7. HURT MY HEART

 

“Non esiste antidoto al veleno

versato sull'anima”.

 

Paulina Dyron.

 

  12 ANNI PRIMA...

 

Appena gli ospiti uscirono Selene saltò in braccio al suo papà, afferrando nei pugni il maglione azzurro.

Stringeva la stoffa così forte che le piccole nocche divennero bianche, mentre guardava Alessandro con espressione corrucciata.

«Chi era quel bambino?» domandò, accigliata.

Anche se era piccola, non era stupida, e aveva percepito distintamente l’emozione di Alessandro quando gli aveva stretto la mano. Il suo papà stava quasi per piangere quando lui aveva parlato.

Perché?

E poi l’aveva guardato bene, avevano gli stessi occhi, lo stesso naso e la stessa bocca.

Quel bambino somigliava tanto al suo papà.

Alessandro e Sofia sospirarono all’unisono, erano nervosi e spaventati perché temevano la reazione di Selene.

Era ancora piccola, non era semplice per lei scoprire di avere un fratello di cui tutti, persino Alessandro, ignorava l’esistenza.

Tuttavia non potevano ometterle la verità, anche perché avevano intenzione di contattare Carola il più presto possibile e trovare accordi sul da farsi.

Alessandro non le avrebbe permesso di scappare di nuovo, Kevin era suo figlio e non avrebbe rinunciato a lui. Voleva vederlo, recuperare il tempo perduto e fare in modo che il bambino, poco alla volta, si affezionasse a lui. Ovviamente creare un rapporto richiedeva del tempo, ma avrebbe aspettato, rispettando i suoi tempi.

Era così piccolo, eppure così uomo.

Lo aveva guardato negli occhi senza paura e l’aveva affrontato con atteggiamento sicuro. La sua presenza, pur essendo un uomo adulto e sconosciuto, non l’aveva per niente intimidito.

Una morsa gli strinse il cuore.

Per suo figlio era uno sconosciuto.

«Mamma…» Selene chiamò Sofia, riportando Alessandro alla realtà.

La bambina notò che anche sua madre era strana, sembrava pensierosa e preoccupata, entrambi temevano qualcosa.

Effettivamente Sofia era impaziente tanto quanto suo marito di rivedere Carola perché aveva paura che lei potesse compiere l’ennesima follia e andarsene di nuovo. Ora che conoscevano la verità non poteva impedire loro di rivedere il bambino. Sofia non era arrabbiata con suo marito, aveva deciso di perdonargli quell’errore scaturito da un momento di profonda crisi del loro matrimonio, dovuta principalmente alla sua depressione. Alessandro aveva sbagliato, ma non se la sentiva di condannarlo, perché anche lui aveva rinunciato alla cosa più importante a cui un uomo potesse aspirare soltanto per starle accanto, ossia avere dei figli suoi, sangue del suo sangue, da crescere e amare come aveva sempre desiderato.

In quel periodo non aveva compreso la grandezza del suo gesto perché quella notizia terribile l’aveva devastata e la disperazione aveva avuto il sopravvento sul suo animo fragile.

Erano stati mesi bui, giorni senza luce, trascorsi nell’oscurità della sua camera da letto. Non andava più a lavoro, non si prendeva più cura di sé stessa e di suo marito, a cui non rivolgeva neanche la parola, fino a quando, un giorno aveva deciso che era giunto il momento di dire basta al dolore e ricominciare. Poco tempo dopo avevano adottato Selene e, poi, lui gli aveva rivelato il tradimento. Era stato un colpo durissimo da sopportare e accettare, ma sapeva che Alessandro l’amava e che, probabilmente, quello sbaglio era derivato da un impeto momentaneo, così l’aveva perdonato.

Non avrebbe mai immaginato che dalla loro unione sarebbe nato un bambino, ma Kevin non aveva nessuna colpa e aveva il diritto di conoscere suo padre.

La sua somiglianza con Alessandro era incredibile, sembrava la sua copia sputata, persino un cieco avrebbe compreso che quel bambino era il figlio di suo marito e, appena l’aveva visto, una sensazione di gioia aveva attraversato la sua anima.

Alessandro aveva un bambino.

Si era sentita in colpa per così tanto tempo.

Anche se lui non lo dimostrava, Sofia sapeva che non poter avere figli era un enorme dolore per suo marito, che aveva desiderato una famiglia fin da quando si erano conosciuti. L’arrivo di Selene era stato un dono, Alessandro la adorava, tuttavia aveva notato la malinconia che velava il suo sguardo quando si perdeva nei suoi pensieri.

Lei non poteva avere figli, era sterile, e Alessandro vi aveva rinunciato per amor suo.

Si era sentita sbagliata e difettosa per tanto tempo, piena di rimorsi nei confronti di Alessandro perché, a causa sua, si era negato la possibilità di diventare padre.

Ma adesso non era più così, adesso era arrivato Kevin.

Sofia sorrise emozionata e con il cuore in gola.

Avrebbe trattato quel bambino come un figlio suo e avrebbe fatto qualunque cosa affinché Carola permettesse loro di rivederlo.

«Papà…» la vocina di Selene echeggiò tra i suoi pensieri.

«È tuo fratello, amore. Quella signora è la sua mamma» rispose Sofia, commossa.

Aveva risposto senza pensarci, ancora scossa dalle sue riflessioni, avrebbe dovuto dare a Selene il tempo di metabolizzare la situazione, ma ormai aveva confessato.

Alessandro le lanciò un sorriso comprensivo che lei ricambiò.

«No, mamma. Io non ho un fratello!» rispose la bambina, imbronciata, ed entrambi la fissarono inteneriti.

Non c’era mai stato nessun altro oltre lei fino a quel momento, ora perché le cose dovevano cambiare?

Perché doveva avere un fratello?

Da dove era arrivato?

Stava benissimo da sola, non voleva fratelli che gli rubassero il suo papà e la sua mamma.

«Sì, Selene. Quel bimbo è il tuo fratellino» confermò Alessandro, in tono dolce.

«Devi volergli bene» continuò lei, «Gliene vuoi un po’?» domandò Sofia dolcemente, lasciandole una carezza sui capelli.

Selene lo rivide davanti a sé, con la sua macchinina rotante e gli occhi uguali a quelli del suo papà.

«Lui vi porterà via da me?» chiese, spaventata.

Alessandro scoppiò a ridere e la strinse forte.

«Niente e nessuno ci porterà via da te!» enunciò con fermezza, guardando la moglie.

Selene ricambiò il suo abbraccio e poggiò la testolina scura sulla sua spalla.

Sospirò preoccupata e chiuse gli occhietti stanchi.

Da quel giorno non era più sola perché quel bambino con gli occhi identici a quelli del suo papà era suo fratello.

«Kevin!» mi sento squittire, anzi sembra più il nitrito di un cavallino imbizzarrito.

Vorrei strangolarlo, ucciderlo e farlo a pezzi ma i miei occhi inciampano nei suoi e perdono l’equilibrio.

Lui mi schiaffeggia con lo sguardo e atteggia le labbra in sorrisetto arrogante, facendo balzare il mio nervosismo alle stelle.

«Selene!» ringhia strafottente, ostentando una calma che fatica a mantenere.

Come fa ad essere sempre così sicuro di sé, altezzoso e prepotente?

Lo spingerei a ceffoni giù da quel piedistallo da cui osserva tutti con superbia.

«Potresti fare più attenzione?» lo rimprovero, mostrandogli il mio disappunto.

Il suo atteggiamento è stato riprovevole, ha spinto Nicolò a tradimento, facendolo cadere a terra soltanto perché è un mio amico. Contrae la mascella, mentre quel viola si fa scuro come l’ossidiana, poi mi lancia un’altra occhiata prepotente, che mi colpisce con l’ennesima sberla al cuore.

«Più attenzione?» domanda, sarcastico e risentito.

«Sì!» mi affretto a rispondere, cercando di mantenere un tono fermo.

Lo temo, ma so che non mi farebbe mai del male.

Anche se mi sbeffeggia continuamente non mi ha mai sfiorato con un dito e quando lo ha fatto è sempre stato delicato. È un comportamento contraddittorio che non ho mai compreso, ma lui si limita a ferirmi solo con le parole.

Siamo l’uno di fronte all’altro, è così vicino che sento il profumo della sua colonia su per il naso, fino a stordirmi.

Osservo le sue labbra, anche serrate in quel ghigno cattivo sono attraenti.

Lui diventa improvvisamente serio e ci passa la lingua sopra, umettandole e facendo scivolare il labbro inferiore tra i denti con un movimento sensuale.

Vorrei mordergliele io, assaggiarle e sentire che sapore hanno. Arrossisco a questo pensiero e d’istinto alzo lo sguardo nel suo.

Quel viola gelido come il ghiaccio mi catapulta nella realtà, mentre mi fissa furioso.

«Selene, lascia perdere» s’intromette Nicolò «Non serve, grazie» conclude, fissandolo con disgusto.

Kevin non lo degna di uno sguardo, per lui il mio amico è completamente invisibile, le sue iridi si spostano invece sulla mano di Nicolò che sta afferrando la mia, riconducendomi al suo fianco.

«Non serve... cosa?» chiede, poco dopo.

Sta ancora fissando le nostre mani congiunte e la sua voce graffiante sembra provenire dalle profondità della terra.

È bassa e minacciosa.

Ma quando ci mette l'autobus ad arrivare?

Punto gli occhi nel traffico e lo vedo bloccato tra una fila di macchine strombazzanti. Qualcosa ha bloccato la strada, ma non capisco di cosa si tratta.

«Non serve perdere tempo con quelli come te!» ribatte Nicolò e la mia attenzione ritorna su di loro.

Kevin lo guarda imperscrutabile, mentre un lampo fosco albeggia in quei pozzi d’acqua torbida.

«Quelli come me?» domanda ancora, in tono ironico e tagliente.

Noto che ha le mani strette a pugno lungo i fianchi e, anche se sta parlando con Nicolò, il suo sguardo è rimasto immobile sulle nostre dita intrecciate.

Le fisso anch’io e mi slego istantaneamente dal mio amico.

Non voglio che Kevin fraintenda le cose, anche se non gli importa niente di me e della mia vita sentimentale.

«Sì, sei soltanto un pallone gonfiato...».

Un lampo spacca il cielo in due attraversando le sue iridi feline, riesco a vederne il riflesso quando si schianta contro le sue pupille, dividendole a metà.

È un attimo, un millesimo di secondo, un battito di ciglia, una boccata di sigaretta.

Nicolò è di nuovo a terra e Kevin è sopra di lui.

Ha i bicipiti contratti, le gambe muscolose flesse intorno al suo stomaco e la mano ambrata che gli stringe il collo, immobilizzando la testa di Nicolò contro il marciapiede, mentre con l’altra lo colpisce in pieno viso come una furia. In pochi secondi il volto di Nicolò diventa una maschera di sangue, ha gli occhi chiusi, che scherma con gli avambracci per proteggersi da quelle mani impietose.

Dimenandosi e contorcendosi con tutte le sue forze, Nicolò riesce a divincolarsi dalla sua presa e subito dopo gli sferra un cazzotto in faccia spaccandogli il labbro, ma Kevin con uno scatto veloce gli afferra il braccio ritorcendolo all’indietro.

 Non riesco a sopportare le sue urla di dolore e l’idea che Kevin possa farsi male, non posso permettere che continuino ad azzuffarsi senza motivo, così intervengo.

«Kevin! Kevin... fermati!» grido, lanciandomi su di lui, ma Nicolò nel tentativo di liberarsi mi spinge, facendomi sbattere a terra.

Kevin lo lascia all’istante e lui si dà alla fuga saltando in sella al suo motorino.

Lo guardo andare via, poi guardo Kevin che mi osserva mentre mi rialzo da terra con l’aiuto di Carmen e Miki, arrivata nel momento in cui è scoppiata la rissa.

Carmen mi abbraccia preoccupata.

«Stai bene?».

Per fortuna l’impatto con il cemento mi ha soltanto strappato i pantaloni, nient’altro.

Osservo Kevin, si sta sistemando il giubbotto stropicciato con lo sguardo fermo su di me.

È questo che fa male, è il suo sguardo che mi strappa, uno strappo sfregiato, che non ammette cuciture e rammenti.

Sorride beffardo, ma è spavento quello che traspare dal suo sguardo.

Lo fulmino con espressione glaciale.

Sono infuriata con lui.

Come sempre non perde l’occasione per umiliarmi davanti al mondo.

Perché?

Mi odia a tal punto?

Cos’ha contro di me?

E perché io non riesco ad odiarlo come lui odia me?

Non voglio ammetterlo, però mi sono spaventata a morte, ho avuto paura per lui.

È assurdo anche perché è dotato di una stazza imponente e di una forza fuori dal comune, derivante dai suoi duri allenamenti in palestra, tuttavia, quando Nicolò l’ha colpito in faccia e ho visto un rivolo di sangue scivolare sul suo mento, il mio cuore ha saltato dieci battiti prima di ricominciare una corsa impazzita verso l’infarto.

Lui si è pulito con un gesto incurante, senza dare peso a quel graffietto, ma io mi sono sentita morire.

Dopo aver aiutato me Miki corre da lui per controllare che stia bene, gli asciuga i residui vermigli sparsi sul mento con un fazzoletto e lui la rimprovera perché non vuole le sue attenzioni.

Sembra un lupo ferito, pronto a mordere e smembrare l’intera realtà con un solo morso.

I nostri sguardi si incontrano un’ultima volta, poi l’arrivo dell'autobus ci divide, come una striscia di tempera bianca al centro di un foglio nero.

A casa, durante il pranzo, non gli rivolgo la parola, non che la cosa sia un’eccezione.

Le nostre rare conversazioni si limitano a battute pungenti e provocatorie da parte sua e al mio silenzio alle sue pugnalate.

Ma in questo momento sono arrabbiata.

In verità lo sono sempre con lui, ma oggi ha davvero esagerato.

Kevin non può distruggere tutto quello che ho intorno e fare finta di niente, non può stritolare la mia vita in un pugno e cavarsela nascondendosi nell’indifferenza. Non avrà la guerra da parte mia, so che la vuole, anzi la brama come una bestia assetata di sangue, ma io non gliela concederò.

Non gli darò anche quest’ultima soddisfazione.

Tuttavia deve capire una volta per tutte che non cederò alla sua sopraffazione.

Al suo costante tentativo di annientarmi.

Perché Kevin mi annienta costantemente.

Mi annienta con gli occhi, con le parole, con la sua tracotanza aguzza come i canini di un lupo, pronta a mordere e sbranare l’intero universo.

Io non voglio essere la sua preda, non voglio far parte del suo mondo contorto.

Eppure c’è qualcosa in lui che mi domina.

E io so cos’è.

So cosa mi soggioga ai suoi continui attacchi.

È la mancanza.

 

Kevin ne porta i tratti, ogni contorno e colore mi ricorda lui.

Quegli occhi viola un tempo mi regalavano affetto e quelle labbra pronunciavano parole dolci e gentili.

Kevin è così diverso eppure così identico a lui.

Mio padre.

Dopo pranzo mia madre esce di casa, i suoi pazienti l’aspettano, e noi restiamo da soli. Quando il portone d’ingresso si chiude sento la sua sedia stridere sul marmo lucido, poi lo osservo scomparire nel corridoio.

Eh no!

Questa volta non lascerò cadere tutto nell’oblio della dimenticanza, oggi non gli permetterò di ignorarmi per l’ennesima, stancante, volta.

Mi alzo di scatto, sragiono lo so, non sono lucida, ma oggi mi deve ascoltare o commetto una pazzia.

Raggiungo a grandi passi la porta della sua stanza poi, con le vene in fiamme, busso.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top