sua testa, ricordava a gocce e gocce, leggermente, ciò che sottilmente era passato con la velocità d'un tuono e la quiete della spensieratezza.

Guardò fuori come per non annoiarsi in quel lungo tempo,

Le fronde spogliate degli alberi lontani, lì radicati sui colli solitari, e ancora più distanti, le chiome ora grigie ora verdognole delle selve, andavano a richiamare a sé stesse l'attenzione di Alberto e lo incantavano come fanno le bolle di sapone, lasciandosi ammirare per un attimo, prima di tornare ad essere inafferrabili alla mano pargoletta, o come quando si vestono di varie sfumature perché viste dalla giusta luce. Il continuo paesaggio incolto proseguiva assieme al treno di Alberto verso la città, e gli arboscelli e le piante si intrecciavano fra loro e spuntavano ogni tanto lungo i campi coltivati, mentre più vicino alla carrozza comparivano per un guizzo i primi edifici, come preludio all'entrata in città. Già si vedevano i primi palazzi profilarsi in distanza, con le loro moli e le altezze vertiginose, come torri che volevano arrivare a toccare il cielo e mostravano il loro orgoglio e la loro possenza.

Li vide e pensò di tirar fuori il quaderno del corso che doveva seguire quella mattina per ripassare ciò che a primo pensiero gli era sfuggito inosservato, e per poter prestarsi a ciò ch'è resistente come il ferro dopo che questo è stato raffreddato e temprato, ovvero con acume.

Prese il libro e iniziò a sfogliarlo passando lo sguardo velocemente su ciò che aveva scritto ai lati dei testi e richiamando alla memoria ogni singola cosa che potesse aiutarlo a ricostruire il filo della lezione precedente. Aiutandosi un po' con i testi rielaborati personalmente e un po' riesumando il resto, ricordò la lezione precedente e si rinchiuse nella sua mente, ignorando i rumori ei passanti e degli ultimi viaggiatori che erano appena saliti, o i vagiti di uno o due bambini infanti.

La lieve vena di noia di quelle lezioni spesso si amalgamava al cattivo sonno o alla fame, portandolo ad essere solo apparentemente interessato a ciò che veniva spiegato dal professore, e nei brevi barlumi di piena lucidità stendeva brevi appunti sulle pagine con la matita, come a squarciare una superficie bianca nel momento più pesante, una rapida fuga da ciò che lo circondava in quel momento,

Lesse, mentre la carrozza oramai era quasi oltre metà del percorso, un testo su cui gli cadde l'occhio attento, e seguì le linee come fanno le formiche lungo il loro eterno lavoro. Il testo come anima vivente diceva:

...Il mio tempio, arcana casa di misteri

Inaccessibile ai molti

Comprensibile ai pochi

Dalla paternità è dove rifugge ancora Onan...

E il resto del testo, sia la parte prima, che la parte dopo, gli furono incomprensibili perché erano stato evidentemente cancellati e rimanevano solo dei vani segni di incisione della matita, ma capire cosa avesse scritto era abbastanza difficile da scoraggiarlo, specialmente se si considerava che non poteva più interessargli, o almeno non per quel tempo.

Ricordava di aver scritto vari poemi negli ultimi due anni, per passione, per divertimento, per risposta alle crisi adolescenziali, ma oramai si limitava a scrivere pochissimo, qualche rigo, quando l'ingegno fluiva nella sua testa, ed allora la mano scriveva rapida come un trattore, a seminare il piano liscio della carta e a far fiorire pensieri di colore nero e blu.

La mano sua, non sua davvero, né d'altri, ma di sé stessa, non serva, ma padrona, tendeva a scrivere o a disegnare d'ovunque potesse, lasciando ad Alberto la mera sensazione ch'essa fosse assolutamente indipendente da quelle dita che lasciavano segni e comunicavano con Alberto. Certo, così piaceva pensare ad Alberto, ogni volta che riconosceva una certa poeticità o raffinatezza in ogni cosa manuale fatta da lui, e dovendo riconoscere che quella meraviglia dovesse essere nelle mani, non trovandola dentro sé stesso.

Eppure, a rimirare e a mischiarsi in quel testo, ora non capiva più niente e si sentiva come fosse caduto nel nulla dal suolo, e sprofondava sempre di più nello stato di incomprensione. "Forse, posso far qualcosa di più rilassante al posto di scervellarmi inutilmente per comprender questo testo. Lo capirò dopo"

Così, sospirando come dopo un esercizio di apnea, tornò a rivedersi svogliatamente i concetti riportati a piè di pagina, e quando arrivò alla sezione del libro dedicata ai primi studi di .... dell'Ottocento, fu ricatturato da un post-it giallo che aveva attaccato su un disegno vagamente geometrico, un insieme di figure tutte concentriche, con alcune di loro che fuoriuscivano da quelle in cui stavano dentro per poi ritornare alla loro posizione originaria. Rimase a studiare per un distratto secondo la composizione per poi riguardare il contenuto del fogliettino giallo. S poteva leggere:

"Tutto tende all'equilibrio, e per raggiungerlo è necessario costruire il nuovo dalla distruzione del vecchio e così è la felicità, un equilibrare sé stessi attraverso l'esperienza e il dolore". Pareva una massima incisa su una pietra, e lui uno che voleva afferrarne il significato arcadico, ma come proseguiva il testo si rivelò ancora più incomprensibile:

"La felicità è del singolo o degli altri, in quanto coloro che non sanno regolare sé stessi diventano come le foglie, oggetti in balia del vento, e vengono travolte e portate di qua di là di su e di giù dalle necessità maggiori dell'altra gente."

"Ok, direi che per oggi ne abbiamo abbastanza di queste scritte mistiche, no? Sì sì, meglio che io guardi fuori"

Poté constatare che oramai erano arrivati quasi alla fermata a cui era diretto, come gli parve dal drastico cambiamento di ciò che vedeva dal suo posto in carrozza.

I singoli grattacieli che aveva potuto notare prima erano nient'altro che sparuti alberi di ferro e acciaio in un territorio coltivato, mentre ora erano i piedi dei passanti e i bagagli di qualche turista di tarda stagione a muoversi lungo i marciapiedi come fossero gli aratri che lasciavano dei solchi sulla dura roccia, e le foreste verdi di prima erano state sovrastate da giungle di palazzine e case.

"Comunque, belli sono belli" si disse Alberto a seguire con l'occhio il profilo degli edifici e le sfumature delle persone che indistintamente apparivano con i loro abiti e che puntualmente si portavano con sé stessi, sfumando poi come tempere ad olio.

Scese, dunque, dalla sua carrozza e si diresse verso le scale mobili, come goccia di pioggia in un fiume, e con il flusso lui se ne andava verso l'uscita, provando a tenersi distante da quella calca di gente movente, ma ecco che tutti quei corpi e la velocità con cui proseguivano gli impedirono di poter fluire fuor da quella bacinella, e dovette accettare con pazienza che solo una volta lasciata la stazione si sarebbe potuto dirigere speditamente verso l'università, con velocità folle, dato che rischiava di arrivare tremendamente in ritardo. Odiava i ritardi, da parte di tutti.

Le luci dei grigi corridoi si alternavano con quelle degli spot pubblicitari e lui guardava le timide frange di ombra che pullulavano negli angoli e i rifiuti del giorno che potevano aver la loro dose di certa attenzione dai passanti, i quali si facevano cauti a non pestare nulla che non fossero le piastrelle del pavimento. Chi camminava lento, chi più veloce, chi seguiva una traiettoria ubriaca e chi schiamazzava semplicemente per il gusto di portare disordine fra loro, e poi Alberto ed altri e chissà cosa non poteva essere notato in quello sciame di persone.

Andava deciso avanti, con gli occhi fissi nel vuoto, sapendo già dove dirigersi, e gli ci volle un attimo, come uno sfogliare di pagine, che si rese conto di essere uscito dall'underground, come poi poteva constatare sia dalla luce sempre maggiore che dalle voci distanti e vicine di chi su muoveva avanti e chi indietro.

Si guardò attorno per capire come procedere in quel pantano di persone e strade sovraffollate da biciclette, gente in pattini e pedoni. Fortuna che la metropolitana non fosse in pieno centro, ch'altrimenti se ne sarebbe tornato direttamente al punto di partenza se avesse provato a muoversi ordinatamente in una folla ancora più grande.

Vide le scritte dei bari e dei cafè più noti in città, trovò la via e s'avviò.

Man mano che avanzava lungo il corso principale dei dipartimenti dell'università notò che con lui venivano molte altre facce che celermente si dirigevano probabilmente ai loro edifici, dati tratti giovani dei loro volti e l'aspetto di quelli là.

Il rumore di tacchi di alcune e di suola di altri andavano a formare una pantomima fra il divertente e l'ansioso, ché a guardarli veniva un poco da curiosare perché andassero tutti così frettolosamente via da dove fossero arrivati, eppure sempre gli atteggiamenti di loro portava quelli che stavano seduti ai lati della via, sulle panchine di qualche cafè, a chiedersi perché tanta fretta. Come i piccioni che li seguivano quasi pedissequamente nel cielo grigio, come nuvole malamente fisse nell'arco del cielo, si separavano lungo il percorso, silenziosamente, senza cenni, e rimanevano sempre di meno su quella strada di ciottoli medievali a camminare quasi trafelati.

Alberto, quasi per ironia della sorte, poté osservare che sui lati della strada gli unici negozi nient'altro erano che non che bar e bettole che servivano pasti in neanche u paio di minuti. "Tutti un flusso, tutti un mare in tempesta, qui".

Finalmente l'edificio in stile Bauhaus che tanto gli era familiare all'occhio spiccò fra tutti quelli che gli erano attorno, e un filo di aria di rilassatezza trapelò dalle sue labbra secche, Entrò, scomparì dietro i vetri sporchi dell'ingresso.

Si tastò di nuovo la cicatrice, che gli bruciava un po' da qualche minuto, e aspettò che il dolore passasse prima di entrare, ma vedendo che la pungente sensazione gli assillava le tempie anche quando il maggiore dolore se ne andava, decise di salire in aula.

Fuori lil cielo grigio accarezzava le teste di un paio di alberi alti e degli edifici, poi niente, se non uno o due stormi di uccelli vagabondi parevano perlustrare tutta la città dalla loro altezza irraggiungibile, così che parevano formiche su una distesa bigia, e gli umani pure erano insetti minuscoli su un telo scuro, dal punto di vista delle bestie che volavano.

I Fiori spuntavano o da qui o da là e non la sapevano più dove crescere se non straripare ancora di più dai posti loro, se non come fiumi, e pochi sopravvivevano quasi intonsi, come foglie d'autunno, ma gli atri venivano calpestati dai passanti distratti e si rivelavano poco resilienti all'essere piegati, così che tutti a fine della loro stagione, potevano solo marcire con l'inverno.

E andando ed andando, ecco che si muovevano verso quel sole dal fioco raggio luminoso, diventando come la fosca nebbia, e lasciandosi dietro e sotto una città ancora un po' in trambusto durante quel risveglio dal sereno torpore notturno, ma già pronta a lanciarsi nel vivo della sua routine, e ogni goccia di rugiada si seccava al salire delle temperature, unendosi ai fumi dei mozziconi di sigarette, lasciati accesi sul cemento, e alla sensazione di umido solforoso che oramai era attecchito lì in città. 

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