Ucronia
Che ne sai tu?
Un vaso blu cade ed esplode quando si scontra col pavimento, mille schegge acuminate come punte di frecce schizzano ovunque, e poi all'incontrario, vengono risucchiate da una forza centripeta ed ecco che il vaso è ancora sulla mensola, intatto. Clicco play, il vaso esplode di nuovo e poi si ricompone, il rumore di sottofondo è stato rimosso al momento dell'impatto, snaturando una proprietà che appartiene di diritto a tutti gli elementi potenzialmente infrangibili. Chiudo l'icona, oggi la concentrazione è una sfoglia di cipolla e non ho voglia di perdere il tempo montando decine di scene girate da terzi. Stanotte ci ripenserò, tanto so che non dormirò, non quando la voglia di prendere a pugni qualcosa è più prepotente di quella di riposare. Afferro le chiavi ed il cellulare, indosso la mascherina nera, più adatta a fungere da filtro col passare dei tempi, da maschera identitaria per non rendermi riconoscibile, col berretto di lana ed il cappuccio tirato. E a me piace essere invisibile quando voglio, e fare rumore quando ho voglia. Non è una ripetizione, funge da rafforzativo per specificare quanto desideri urlare e attirare l'attenzione, e poi nascondermi come un verme che si augura di non essere calpestato prima di aver raggiunto l'umida pozzanghera schifosa. Troppo disgustoso, penserete, ma a me piace disgustare il lettore, e di certo sono più onesto di Bukowski in questo, narcisista per eccellenza. E che se non scrivessi queste stronzate dalla mattina alla sera, forse Eren non mi avrebbe lasciato.
A me piace il rumore e mi piace farlo, Eren lo sa. Ma odio il rumore della folla, il vociare, i clacson, i pianti dei neonati, le urla al cellulare, le lamentele, le polemiche, lo scoppiettare dei motorini malmessi, il sottile vibrare delle ali delle zanzare e le risate trillanti delle persone felici quando io non lo sono. Mi piace il silenzio, in quel caso. Ma a me piace sentire Eren gemermi nelle orecchie, l'assordante schioccare della nostra pelle mentre si aggrappa a me e gli chiedo "Troppo forte?" e lui non risponde, perché è assuefatto da me, e allora glielo richiedo e lui annuisce poco convinto perché non vuole che finisca subito, e allora decelero e mi bacia per ringraziarmi. E mi piace sentirlo gridare, mentre mi insulta. Mi piace perché a me piace fare a pezzi, anche se le persone, quando vanno in pezzi, non fanno rumore. O fanno rumore? E forse le lacrime e i singhiozzi sono simulacro dei pezzi: per ogni lacrima una scheggia del vaso blu. Ma si può ricomporre? Ti voglio ricomporre, Eren, e non voglio farti a pezzi. Distruggimi tu, piuttosto, annienta la mia paura che muta forma in rabbia, ricordami che non possiamo stare insieme e che questo mio desiderio, quindi, non può essere soddisfatto. Ma tu mi ripeti "Sei cambiato ormai" ed io ti dico non è vero, non è vero, non voglio rischiare, perché dobbiamo rischiare? E se la terapia non avesse funzionato? E se questo incontro all'angolo della strada, casuale come ogni irruzione creativa e beffarda del caso, fosse soltanto, per l'appunto, una beffa? Nient'altro che un banco di prova per testarmi. Ed io non voglio più farti fare rumore, non voglio farti a pezzi perché odio il rumore e amo il silenzio. Sono cambiate tante cose ma che ne sai tu?
Che ne sai tu?
Eri soltanto tu
Quando ci siamo conosciuti Eren era ancora troppo piccolo per intrattenere una relazione di qualunque natura con me, persino amicale, visto che aveva dodici anni ed io diciannove, ed entrambi, quando ci ritrovavamo nella stessa casa, trascorrevamo il tempo ben lontani l'uno dall'altro: Eren, molto probabilmente, rinchiuso nel cesso a masturbarsi di continuo, io invece alla Play Station con Mikasa, sua sorella nonché mia compagna di classe fin dalle medie e amica intima. Non era un bambino molto loquace, o forse ero io che lo mettevo particolarmente in soggezione, visto che, nonostante la frequenza con cui lo incontrassi, si ostinava a chinare lo sguardo, due occhi grandi come quelli di un alieno, verdissimi e nettamente in contrasto con i capelli scuri. Di certo, pensai più di una volta, sarebbe stato protagonista di migliaia di avances, una volta maturato. E la sua maturazione non mi piacque per niente, visto che, a diciotto anni compiuti, era più alto di me che ne avevo venticinque. Una follia a dirla tutta, e avrei potuto sviluppare un qualche malsano complesso di inferiorità nei suoi confronti, se le mie insicurezze, invece di mettersi a strepitare come mocciosi affamati, avessero deposto le armi difronte alla sua gentilezza. Eren, bambino timido, era divenuto uno splendido adolescente, un giovane uomo cordiale, affabile in tutto quello che faceva, un po' permaloso alle volte, decisamente un nonnulla rispetto all'aura di leggerezza che annientava la sua stessa immaturità fisiologica. Ho sempre invidiato Eren, fin da quando era un bambino e mi ricordava che a me, a quella età, non veniva concesso di correre in bicicletta con i figli dei vicini, né tantomeno ricevere un bacio in fronte da mia madre. Perché io sono il figlio di una bugia. Non c'è bisogno che ve ne parli, lettori invisibili che mi piace credere siate tutti qui presenti a costituire una platea per me e unicamente per me. Mi sento meno solo così, in quest'appartamento gelido in pieno isolamento, viste le limitazioni che rafforzano i confini regionali. Quindi immaginiamo che sia ora su un palco, e che vi stia raccontando la storia dell'amore meno avvincente e più tormentato nella storia dell'umanità, senza includere eventi catastrofici o cataclismi vari. Solo io ed Eren, e la catastrofe che porto io, mentre sull'altro piatto della bilancia risiede l'amore immenso che nutro per lui. Comunque, più tardi capii che l'amore stesso aveva sabotato l'amicizia fra me e Eren, perché fra me e lui non c'è mai stato altro che amore. E la mia comprensione difettata aveva giusta ragione di esistere, dal momento che per Eren evitarmi era la chiave del successo. Di certo non aveva perso il vizio di masturbarsi in bagno, ma seppi solo ai suoi vent'anni che aveva sempre nutrito un'ammirazione sconsiderata nei miei confronti, motivo per cui, mentre io giocavo a Final Fantasy 7 con sua sorella nel soggiorno, muovendomi sul divano imbottito di piume d'oca come se stessi guidando un'auto di Formula 1, lui socchiudeva gli occhi e pensava a me. Era il suo compleanno, quando me lo disse. Ed era bello, ma insomma, Eren è Eren. Eren occhi d'alieno, Eren capelli pazzi, Eren che mi stacca in altezza di troppi centimetri per i miei gusti. Eren che mi bacia e mi sorride, Eren che geme, Eren che ride, Eren che piange. Eren, soltanto Eren. Soltanto tu, Eren.
Avrei potuto per te
Mi sono reso conto di avere un debole per Eren quando ha compiuto la maggiore età. Come detto pocanzi, Eren era attraente da fare invidia a qualsiasi coetaneo, me compreso che non ero un coetaneo, ma che di certo non ero ciecato. Eppure non ero l'unico a percepire il suo fascino, che trasudava con una naturalezza agghiacciante, ad esempio dal modo in cui si portava la sigaretta alla bocca, inspirando e sbuffando zaffate di fumo trattenendola fra le labbra. Da quel momento in poi sarei stato io quello chiuso in bagno a fantasticare sullo scopare con lui, con l'unica differenza che Eren apparteneva già a qualcun altro. L'idea non mi era mai andata a genio e non lo fa tutt'ora, perché era una relazione tossica quella con Farlan, una gabbia di gelosia corrosiva per due occhi che si emozionavano e si addoloravano troppo facilmente, per reggerne la claustrofobia. Ma anche la nostra relazione non può vantare di essere stata sana, viste tutte le volte in cui mi sono tirato indietro, Levi Ackerman sovrano dei codardi. Mi sono reso conto di essere innamorato di lui una sera, quando, mentre Mikasa portava Rufus, il loro Border Collie, a passeggio, Eren rincasò sbattendo la porta, scivolando lungo di essa mentre urlava. Poi scoppiò a piangere, ed io mi diressi rapidamente dalla cucina all'ingresso, chinandomi in apprensione difronte a lui, i palmi sul suo viso mentre gli chiedevo "Parlami, che è successo? Parlami!". Quella sera, una volta tornato a casa, ricordo che mi portai il pollice alle labbra, per assaggiare il suo dolore salato. Forse un modo per incanalarlo nel mio corpo, ingurgitarlo, e poi rimetterlo da qualche parte insieme a tutti i pensieri che quella notte portò con sé. Avrei voluto dormire con lui, per carezzargli la guancia arrossata per lo schiaffo ricevuto, per lenirgli l'anima, ma non potei. Le parole di Mikasa generarono un trambusto simile allo scontro ripetuto di due piatti, e lì odiai il rumore. Perché Eren non lo meritava. Aveva bisogno di lasciarsi cullare dal mare d'un porto sicuro. Non mi fu concesso, ma in quel momento capii. Avrei potuto fare tante cose per te, che non ho fatto mai, come ad esempio dirti quella volta "Lasciami essere quella persona". Ma non vivo in un'ucronia, e non posso manipolare il tempo, e neppure tu, Eren. Per questo motivo è bene che tutto resti come è, e lasciare che il futuro abbia luogo solo altrove. Magari ad Ucronia.
Non posso raggiungerti
Lo sai che paritario deriva da pair, coppia? Io non ti sono mai stato paritario, Eren. Non ho avuto neanche a ventisette anni il coraggio di dirti che ti amavo, che avrei potuto fare tutto quello che volevi, se soltanto me l'avessi chiesto, un annullamento cosmico che poi, una volta attuatosi nel corso della nostra relazione, mi ha annullato per davvero. L'ho imparato in terapia, ma non è mai stata colpa tua. Perché io amo rompere: amo rompere la nostra relazione, te, me. O amavo. Mi piace pensare che sia finita, ora che sono trascorsi due anni, ora che ti guardo negli occhi e mi dici "Ti amo, non ho mai smesso, mai" ed io ti chiedo "C'è stato qualcuno, oltre me?" e tu mi rispondi "Sì, c'era e c'è ancora", e mi viene da rimettere ma tu sei ancora bellissimo, con i capelli raccolti in una mezzacoda disordinata nei tuoi ventidue anni, ed ora piagnucolo come un bambino perché ho imparato che piangere significa volersi bene, e ora mi voglio bene davvero. E come te lo dico che ho imparato ad amarmi, ad amarti? Che ne so io che la persona che frequenti non sia infinitamente migliore di questa persona scassata che ti ritrovi davanti? Io non ti sono paritario, e te lo dico "Io non ti merito" e tu mi dici "Io ti amo" e allora io ti rispondo "Anche io, per Dio, anche io" però non ti bacio, anche se vorrei. Ma ti accarezzo la guancia, la stessa che fu lesionata da una mano brutale, e ti saluto. Alla prossima, ti dico, mi dico. È successo ieri, quando il caso creativo e bastardo mi ha messo alla prova, e anche oggi mi punzecchia con un bastone e mi assilla. E allora poi mi ripeto che non posso raggiungerti, perché, anche se il mio psicoterapeuta solleva gli occhi al cielo e mi domanda se io creda in tutto il lavoro che abbiamo fatto in due anni, io gli rispondo che ci credo. Ma non credo in me.
Vorrà pur significare qualcosa
Quando dissi a Mikasa e alla tua famiglia che ci stavamo frequentando (e sì, ormai parlo con te, nessuna platea, sii primo attore dei miei pensieri) nessuno se ne stupì, anzi! Tua madre era così lieta nell'includermi in modo così saldo e definitivo nel vostro nucleo che mi venne quasi da commuovermi per l'emozione, percependo sulla pelle un calore estraneo alla mia infanzia, soprattutto quando Grisha mi abbracciò. E so che pensasti la stessa cosa, perché oltre la spalla di tuo padre ti guardai, ed eri così smielatamente intenerito dalla situazione che ti mettesti a piangere. "Il tuo dolore è il mio dolore. La tua felicità è la mia felicità. Il tuo successo è il mio successo", me lo dicevi spesso e nelle occasioni più disparate, ad esempio quando, conclusa la cena, mi accompagnasti a casa a piedi, la neve che scricchiolava sotto le scarpe e tu sorridevi come un moccioso. E io odio i bambini, ma tu eri il mio bambino preferito, e il mio ragazzo adulto amante preferito, quindi mi limitai ad osservare il tuo profilo illuminato dalla luce gialla di un lampione a gas. In quel momento avrei voluto baciarti, e sentii in me strisciare l'esigenza di possederti, sentirti fuso con il mio corpo, fino all'ultimo brandello di carne, scoparti fino al mattino per vederti venire e sorridere e dirmi che mi amavi, perché sono un narcisista e ne sono consapevole. E mica me ne vergogno. Però poi mi dicesti "Il tuo dolore è il mio dolore. La tua felicità è la mia felicità. Il tuo successo è il mio successo", e mi fermai, tu con me. "Che c'è?" mi chiedesti, facendo sfiorare i nostri nasi, ed io non dissi niente, anche se stavo pregando che non mi lasciassi mai e stavo già vivendo un lutto interiore per quando l'avresti fatto, perché sapevo che l'avresti fatto, perché mi conosco e perché non siamo paritari. E allora ti baciai, affondai la lingua nella tua bocca con tutta la calma del mondo mentre mi si colmava il petto della nostalgia di quando ti avrei perso, e tu insistesti con maggiore foga, finché non raggiungemmo la tua macchina, i vetri appannati, la pelle bollente, l'odore forte del tuo sesso e le mie preghiere silenziose. Ed io sono un disastro ma capisci quanto ti amo? E se dopo due anni ti ho incontrato in mezzo ad una matassa di persone che fanno un rumore odioso, e tu mi dici che mi ami e io ti rispondo che ti amo, per Dio se ti amo, un motivo ci sarà, no? Vorrà pur dire qualcosa.
Non c'entro nulla, giuro
Ti asciugavi le lacrime coi polsi, non con le mani, e il più delle volte preferivi farlo con le labbra serrate, come se qualcuno avesse potuto sentirsi irritato dal modo in cui ti si storcessero e ti si piegasse la lingua mentre vomitavi il dolore. Avevo imparato ad accoglierlo anche quando singhiozzavi ad alta voce, dall'episodio di Farlan in poi. Riconoscevi il bacio che ti posavo sulla fronte, come la parola segreta di un forziere, e ti schiudevi come un fiore aggrappandoti con le mani alla mia schiena, scatenando una pioggia salata che infuriava sul mio collo, e ti lasciavo scaricare la sofferenza con le unghie, perché tu eri troppo buono e la tristezza non l'hai mai saputa gestire, rispetto a me, che ne sono un servitore fedele. Altrimenti non sarebbe finita, altrimenti non avrei trovato giustificazioni futili per lasciarci, per tentare di convincerti che non ti meritassi, che non fossi un tuo pari. E forse ho mentito. Forse potrei essere un tuo pari, potrei renderti felice, se solo la smettessi di guardarmi le mani ed accusarmi perché sono il figlio di una bugia. Perché se non mi volevano neppure i miei genitori, se mi hanno creato solo per modellarmi a somiglianza di una poltiglia di stucco per salvare il loro matrimonio, conclusosi ugualmente nel peggiore dei modi, allora perché dovresti volermi tu? Tu con la tua gentilezza, tu che non sai gestire la tristezza, tu che sei troppo affabile e troppo divertente. Che c'entro io con te? Giuro, non era mia intenzione ferirti, perché so che Mikasa non sa gestire il tuo dolore. Ma non potevamo stare insieme. Avete letto bene? Potevamo, non possiamo. Se lo facessi leggere al mio analista ne sarebbe fiero, perché sarebbe un passo avanti, e non conta la quantità ma la qualità. Ed io voglio essere migliore, cazzo! Migliore della persona che stai frequentando e che ti sei reso conto di non amare, migliore di qualunque altro individuo, rivale, scrittore. Voglio eccellere, perché il fallimento mi ha insegnato a crescere e a svincolarmi dai tentacoli dell'egoismo, delle insicurezze, della paura. Perché senza fallimento non posso diventare un uomo migliore, e ho fallito con te nel corso di tutta la nostra vita: e allora te lo dico, Eren. Non c'entro più nulla con quanto è successo, dammi una possibilità. Non c'entro niente. Te lo giuro.
Prima e ultima volta
La prima volta che mi hai detto che mi amavi... No, ricomincio. La prima volta che abbiamo fatto l'amore era a casa mia. I miei genitori, separati in casa, avevano deciso di prendersi una pausa dalla situazione, o forse da me che non facevo altro che sbraitare ad ogni negazione ingiustificata, colpevole, forse, di essere divenuto fratello delle loro bugie, così ognuno si era diretto altrove, mia madre dai nonni, mio padre nella sua abitazione in campagna. Quindi approfittammo per trascorrere la giornata in santa pace e da soli, fra piatti di pasta cucinati alla bella e meglio e cartoni della pizza per evitare di cucinare ancora la sera, quando, impazienti per ciò che sapevamo sarebbe accaduto, ci venimmo incontro all'improvviso, tra un boccone e l'altro. Ti presi lentamente, contro ogni pronostico, visto che ci eravamo leccati e morsi come bestie assetate di umori. Invece, quando entrai dentro di te, mi assicurai che i nostri cervelli registrassero ogni singolo secondo, istante e minuto di quanto stava accadendo, osservando il tuo corpo reagire al mio e le nostre anime guardarsi attraverso gli occhi, commuoversi mentre ti inarcavi e mi chiedevi di più, anche se non volevo accontentarti perché sono sempre stato io a chiedere di più a te. A me è sempre servito lo stucco per colmare le insicurezze, come è servito ai miei genitori e, sono sicuro, persino ai miei avi, come se fosse ascritto al nostro destino essere concavi. Ma poi ti ho assecondato, come facevo sempre quando scendevo a patti con me stesso e mi dicevo che al diavolo le mie cazzate, tu eri più importante, stessa ragione per la quale ci siamo lasciati. Perché ne sono sempre stato convinto, perché vedevo Jean come ti guardava e mi dicevo che chi diamine ero io per stare con te? E allora dovevo distruggere tutto, puntare i piedi a terra e gridare "No, no, basta! Troppo amore! Dov'è la tristezza? Non voglio più essere felice, e non voglio renderti infelice, perché sono un misero verme in cerca della sua schifosa pozzanghera!". Ma quella sera no. Quella sera ti sussurrai in un orecchio "Vieni a vivere con me, Eren", e tu piangesti perché piangevi sempre ed io ti amavo soprattutto per questo. Perché chi piange si vuole bene, e tu devi volerti bene.
Ma no, la prima volta che mi dicesti che mi amavi fu al tuo ventesimo compleanno, con un cerchietto ridicolo col numero venti sbrilluccicante ed una camicia nera, la cravatta bordeaux che ti pendeva dal collo e che oscillava ogni qualvolta scaricassi il peso sulla gamba opposta, nervoso come eri. Eri incerto, esitavi ed io mi chiedevo cosa mi dovessi dire di così importante fuori casa mia, reduce da una serata che aveva visto Jean flirtare di continuo con te, dandomi il voltastomaco. Mi innervosii e sbottai con un "Allora?" seccato, e tu spalancasti gli occhi, e dentro le tue pupille larghe per la poca luminosità del quartiere lessi un sentimento, lo decifrai, e me lo confermasti quando mi tirasti per il colletto e mi baciasti, facendo urtare i nostri denti. E anche se mi avevi fatto un male cane e sentivo il labbro sanguinare, tutto quello che feci fu cingerti i fianchi e reimpostare un ritmo cauto, per conoscerci come non l'avevamo mai fatto prima. E tu mi toccasti i capelli e ridesti sulle mie labbra e io pensai che fosse stato catartico per il mio stomaco indolenzito e la schiena a pezzi per la tensione. Mi guardasti, mi baciasti ancora e poi soffiasti con l'alito allo champagne "Ti amo, Levi, sono innamorato di te da quando ho dodici anni". E ci siamo scelti.
Posso?
Ti sto scegliendo anche questo pomeriggio, dopo due anni di terapia, dopo che sei cambiato, dopo che sono cambiato. Ti sto scegliendo mentre cammino per strada e la mia identità è celata da mascherina, berretto e cappuccio, e odio il rumore ma amo te, e i tuoi singhiozzi, e le tue urla, e le tue risate e i tuoi ansimi e come gridi il mio nome mentre vieni. Amo il tuo rumore, e non è forse vero che le persone fanno rumore quando si spezzano? Tu ti spezzi in centinaia di modi diversi, quando sembri morire, petites morts, durante un orgasmo, e ti spezzi quando piangi e quando ridi, un trillare continuo di campanelle che fanno ridere anche me. Ti spezzi quando ti sorprendi per qualcosa e trattieni il fiato, e ti spezzi quando ti dico che ti amo, per Dio se ti amo, anche se sono trascorsi due anni nulla è cambiato.
E quindi eccomi qui, busso alla porta del tuo appartamento, indipendente in così giovane età, solo uno dei mille motivi per cui essere fiero di te. Mi apri, reggi il cellulare fra le mani mentre in salotto si scorge la televisione con un gioco in pausa. Indossi un pantalone della tuta ed una t-shirt, i capelli corti di nuovo, e allora lo dico ad alta voce e tu annuisci "Voglio cambiare ancora" e mi sorridi, ed io avanzo di un passo con lo stesso coraggio con cui ho osato lasciarti e lasciare tutto di noi dietro di me, ti guardo negli occhi e sussurro "Posso raggiungerti?". Esiti, ed esiterei anche io di fronte al disastro che hai davanti, ma ti supplico, ti supplico! "L'ho lasciato nel momento stesso in cui te ne sei andato, indipendentemente da tutto", dici, ora con gli occhi gonfi, ed io mi mortifico e continuo a farlo mentre avanzo ancora e ti poso un bacio sulla fronte, che qualcuno chiama "il bacio della morte" ma con te, che mi fai sentire vivo, suscita l'effetto opposto. Ed ecco che ti apri a me, mi stritoli fra le tue braccia e mi tiri dentro casa, il nostro rifugio dal mondo. Crolli sulle ginocchia e trascini me con te, e giuro che potrei andarmene all'Inferno se solo tu volessi e mi andrebbe bene ugualmente. E invece sei tu che supplichi me con la voce massacrata dalla tristezza che nessuno è stato in grado di aiutarti a gestire, e mi ripeti "Ti prego basta, ti prego basta...!"
E piangiamo entrambi come degli stupidi, come persone che si vogliono bene, e ci ripetiamo di amarci fino a spezzarci in tutti i modi in cui una persona può essere spezzata.
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