6. READING MY SOUL

“In una sola pagina bruciano
infiniti tormenti”.

Paulina Dyron.

La sveglia del cellulare mi ridesta all’improvviso. Allungo un braccio controvoglia, impigliandomi tra le lenzuola, e la spengo.
Sono quasi le sette, devo alzarmi, o farò tardi a scuola, anche se non ne ho alcuna voglia. Ho passato l’intera nottata a rimuginare sul nuovo appellativo che quel fetente mi ha affibbiato.

Strega.

Ai suoi occhi appaio sicuramente come una vecchia megera, ecco perché mi ha definito una strega. È comparso dal nulla dopo all’incirca un’ora da quando è uscito, lui, il suo corpo da capogiro e quel viso perfetto, è venuto in cucina e mi ha insultato, così, dal nulla.

Che viscido!

L’avrei strangolarlo, però mi sentivo ancora debole a causa dell’attacco di panico che avevo avuto nel pomeriggio, così ho lasciato correre.
E poi chi voglio prendere in giro? Quella montagna di muscoli mi accartoccerebbe in una pallina di cartapesta se soltanto volesse.

Quanto vorrei ucciderlo, lui e il suo dannato sexappeal!

Sollevo le coperte e mi siedo sul bordo del letto, indosso le pantofole e, dopo essermi stiracchiata per bene, mi alzo in piedi e raggiungo il bagno per fare la doccia.
Raccolgo i capelli con il mollettone e mi infilo nel box.
Quando il getto tiepido del soffione defluisce sulla mia pelle mi sveglio completamente, godendomi le carezze che l’acqua mi sta regalando. Questo è uno dei momenti della giornata che preferisco perché mi rilassa ma al contempo mi rinvigorisce, dandomi la giusta dose di energia. Riempio il palmo con una buona manciata di bagnoschiuma al profumo di miele e lo passo sul mio corpo, insaponandomi.
Dopo un quarto d’ora buono esco dalla doccia, altrimenti perdo l’autobus, lavo i denti e pettino i capelli, lasciandoli sciolti, poi mi catapulto in camera per vestirmi. Indosso un jeans bianco, un maglione azzurro e le sneakers bianche, allungo le ciglia con il mascara e passo uno strato di rossetto nude sulle labbra.

Sono pronta.

Anche questa sarà una lunga giornata di scuola, però il mercoledì è il giorno che preferisco perché, durante le ore di letteratura, tutti gli studenti che hanno aderito al laboratorio si riuniscono nell’aula magna del liceo per discutere il classico del mese.
Raggiungo a passo svelto la cucina, la mia casa non è molto grande, è un piccolo appartamento di un solo piano composto da sei camere. C’è l’ingresso, collegato al salotto da un piccolo archetto in muratura, da qui parte il corridoio che dà accesso a tutte le altre stanze, ossia la cucina, il bagno e tre camere da letto. Quella che occupa Kevin è l’ultima in fondo al corridoio, poi c’è la mia a destra, quella di mia madre a sinistra, il bagno a destra e la cucina a sinistra.
Quando entro in cucina constato la sua assenza, Kevin è già uscito, sicuramente per evitare di incontrarmi.

Sbuffo annoiata.

Anche se non perde mai occasione di punzecchiarmi ero impaziente all’idea di rivederlo. Mi sarebbe piaciuto sondare quegli occhi tenebrosi appena svegli e annegarci dentro.
La mamma mi saluta con un buongiorno squillante, cancellando la visione che la mia fantasia sta ricreando, poi mi piazza sotto al naso una brioche appena sfornata.
«Hai dormito bene?» domanda, in tono premuroso.

«Sì, mamma».

La mia mamma è sempre stata così, attenta e protettiva, la donna più buona e gentile del mondo. Ha una luce speciale che le illumina gli occhi nocciola, una luce che dilaga nello spazio circostante. È sempre pronta a donare affetto al prossimo senza secondi fini, facendo germogliare tutta la realtà in un fiotto di colori sgargianti. Lei è la mia ancora, cerca sempre di capirmi e di comprendere i miei stati d’animo. Si prende cura di me costantemente, mi vizia spesso e mi coccola come una bambina. Il nostro è un legame stretto, atavico. Lei mi è sempre stata accanto senza mai trascurarmi, abbiamo trascorso i nostri momenti bui facendoci forza l’un l’altra, tenendoci per mano con una stretta indissolubile.
Anche Kevin gli è molto affezionato.
Nonostante sia un tipo taciturno, con mia madre non risparmia le parole, si confida spesso con lei e le domanda consigli, probabilmente perché Carola non c’è quasi mai, è sempre impegnata con il suo lavoro, e il tempo che dedica a suo figlio è minimo. Le uniche giornate che trascorrono insieme sono le vacanze estive, quando lei per una decina di giorni stacca la spina e ci porta in vacanza da qualche parte.
I sentimenti che prova Kevin per sua madre sono sempre stati contrastanti.

La mamma mi ha raccontato che Carola, essendo molto giovane quando nacque Kevin, ha commesso qualche sbaglio con lui, gli ha mentito e nascosto alcune cose, ma dice che l’ha fatto per il suo bene. Tuttavia lui non mi sembra concordare molto con questa versione, difatti è schivo e burbero nei suoi confronti anche se l’affetto che nutre per la madre è evidente.
A me sembra ferito e arrabbiato, ma questo ragazzo è un mistero per me, le sue reazioni sono quasi sempre inspiegabili, com’è accaduto ieri sera, quando al suo rientro mi ha definita una strega senza nessuna ragione valida. Non solo è uscito senza dire dov’era diretto, ma ha persino avuto il coraggio di insultarmi ingiustamente.
Sbuffo irritata.
Non devo lasciarmi influenzare da lui, da oggi in poi lo ignorerò ancora più di quanto già non faccia, forse così metterò a tacere la sua cattiveria immotivata.

Terminata la colazione prendo lo zaino e saluto mia madre, dopodiché mi reco alla fermata dell’autobus poco distante da casa mia. Kevin non è neanche qui, deve aver preso il pullman delle sette e trenta. La sua ostinata volontà di ignorarmi è ammirevole, si impegna così tanto a far finta che non esisto da annullarmi per davvero.
Fa male, ma ormai ci sono abituata.
Quando raggiungo le porte della scuola, noto con costernazione che non è ancora arrivato.
Chissà dov’è andato a cacciarsi?
Allontano immediatamente questa domanda dai miei pensieri, rammentando a me stessa che non m’importa niente di lui e che se voglio ignorarlo per davvero devo dimenticarmi della sua esistenza, come lui ha fatto con la mia.
Devo scacciarlo dalla mia mente prima di cominciare a traballare come un funambolo sul punto di perdere l’equilibrio perché un solo passo falso mi getterà nel baratro.

***

Ho trascorso una delle nottate peggiori della mia vita.
Come sempre gli incubi mi tormentano fino al mattino, amplificati da un mal di testa insopportabile e intensi capogiri. Ho preso le mie solite medicine, ma non sortiscono più lo stesso effetto.
Devo trovare un rimedio o impazzisco, così stamattina ho deciso di andare dal mio medico per trovare una soluzione.
Sia io che Selene siamo in cura dal dottor Visani da quando abbiamo sette anni.

Dopo la tragedia Sofia, Carola e l’equipe medica che si è occupata di noi hanno ritenuto opportuno che fossimo affidati alle cure di un esperto per il trauma scatenato dall’incidente.
Il trauma che ho avuto durante l’impatto mi ha provocato una lesione cranica lieve, che mi causa mal di testa forti e frequenti, vertigini e, nei periodi più acuti, confusione, oltre agli incubi che dilatano il mio disturbo dell’insonnia.
Poche settimane dopo l’incidente di Alessandro abbiamo cominciato a soffrire di ansia e attacchi di panico.
Il dottor Visani ha diagnosticato ad entrambi il disturbo post traumatico da stress, nevrosi e fobia sociale mentre, quando avevo sedici anni, ha scoperto un nuovo disturbo che riguarda soltanto me, ossia la satiriasi.
L’origine della mia Ipersessualità ha un nome e un volto: Lilith.
È stata lei ad iniziarmi al sesso e, anche se è stata la sua somiglianza con Selene a spingermi nel suo letto, da lei ho ereditato la dipendenza dal sesso.

Attraverso l’atto sessuale sfogo le mie frustrazioni, cerco di espiare la follia e le mie manie oscene. Non sono un sadico come Lilith, però mi piace il dolore, riceverlo mentre una donna mi fotte mi isola dal mondo e dalla sofferenza che mi affligge.
Le donne che scelgo devono essere tutte fisicamente simili a Selene.
È una contraddizione perché la sua purezza non approverebbe mai il sesso sporco e selvaggio a cui sono abituato, lei è una ragazza che sogna il principe azzurro e un castello incantato in cui vivere felici e contenti per tutta la vita, mentre io sono il lupo cattivo che mangia tutto il bosco in un solo boccone.
Eppure non riesco a fare a meno di desiderarla e agognarla, di immaginare di fotterla mentre mi scopo le altre e che sia lei a godere sotto le mie spinte voraci.

Con Lilith ho dovuto firmare un contratto di riservatezza e scegliere quali strumenti poteva adoperare durante il sesso. Il contratto prevedeva che io la chiamassi Maestra e avevo una safe word quando il dolore diventava insopportabile. L’atto doveva essere anticipato dalla lettura di un testo che io dovevo conoscere a memoria e leggere ad alta voce secondo le regole dell’antica oratoria, senza mai sollevare lo sguardo dal libro. Le regole prevedevano anche che, durante o dopo la lettura, la Maestra potesse fare del mio corpo tutto quello che voleva. Il suo attrezzo preferito era il collare, che mi stringeva intorno al collo mentre mi negava ripetutamente l’orgasmo dopo avermi portato al limite, ma usava anche la frusta, le manette e le corde, con cui si divertiva a legarmi o ad appendermi al suo letto a baldacchino in ferro battuto, prima di bendarmi e frustarmi. Era molto brava a non lasciare segni evidenti sulla pelle, non so che tipo di frusta usasse, ma non ho mai subito lacerazioni dai suoi colpi, forse perché la maggior parte di quelli che si portava, e si porta, a letto sono ragazzini e non vuole avere ripercussioni legali.
La nostra relazione è durata sei mesi, allo scadere del contratto ho interrotto gli incontri, anche a causa di quello che è successo durante l’ultimo.

Sono rimasto fortemente scosso dall’accaduto, traumatizzato da me stesso.
Tuttavia, ancora oggi, frequento assiduamente il suo club letterario perché, nonostante abbia smesso di scoparla, quella donna mi attrae inspiegabilmente.
Qui inoltre ho conosciuto il mio caro amico Carlos.

Dopo aver fatto la doccia indosso un paio di jeans scuri e un maglione nero, siamo alla fine di marzo ma fa ancora freddo. Sistemo i capelli con la cera, portando indietro le ciocche ribelli, e spruzzo un soffio della mia colonia. L’odore dell’Acqua di Giò evapora nella stanza, incollandosi al mio collo ambrato e alle fibre in flanella del maglione.
Infilo velocemente le scarpe e una giacca di pelle nera, poi raggiungo Sofia in cucina, impegnata a preparare la colazione.

«Buongiorno, Kevin» mi saluta, «Vai già via? Non aspetti Selene?» aggiunge, versandomi una tazzina di caffè.

Scuoto la testa e la prendo, poi bevo il caffè in un sorso solo.

«Devo fare un paio di cose prima di andare a scuola» la informo, adagiando la tazzina sul tavolo.

Sofia sorride e io ricambio quel sorriso tenero.
Lei è sempre dolce, premurosa e presente, lo è sempre stata anche con me invece di odiarmi a morte visto che rappresento la prova vivente del tradimento di Alessandro.
Al contrario mi vuole bene e mi tratta come un figlio.
Sofia è una donna speciale e coraggiosa, ha perdonato il marito e ha accolto anche me nella sua vita.

«Vado o farò tardi» affermo, prima di avviarmi verso l’uscita.

«Ci vediamo dopo la scuola, fai attenzione, Kevin» mi raccomanda lei, poi chiudo il portone alle mie spalle.

Una volta in strada raggiungo trafelato la fermata dell’autobus, che non perdo per un soffio. Il tragitto dura circa mezz’ora e, arrivato in centro, scendo dalla corriera.
Sono già le otto e a breve la piazza si riempirà di studenti.
Prendo la strada opposta a quella del mio liceo perché prima delle lezioni voglio far visita al dottor Visani, che ha lo studio poco distante da lì.
Non ho preso un appuntamento, ma il mio dottore non mi ha mai negato un consulto, soprattutto nei momenti di maggiore difficoltà. Mi conosce da quando ero un bambino, è al corrente di tutti i miei problemi, anche della mia relazione con Lilith, che gli ho confessato qualche mese dopo aver troncato con lei, pregandolo di mantenere il segreto professionale con mia madre. Visani conosce anche le mie difficoltà ad esprimere a voce i problemi e ha imparato a cogliere i segnali muti.
Non è stato semplice, ma ciò ha contribuito al rafforzamento del rapporto medico-paziente, che secondo il mio psicoterapeuta è fondamentale in vista di una guarigione definitiva di coloro che si affidano alle sue cure.

Non mi piace farmi analizzare come una cavia da laboratorio e Visani è riuscito a conquistare la mia fiducia proprio perché tratta i suoi pazienti come persone e non come soggetti disturbati da rinchiudere in manicomio.
Il trauma causato dall’incidente è stato fatale, porto ancora i segni di quel momento incisi nella psiche, aggravati dalla relazione nefasta che ho intrattenuto con Lilith per placare la smania di Selene e colmare il desiderio di possederla.
Con gli anni sono migliorato, anche se in alcuni periodi le crisi ritornano, acuendo i miei insopportabili mal di testa e lo stato di confusione che mi accompagna subito dopo. Il mio piano terapeutico è stato molto efficace fino ad ora tanto che il dottore, negli ultimi tempi, ha diminuito drasticamente le dosi degli psicofarmaci che mi ha prescritto tre anni fa, dopo la mia ultima crisi, senza però smettere di monitorare la mia salute mentale.
Tuttavia qualcosa deve avermi scosso violentemente per provocare quell’attacco improvviso, così ho deciso di parlarne con lui.
Attraverso il piccolo cancello che anticipa il cortile del palazzo in cui è ubicato lo studio di Visani, il portone d’ingresso è aperto, così entro all’interno senza citofonare e salgo le due rampe di scale in marmo bianco che portano al suo studio, la cui porta è socchiusa.

È ancora presto, solitamente il dottore inizia le visite intorno alle nove, ma è solito recarsi in ufficio almeno mezz’ora prima per prepararsi in vista dell’arrivo dei pazienti.
Sbircio, non c’è nessuno in sala d’attesa, così decido di entrare e chiedere informazioni alla segretaria, che ha gli occhi fissi sullo schermo del suo computer dietro il burò protetto dal plexiglass, che fiancheggia la porta dello studio di Visani.
È nuova, sei mesi fa c’era una segretaria molto più grande e meno attraente di questa.

«Buongiorno, lei è?» domanda la donna, sollevando lo sguardo dal computer.

Avrà all’incirca quarant’anni ed è attraente e curata.
Ciò che salta subito ai miei occhi è la lunga chioma nera, acconciata in una coda di cavallo, e gli occhi chiari, ma le sue labbra estremamente carnose gonfiate dal filler e gli zigomi allungati verso l’alto la rendono innaturale.

«Mazza» rispondo, accomodandomi ad una delle scomode sedie di plastica.
Lei mi scruta con attenzione, soffermandosi su tutta la mia figura, poi assume un’espressione pensierosa.

«Non ricordo di averle fissato un appuntamento» constata, infine.

«Non l’ha fatto, infatti» replico, seccato, «Il dottore è già arrivato?».

«Sì».

Scatto in piedi e mi dirigo verso la porta chiusa dello studio, ma la segretaria è più veloce e mi sbarra la strada prima che potessi raggiungerla.
Mi blocca il passaggio, parandosi dinanzi all’uscio con le braccia tese da uno stipite all’altro, poi alza il mento per guardarmi negli occhi.
Nonostante i tacchi mi arriva al petto e ha un bel seno prosperoso, messo in evidenza dalla scollatura.
La odoro, profuma di gelsomino.

«Il dottor Visani non accetta nessun paziente senza appuntamento e non visita nessuno prima delle nove» afferma, in tono austero, ma la sua espressione cambia non appena chino il viso a pochi centimetri dal suo, incanalando gli occhi nei suoi.

Lei indietreggia, inutilmente visto che è incollata alla porta, e con un mezzo passo la bracco contro lo stipite.

«Il dottor Visani mi conosce molto bene» bisbiglio, sottovoce, pungendola con una lunga occhiata, e lei sussulta, riemergendo dal fuoco liquido in cui i miei occhi l’hanno inghiottita.

Si porta una mano al petto per placare il respiro affannoso e non riesco a fare a meno di divorare la scollatura profonda della sua camicetta con un cipiglio perverso.
Lei serra le gambe, nel tentativo di contenere il languore suscitato dal mio sguardo depravato sul suo corpo, e cerca di recuperare la voce arrochita dal desiderio con un colpo di tosse.
Il mio cazzo s’ingrossa e la voglia di farmela s’impossessa di me.

«Mi dispiace, ma…».

Non conclude la frase perché la porta dello studio si apre e il dottor Visani appare sulla soglia con un sorriso gentile, subito sostituito dalla sua faccia stupita.
Ci osserva per qualche secondo, i nostri corpi sono quasi incollati, siamo nervosi, accaldati e con la bocca ad un centimetro l’uno dall’altra.
Entrambi lo guardiamo in silenzio.

«Kevin!» mi saluta Visani, mentre mi allontano dalla donna, che fissa il dottore imbarazzata, «Come mai sei qui?» chiede, in tono placido.

«Devo parlarle».

L’uomo annuisce.

«Certo» acconsente, poi si rivolge alla sua segretaria, «Mara, sposta il prossimo appuntamento nel primo pomeriggio e dopo portaci due caffè, per favore».

«Sì, dottore» risponde lei, ritornando al burò e rimettendosi immediatamente al computer, mentre Visani mi invita ad entrare nello studio con un gesto della mano.

Chiusa la porta mi accomodo sulla sedia di fronte alla scrivania, non mi sono mai sdraiato sul lettino di pelle marrone posto al centro della stanza, mi inquieta e mi fa sentire uno squilibrato.
Il mio neuropsichiatra si siede di fronte a me e mi lancia un’occhiata amichevole.
Apprezzo i suoi modi di fare molto distanti dal suo ruolo professionale.
Il suo volto bonario ispira sicurezza e benevolenza, sembra di avere a che fare con un amico.
I suoi occhi castani, contornati da piccole rughe e protetti da un paio di occhiali dalla montatura rotonda, emanano una certa tranquillità. I suoi capelli canuti sono pettinati all’indietro, mentre la sua barba, anche se molto folta e bianca, è perfettamente curata.
Veste sempre in modo impeccabile, sui toni del beige, è un uomo elegante e, nonostante abbia quasi raggiunto i sessant’anni, la sua figura sprigiona un certo fascino.

«Allora, Kevin, cosa succede?» mi chiede, accendendo il registratore.

Lo guardo accigliato, odio quell’aggeggio, non mi va di essere registrato, mi fa sentire sotto processo. Cerco di ignorarlo e dedico la mia attenzione a Visani che sta aspettando pazientemente una mia risposta.

«Le mie crisi sono ritornate» ammetto, infine, frustrato.

«Anche l’insonnia e i mal di testa?» domanda il dottore.

Quelli non hanno mai smesso di tormentarmi, ma grazie alle medicine riesco a tenere la situazione sotto controllo.

«Esatto».

Visani annuisce, poi fa un mezzo giro sulla sedia girevole, estrae una cartellina dallo scaffale a muro alle sue spalle e, con un altro mezzo giro, ritorna nella posizione iniziale. Posa il plico sulla scrivania e lo apre rileggendo con attenzione la scheda terapeutica che ha sotto gli occhi.
Sei mesi fa, durante la nostra ultima seduta, Visani mi ha confessato che la mia Ipersessualità deriva da un paio di fattori che ha individuato durante le sedute settimanali, interrotte gradualmente nel corso dello scorso anno. Secondo lui questo problema non è legato soltanto all’abuso di Lilith, come lo definisce lui, ma anche a mia madre, anzi quest’ultima ne sarebbe la causa scatenante. Mi ha definito una vittima dello stile di attaccamento insicuro, dovuto alla scarsa cura e alla trascuratezza adoperata da mia madre nei miei confronti in età infantile.
Il dottore sospira e rimugina su qualcosa, mentre lo guardo silenzioso. Vorrei delle risposte da parte sua, vorrei comprendere il motivo del mio peggioramento improvviso.

«Va bene» risponde, prima di spegnere il registratore.

Sa che quell’oggetto mi mette a disagio così, forse per darmi prova della sua buona fede, lo conserva in uno dei cassetti della scrivania.

«Adesso parliamo noi due, Kevin» afferma, con un sorriso cordiale, «Dimentica che io sia il tuo medico, il mio intendo non è quello di curarti ma, semplicemente, di comprendere la causa del tuo turbamento e trovare una soluzione, insieme a te, per ritrovare la serenità».

Annuisco speranzoso, sono consapevole dei miei problemi e anch’io voglio trovare una fottuta soluzione che mi faccia stare meglio. Non mi sono mai opposto alle cure, in un certo senso ne ho bisogno per non smarrire la lucidità che rischia costantemente di abbandonarmi.
Il nostro colloquio viene interrotto da qualcuno che bussa alla porta.

«Avanti» afferma il dottore, alzando voce di un tono, e Mara si materializza nello studio con un vassoio in mano e due caffè.

Appena lei entra nella stanza lo sguardo del medico si posa su di me, esamina il mio comportamento, indaga e studia le mie reazioni. Vorrei controllarmi, ma la fastidiosa erezione che mi porto dietro da quando ho messo piede nel suo studio non aiuta. Lancio uno sguardo al culo sodo di Mara e mi sistemo il cavallo dei pantaloni. Sono consapevole di avere addosso gli occhi del mio psichiatra, ma la mia reazione è istintiva, non riesco a controllare le pulsioni carnali del mio corpo.

«Grazie, Mara, puoi andare» la congeda lui e la donna lascia la stanza, non prima di avermi lanciato una lunga occhiata che ricambio prontamente.

Ho intenzione di farmela appena metto piede fuori da questo dannato ufficio.
Lei mi sorride gentile, poi se ne va e io sprofondo nuovamente nella frustrazione.
Visani sostiene che io sia un giovane molto attraente e che la mia bellezza non aiuta per niente la cura della mia Ipersessualità.
Io in realtà mi vedo e mi sento un mostro, una bestia imprigionata in una gabbia per uccelli, ma lui dice che le donne, in virtù del mio aspetto seducente, sono lusingate dal mio corteggiamento, ignare del fatto che portarmele a letto costituisce una valvola di sfogo e un appagamento momentaneo privo di un coinvolgimento sentimentale.
Con quest’ultima teoria sono d’accordo.
Una donna soltanto è padrona del mio cuore, l’unica che non posso avere, la mia sorellastra, ma Visani non lo sa, il mio amore per Selene è un segreto che tengo per me da quando avevo cinque anni.
Il dottore mi porge il mio caffè, lo sorseggio e lui fa altrettanto, quando terminiamo la pausa riprende il discorso lasciato in sospeso dall’arrivo di Mara.

«È successo qualcosa negli ultimi tempi che abbia potuto apportare qualche variazione nelle tue abitudini?».

Scuoto la testa, niente di particolarmente significativo.

«Ok».
Lui annuisce poco convinto, forse crede il contrario

«Allora direi che non abbiamo nulla di cui preoccuparci» conclude.

Si alza dalla scrivania e mi raggiunge, restando in piedi.

«Puoi andare, Kevin, e porta i miei saluti a tua madre».

Gli lancio un’occhiata scettica.
Sono venuto qui in cerca d’aiuto non per essere congedato dopo un paio di domandine smilze ma, senza chiedere altro, mi alzo in piedi anch’io, sovrastandolo con la mia altezza di almeno dieci centimetri.

«Lo farò al suo ritorno» rispondo e Visani cambia espressione.

«È partita?».

Il medico è a conoscenza dei continui viaggi di lavoro di mia madre, gliene ho parlato spesso nel corso delle nostre sedute.

«Sì, starà via un paio di settimane» dico, atono.

Da bambino mi sono sentito molto solo durante i suoi viaggi, ora ci ho fatto l’abitudine, anche se quel senso di abbandono non mi lascia mai

«Va bene, potresti riaccomodarti un minuto, Kevin?».

Ma che cazzo!

Lo guardo stupito ma faccio come dice, mentre Visani riprende velocemente posto alla sua scrivania.

«Ascolta, Kevin…» ricomincia, in tono calmo e comprensivo, «Il riacutizzarsi dei tuoi disturbi deriva dalla partenza di tua madre. La tua psiche collega questi viaggi di lavoro alla scarsa attenzione che Carola ti riservava da bambino, il fatto che adesso starà via per due settimane e non il solito week end, come spesso mi hai narrato nei nostri colloqui, ha dilatato la tua sindrome di abbandono e attaccamento insicuro».

Gli lancio un’occhiata confusa, mentre lui apre il taccuino, scrive qualche riga e ritorna a prestarmi la sua attenzione.
Non sono sicuro che questa diagnosi sia corretta, con gli anni mi sono abituato all’assenza di mia madre, ma annuisco silenzioso.
Forse Visani ha ragione, forse la mia psiche subisce ancora il contraccolpo della sua assenza.

«Ho cambiato il tuo piano terapeutico. Dovrai assumere questo farmaco tutte le mattine per un mese, poi uno ogni quindici giorni per i due mesi successivi, infine una al mese per sei mesi, ho segnato tutto qui» afferma, indicando il foglio, «Inoltre credo sia il caso che tu riprenda la terapia di gruppo».

Scuoto la testa con fermezza, quella non la riprendo neanche se mi ammazzano.

Ho partecipato ad un paio di incontri sotto l’insistente pressione di mia madre qualche anno fa, ma la terapia di gruppo mi innervosisce, non ho un buon rapporto con la parola, faccio già molta fatica ad aprirmi con le persone di cui mi fido, non riesco a parlare in pubblico, a confidare i miei problemi a degli estranei, la cosa mi manda nel panico più totale.

«Riflettici sopra, Kevin» tenta di convincermi lui, «Intanto devi cominciare questa terapia farmacologica quanto prima».

Annuisco ancora, mentre il dottore strappa la pagina su cui ha segnato il nuovo piano terapeutico per consegnarmela.

«Perché sono ritornate le crisi, dottore?».

Il mio tono truce non gli sfugge.

«Ragazzo mio, i disturbi tendono a ritornare se c’è una causa scatenante. In questo caso presumo sia stata la partenza di tua madre il motivo principale. Se vuoi sconfiggere la tua Ipersessualità, invece, devi allontanarti da Lilith, ne sei ancora affetto e il fatto che tu abbia tentato di sedurre la mia segretaria ne è la prova».

Sono perfettamente consapevole anche di questo problema, a volte per me è un incubo, perché non sono soddisfatto e appagato neanche dopo ore di sesso, e tutto a causa della passione smodata che nutro per la mia sorellastra.
Solo lei potrebbe colmare quel vuoto che mi porto dentro e risanare la voragine dentro cui sprofondo ogni singolo giorno.
Sospiro.
Per me il sesso è un’ossessione soltanto perché mi congiunge a lei.
Durante l’atto sessuale la mia mente vola tra le sue cosce e lei diventa mia, anche solo per un momento fugace.

«A presto, Kevin» mi saluta, aprendo la porta dello studio per accogliere l’altro paziente, in attesa da qualche minuto.

«A presto».

Quando il nuovo arrivato e il dottore si chiudono la porta dello studio alle spalle, il mio fiuto segue un’unica direzione: la scrivania di Mara.

«Vieni» dice lei.

Mi indica una porta.
Entriamo.
È uno stanzino utilizzato come deposito.
Siamo al buio.
Senza perdere tempo mi frugo nelle tasche in cerca di un preservativo, ne ho sempre qualcuno con me a causa della mia fame sessuale.
Non le do il tempo di sollevarsi la gonna, l’afferrò per la lunga coda e la faccio girare di schiena, immagino di farlo da quando l’ho vista, poi la penetro con un colpo secco.
Me la scopo come una bestia, tappandole la bocca più di una volta per impedirle di gemere, di urlare per il piacere scatenato dal mio cazzo dentro di lei, il medico o qualche altro paziente potrebbero scoprirci e, mentre lei raggiunge l’orgasmo per la seconda volta in dieci minuti, io mi perdo nel dolore lasciato da un colpo di frusta sulla pelle e nel sogno di due labbra morbide che mi curano l’anima.

Le labbra di Selene.

***

Le prime due ore di lezione sembrano interminabili, il professore di matematica cerca con tutto sé stesso di farci comprendere una strana fila di lettere e numeri esposti sulla lavagna elettronica, ma noi, come un ammasso di ebeti, guardiamo quel seguito di segni come se fosse aramaico antico.
Per fortuna suona la campanella e questo strazio termina in un brusio frenetico.
Chiudo il manuale di matematica e lo infilo nello zaino, poi agguanto il libro da esaminare al laboratorio di lettura.
Nicolò, un mio compagno di classe, mi raggiunge trafelato, solo io e lui della nostra classe ci siamo iscritti al laboratorio, gli altri passeranno le prossime ore in aula a fare ripetizioni di grammatica con l'insegnante di sostegno.

«Selene…» dice, quando siamo in corridoio «Allora, ci esci con me stasera?» chiede, con un sorriso malizioso.

Nicolò è un bel ragazzo, ma non è il mio tipo. Da cinque anni, tutte le mattine, mi chiede di uscire.
Mi affianca nel tragitto che dalla nostra classe conduce all’aula magna, la sede scelta dalla professoressa Amendola per il laboratorio.
Nicolò è alto, non quanto Kevin, lui è un gigante che sovrasta, domina e intimorisce tutti dall’alto del suo metro e novanta. Nicolò invece supera di poco il metro e ottanta, ha i cappelli castani e riccioluti, la sua chioma è molto ribelle e le ciocche morbide sparano ovunque. Qualche pagliuzza dorata abbellisce i suoi occhi nocciola e ha un fisico atletico, non perché si sfonda in palestra come il burbero, lui frequenta la scuola calcio e si tiene allenato per le partite.

«Ovviamente, no!» ribatto, annoiata.

Non so perché vuole uscire con me a tutti i costi, forse perché io sono stata l’unica a rifilargli un rifiuto, anzi cinque anni di rifiuti.
Si finge deluso, ma poi sorride, consapevole del fatto che da me non otterrà quello che vuole.
L’aula magna è già piena e io e Nicolò andiamo a sederci ai due unici posti rimasti liberi, al centro sala.
Non ho il tempo di guardarmi intorno perché lui mi attira in un abbraccio inaspettato e poi mi scompiglia i capelli con un gesto tenero.

«Quanto sei bella, Selene!» afferma, trasognato.

Questo complimento spontaneo mi fa arrossire, poi la professoressa Amendola entra in aula.
Dopo un veloce saluto inforca gli occhiali da lettura e apre il romanzo che stiamo leggendo in questo mese, Delitto e Castigo di Dostoevskij.

«Allora, ragazzi, siamo arrivati al punto in cui Raskolnikov si ammala di una violenta febbre, qualcuno vuole dare la sua opinione su questo passaggio, direi cruciale, del romanzo?» domanda, puntando lo sguardo su noi studenti.

Il vento del deserto spiffera solitario tra le mura azzurre dell’aula. Tutti restiamo in silenzio e in attesa che qualcuno, più intrepido degli altri, prenda la parola ma un silenzio imbarazzante cala su tutti i presenti. Intanto la professoressa Amendola ci fissa dalla cattedra, in attesa che uno di noi risponda alla sua domanda. La donna sospira, aggiustandosi gli occhiali sul naso e portandosi indietro una delle ciocche dei suoi capelli bruni sfuggiti alla coda bassa in cui li ha sistemati.
Il silenzio è quasi diventato un fischio sordo, quando, in fondo alla classe, qualcuno comincia a parlare.
È una voce roca, dal timbro leggermente graffiante, molto profonda e sensuale, la voce di chi ha appena finito di fare l’amore.

La sua voce.

«È la febbre della coscienza che si arrampica, consapevole, al vuoto di una sofferenza... la sofferenza dell’anima. Solo attraverso la sofferenza possiamo raggiungere la felicità e Raskolnikov incarna questo dolore alla perfezione, il dolore del suo secolo e della sua terra» risponde, spavaldo e sicuro di sé.

«Quindi secondo te… Kevin giusto?» lui annuisce e la professoressa continua, «Dunque, Kevin, secondo te la febbre di Raskolikov non avrebbe origine fisica?» prosegue, mentre Kevin le lancia un sorriso sarcastico.

«Mi sembra più che evidente».

Il suo tono saccente fa inarcare un sopracciglio alla docente, che lo fissa con un sguardo irritato e ammirato allo stesso tempo.

«Spiegati meglio» lo invoglia, paziente.

«L’intero romanzo poggia sulla questione etica, il titolo stesso è un inno alla morale. Raskolnikov ha ucciso una donna, Delitto, e il suo Castigo è la sua stessa coscienza che gli ricorda in ogni istante il suo gesto scellerato. È lui stesso ad autoinfliggersi il castigo».

La professoressa annuisce, mentre io lo osservo incantata insieme a tutti gli altri.

Kevin.
Cosa ci fa Kevin al laboratorio di lettura?
Non ho mai fatto caso alla sua presenza finora!

«Bravo, Kevin, hai fatto un’ottima osservazione» lo elogia la professoressa, con aria soddisfatta, poi include nel suo sguardo l’intera platea, «Qualcun altro che vuole ribattere?».

In quel piccolo frangente i nostri
sguardi si incrociano.
Kevin non è il bifolco che pensavo.
Ho sempre creduto che spendesse il suo tempo a tirare pugni contro un sacco pieno di sabbia, oppure a letto con qualcuna, e invece questo antipatico sfoglia anche qualche libro.

Chi l’avrebbe mai detto?

Sono seriamente stupita dalle sue riflessioni, anche perché non sapevo che gli piacesse la lettura. L’unica cosa che ho visto leggere a questo degenerato sono i fumetti Hentay, che da quando abbiamo quindici anni mi sventola sotto il naso per farmi dispetto. Arrossisco a questo pensiero e i suoi occhi, ancora allacciati ai miei, scivolano sulle mie guance. Il mio cuore comincia a battere furioso e, istintivamente, slego lo sguardo dal suo, cercando di rivolgere la mia attenzione alla ragazza che ha preso la parola due posti davanti a lui.
Passo i dieci minuti successivi in fibrillazione, continuando ad agitarmi sulla sedia e attirando l’attenzione di Nicolò.

«Selene, stai bene?» domanda, preoccupato.

«Sono solo un po’ accaldata» rispondo, cercando di mascherare la mia agitazione.

Non ho mentito, sento realmente caldo, basta la sua presenza a farmi sudare. Vorrei intervenire nella discussione ma non sono in me, non riesco a seguire il filo del discorso.
Lo sbircio di nascosto.
Ora sta osservando qualcosa fuori dalla finestra, ha l’aria distratta e l’espressione seria.
È bellissimo.
La sua bellezza è opprimente, con quel ciuffo nero che scende spettinato lungo la fronte e un maglione nero che modella quei bicipiti da urlo.
Non è seduto composto come il resto della classe, è stravaccato sulla sedia, troppo piccola per contenere la sua altezza, con le gambe larghe e i muscoli in bella vista.
È inutile negarlo, la sua avvenenza è palpabile, tanto che alcune studentesse hanno smesso di ascoltare la lezione e lo fissano con insistenza.
Lo vedo sorridere sensuale ad una ragazza minuta dai lunghi capelli neri e una fastidiosa sensazione risale lungo il mio stomaco, poi i suoi occhi viola si posano nuovamente su di me e la sua espressione cambia.
È diventato cupo e pensieroso come se qualcosa lo tormentasse.
Mi lancia una delle sue occhiate cattive così abbasso gli occhi sul libro che ho in mano, fingendo di ascoltare la ragazza che sta disquisendo animatamente con un ragazzo sulle dinamiche del romanzo.

Sono una stupida!
Una fottuta stupida!

Solo poche ore prima mi sono imposta di ignorarlo e invece, ogni volta che lo vedo, non riesco a togliergli gli occhi di dosso. Non posso continuare così, anche perché potrebbe accorgersi che lui per me non è semplicemente il mio fratellastro.
Se scoprisse che in realtà sono innamorata di lui farebbe il diavolo a quattro, poi mi odierebbe per tutta la vita.
E io non sopporterei mai questa vergogna, dunque ordino al mio cuore di ammutolirsi e alla mia mente di tacere il suo nome.
Io non sono innamorata di lui, non posso esserlo perché siamo fratellastri.
Anche se sono stata adottata condividiamo lo stesso padre e i nostri genitori ci hanno cresciuto come fratelli.

E allora perché il mio cervello si rifiuta di accettare questa realtà?

Sospiro tristemente, devo accettare la dura verità perché questo arrogante mi odia a morte e non vuole avere nulla a che fare con me.

Per lui io non esisto.

***

La sveltina con Mara ha ritardato il mio ingresso a scuola di un’altra mezz’ora, più il tempo che ho impiegato per raggiungere l’istituto.
Sono quasi le dieci, oggi c’è il laboratorio di letteratura a cui mi sono iscritto solo per stare con lei. Sapevo che non avrebbe mai rinunciato ad una cosa simile e, anche se non mi piacciono queste attività di gruppo, non voglio perdermi la mia Selene mentre disquisisce dei suoi romanzi.

Ho partecipato a pochi incontri, lei non si è mai accorta di me, è troppo concentrata sulla lettura e la successiva discussione e io, da parte mia, mi limito ad osservarla in silenzio dal fondo dell’aula.
Lascio in segreteria la giustificazione del mio ritardo insieme al certificato medico che mi ha rilasciato Visani, e vado in aula magna.
Lei non è ancora arrivata, ma l’aula è già piena di studenti.
Mi accomodo al mio solito posto in fondo alla sala e attendo il suo arrivo.
Il mio cuore si ferma quando entra insieme a quel ragazzo, lo conosco, è un suo compagno di classe.
Vengono sempre insieme, ma oggi sembrano più in confidenza, lui la guarda con occhi trasognati e lei sorride e arrossisce alle sue battute.

Cazzo!

La loro complicità non mi piace affatto, un groppo mi chiude la gola e un macigno mi opprime lo stomaco.
È irrazionale e contraddittorio, ma sono geloso, sono geloso come un pazzo.
Lei è mia.

Sei mia, anche se faccio di tutto per allontanarti da me.
Sei mia.
Nel mio cuore sei mia.
E io sono tuo, lo sono da sempre, lo sono da quando avevo cinque anni.
Non abbandonarmi anche tu, non allontanarti da me, perché se i tuoi occhi di ghiaccio si posano su qualcun altro io impazzisco per davvero.
Guardami, Selene.
Guardami come mi hai sempre guardato.
Non andare via da me perché se ti perdo io brucio.

***

Il laboratorio di lettura si protrae fino alla fine delle lezioni, così, quando suona la campanella, mi scaravento come un fulmine fuori dalla porta, con Nicolò che mi segue quasi correndo.
Voglio evitare di imbattermi in Kevin e nel suo sguardo crudele.
Non voglio vederlo, almeno fino al ritorno a casa, ma l’impresa è abbastanza ardua visto che dobbiamo prendere lo stesso autobus.
Nicolò si offre di accompagnarmi con il motorino fino alla fermata e aspetta insieme a me e Carmen l’arrivo della corriera.
È molto premuroso, ma non deve farsi illusioni su di noi, per me è solo un buon amico, nient’altro.

«Sei stato gentile ad aspettarla!» squilla Carmen, maliziosa, rivolta a Nicolò.

Lui la guarda imbarazzato, ma non risponde.

«Siete carini insieme» rincara la dose, prima che io la incenerisca con lo sguardo.

Nicolò sorride divertito.

«Sta arrivando il pullman!» preciso, nel tentativo di cambiare argomento.

Carmen è sempre la solita, appena avvista un tipo carino fa di tutto per appiopparmelo. Ultimamente poi è diventata insopportabile, si è messa in testa di trovarmi un fidanzato. Per fortuna smette di parlare e si dedica al suo taccuino, mentre l’autobus serpeggia in lontananza rallentato dal traffico dell’ora di punta.
Nicolò si avvicina a me, mi sfiora i capelli con una carezza e sorride gentile.
Abbassa il viso a pochi centimetri dal mio e mi guarda con un’intensità che mi fa arrossire.

«Ci vediamo doma...» ma non riesce a terminare la frase.

In un battibaleno si schianta a terra, ma si rimette in piedi nell’arco di un minuto.
L’impatto con il cemento del marciapiede gli ha strappato i jeans da cui emerge una larga chiazza vermiglia.
È sangue.
Mi inginocchio per aiutarlo, allontanandolo dalla traiettoria del pullman, che tra pochi istanti raggiungerà la pensilina.

«Tutto bene?» chiedo, allarmata.
Lui annuisce

«È solo un graffio» mi rassicura.

Mi guardo intorno per adocchiare l’idiota che ha spinto Nicolò, voglio fargli una bella ramanzina, sicuramente è il solito maleducato che, per accaparrarsi un posto, l’ha spintonato per passare avanti, invece, a qualche passo da noi, vedo Kevin che guarda il mio amico con aria minacciosa, come se stesse per ucciderlo da un momento all’altro.
Lo fisso terrorizzata e confusa dal suo atteggiamento, sembra davvero furioso.

La pensilina, le persone, lo spazio e il tempo s’incurvano nel tratto appena accennato del pennello sulla tela, un tratto nero che spicca solitario tra le fibre di un dipinto inesistente, vuoto, bianco.
A quel punto tutta la mia rabbia vibra nel battito d’ali di una farfalla.



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