5. BIGBOY🔞

“L’illusione è figlia
di un desiderio”

Paulina Dyron.

Chiudo il portone e mi avvio verso casa mia furioso e confuso.

Cazzo!

Impreco mentalmente, mentre attraverso il viale d’ingresso per raggiungere il garage.

Cos’è appena successo?
Perché Selene mi ha guardato in quel modo?

Nel modo in cui una donna guarda un uomo.
Mi ha osservato con… desiderio?
Mi fermo un istante davanti alla porta del garage per riprendere fiato e placare i battiti del mio cuore. Devo stare calmo, probabilmente è stato uno scherzo della mia immaginazione perché è con astio e indifferenza che Selene mi guarda da sempre. Sono stato io stesso, con il mio comportamento, a invogliarla ad odiarmi.

Sì, è certamente così.
È stata la mia immaginazione a trarmi in inganno.

Eppure, già da qualche tempo, ho notato le sue occhiate strane, com’è successo alla fermata dell’autobus dopo la scuola, oppure questo pomeriggio in bagno.
Sono occhiate discrete, a volte fugaci e nascoste, altre volte lunghe e intense.
I suoi occhi vagano sul mio corpo assorti e adoranti.
Ho anche visto le sue guance colorarsi di rosso quando raggiungono dei punti inappropriati, com’è accaduto poco prima, quando si sono soffermati sul cavallo dei miei pantaloni.
Sì, Selene mi ha proprio guardato il cazzo, questo non l’ho soltanto immaginato.
Quando l’ho beccata la tentazione di farle provare la fastidiosa erezione che mi tormenta dal pomeriggio è stata forte, ma, come sempre, mi sono trattenuto.

Devo trattenermi.

Sicuramente il suo sguardo è capitato in quel punto per puro caso, dopotutto indosso uno di quei jeans attillati che mettono in risalto le linee possenti del mio corpo, cazzo compreso.
Mi passo una mano tra i capelli, portando indietro il ciuffo ribelle che mi copre la fronte con un gesto nervoso.
È assurdo, tutta questa situazione è assurda.
È impensabile che Selene sia attratta da me, non lo è mai stata, perché dovrebbe esserlo ora?
Non ha mai manifestato apertamente un interesse di quel tipo nei miei confronti, quindi, o è stata brava a nasconderlo, oppure sono io che sto girando nella mia testa un film contorto. La seconda opzione mi sembra più consona, anche perché la mia Sailor Moon è troppo innocente per lasciarsi andare a pensieri tanto impudichi.

Alzo la serranda del garage, ho già perso troppo tempo a rimuginare su una situazione inesistente.
Selene non è attratta da me, è il mio cervello che si diverte a giocare con i miei sentimenti, ricercando malizia in due occhi puri, perché, anche se consciamente mi sforzo di rifiutarla e allontanarla, inconsciamente non riesco a combattere contro il desiderio di averla, amarla e possederla come un diavolo.

Appena entro in garage le mie narici vengono investite dalla puzza dell’olio di motore e del legno stantio degli scaffali.
Sono molto sensibile da questo punto di vista, percepisco gli odori in modo chiaro e distinto, alcuni mi disgustano, altri mi inebriano. Selene, per esempio, emana un profumo dolce, zuccherino, ricorda quello del miele. Il mio istinto mi ha più volte sfidato ad assaggiarla però mi sono opposto a questo richiamo primitivo con tutte le mie forze.

Accendo la luce, illuminando il piccolo spazio fatto interamente di cemento armato, dalle pareti al pavimento. Addossati ai muri ci sono una fila di ripiani in legno che occupano la parete destra del garage, è da lì che proviene quel fastidioso odore di legno ammuffito. Questi scaffali vecchi e malridotti reggono a stento i pochi attrezzi che ospitano.
Il Bmw di mia madre, nero e lucido, occupa gran parte dello spazio circostante ed è affiancato dalla moto di Roberto, coperta da un telo nero. È una Ducati Streetfighter del 2005, il mio patrigno l’ha acquistata all’incirca un mese prima della sua morte per sostituire una Ducati Monster del 2002.

Roberto, pur essendo un uomo molto composto e acculturato, aveva la passione per le moto, ne cambiava una all’anno. Era una passione che contrastava con il suo carattere pacato, a vederlo nessuno l’avrebbe immaginato correre a duecento all’ora su un’autostrada e, invece, lo faceva. Di tanto in tanto lui e mia madre sceglievano una destinazione qualunque da visitare, solitamente in cui soggiornare un weekend al massimo, e partivano.

In quei giorni io restavo con la babysitter, che ricordo con affetto.
Era una ragazza di origine asiatica, dai lineamenti esili e spigolosi, però aveva gli occhi grandi e dolci. Aveva anche un bel sorriso e un caschetto nero che le incorniciava il viso scarno.
Ha vissuto insieme e noi per quattro anni, poi ha incontrato suo marito e si è trasferita in un quartiere poco distante. Ha continuato a prendersi cura di me anche dopo il matrimonio, ma nel periodo che coincise con la morte di Roberto è rimasta incinta. Ha lavorato per mia madre fino al settimo mese di gravidanza, poi si è licenziata per dedicarsi alla sua famiglia e io sono rimasto da solo per davvero.
Roberto non c’era più, Letisha, così si chiamava la mia babysitter, se n’era andata, e mia madre non c’era mai.
Ma il destino, seppur crudele, mi ha riservato una sorpresa inaspettata.
In quello stesso periodo ho conosciuto Sofia e Selene.

Dal primo momento in cui le ho incontrate il mio mondo si è disegnato di nuovi colori, tuttavia c’è stato un prezzo molto alto da pagare, ossia la scoperta della verità più amara della mia vita.
Le bugie di mia madre sono venute tutte a galla e la bolla di sapone in cui mi ha rinchiuso per i primi cinque anni della mia infanzia è esplosa in un frastuono di schegge, tutte conficcate nel mio cuore.
Scoprire che Roberto non era mio padre è stato uno choc, gli ero tanto affezionato e anche lui mi voleva bene. Alessandro Colonna invece era uno sconosciuto, un individuo abbietto che mi aveva abbandonato alla nascita.
Fino all’adolescenza ho creduto che quell’uomo fosse scappato non appena aveva scoperto il mio arrivo, poi, un giorno, ho trovato il coraggio di chiedere a mia madre di parlarmi di lui e lei mi ha raccontato che Alessandro non era neanche al corrente della sua gravidanza.
Le ho creduto, dopotutto, ripensando alla reazione di Alessandro durante il nostro primo incontro, sembrava davvero che fosse all’oscuro della mia esistenza.


12 ANNI PRIMA…

Alessandro strinse il nodo della cravatta e indossò un maglione di flanella azzurra sulla camicia grigia.  Quando finì di vestirsi diede un’ultima occhiata allo specchio e sistemò con il pettine alcune ciocche nere sfuggite alla cera. Sofia era appena uscita dalla camera, era andata ad avvisarlo che c’erano due ospiti molto importanti che lo stavano attendendo in salotto, ma lui non poteva trattenersi molto, doveva correre in ufficio perché c’era stato un disguido con uno dei progetti architettonici che stava seguendo personalmente e il suo team lo stava aspettando per ricevere istruzioni.
Scese al piano di sotto.

Udiva dal corridoio le voci sommesse di due donne, una era di sua moglie, l’altra gli parve di averla già sentita da qualche parte, ma non ricordava dove. In sottofondo, uno strano fischio si confondeva con quei bisbigli.
Ignaro di quello che avrebbe appena scoperto, Alessandro raggiunse gli ospiti, ma, appena vide la donna che stava conversando con sua moglie, trasalì.
Sgranò gli occhi esterrefatto e rimase pietrificato.
Carola?
Perché Carola era lì?
Passarono lunghi minuti di silenzio, persino Kevin aveva smesso di giocare con la sua macchinina, puntando lo sguardo sul nuovo arrivato.

«Vieni, caro» lo spronò Sofia, perché lui era rimasto bloccato sui suoi passi.

Annuì incerto e raggiunse le due donne.
Carola li fissava mortificata e a disagio, come se avesse appena commesso l’errore più grande della sua vita.
Finalmente, dopo qualche altro minuto di silenzio, Alessandro raccolse tutto il suo coraggio e la salutò.

«È… è un piacere rivederti, Carola» farfuglio, imbarazzato.

Quella era una situazione spiacevole per lui perché temeva la reazione di Sofia, che li osservava placidamente con le mani unite in grembo. Un’ombra di preoccupazione velava il suo volto delicato e ricordò che sua moglie aveva menzionato due ospiti, così si guardò attorno alla ricerca della seconda persona.
Lo vide vicino al tavolino del salotto, era di spalle, inginocchiato sul tappeto persiano, e stava giocando con una macchinina rossa.
Selene era accanto a lui e lo osservava curiosa.
Volse nuovamente lo sguardo verso le donne, prima su Carola, a cui lanciò un’occhiata desolata, e poi a sua moglie, che scrutò mortificato.
Avrebbe voluto leggere nella mente di Sofia per sapere cosa stesse pensando in quel momento.
Quando le aveva raccontato della sua avventura con Carola avevano attraversato la seconda crisi matrimoniale, la prima c’era stata un anno prima, quando il medico aveva dato loro la spiacevole notizia. Era stato molto difficile riacquistare la sua fiducia, il suo era stato un momento di debolezza. In quei mesi Sofia si era isolata, rinchiudendosi in un mondo oscuro, sbarrandogli l’ingresso nel suo animo tormentato. Quel pomeriggio con Carola non era lucido, erano eccitati per la firma del nuovo contratto e avevano bevuto, così aveva compiuto quel gesto avventato. Si era sentito un verme, anche perché lei era soltanto una ragazzina, aveva venticinque anni, ed era una sua dipendente. Ma purtroppo era accaduto, aveva tradito sua moglie con quella giovane ragazza che un mese dopo si era licenziata senza lasciare tracce. Lui non l’aveva fermata, sapeva che quella situazione, con il tempo, sarebbe diventata ingestibile, inoltre voleva raccontare a sua moglie tutta la verità.

Doveva essere sincero, almeno questo glielo doveva.

Quando le aveva detto del tradimento, Sofia era sbiancata e Alessandro aveva temuto che ricrollasse nel baratro da cui era uscita solo alcuni mesi prima, ma per fortuna c’era Selene.
Quella bambina, che avevano adottato da poco, aveva fermato la sua ricaduta e salvato il suo matrimonio.
Sospirò affranto.
Erano più di cinque anni che non vedeva Carola, cosa ci faceva adesso in casa sua con un bambino?
Come se lei gli avesse letto nel pensiero lo chiamò.

«Kevin…» disse, soltanto, e il bambino si voltò nella loro direzione.

E allora capì, era impossibile non capire appena il suo sguardo si posò sul suo volto.
Kevin era la sua fotocopia sputata, di Carola aveva soltanto i lineamenti delicati.

«Vieni qui» aggiunse sua madre, con dolcezza.

Il bambino fece quanto chiesto e li raggiunse, mettendosi accanto alla madre. Restò in piedi e i suoi occhietti viola sfiorarono quelli di Alessandro, facendoli fremere.
L’uomo, completamente stravolto, si portò una mano alla fronte esterrefatto.

«Lui è Alessandro, tesoro» lo informò, in tono gentile.

Kevin annuì e gli porse la manina, che Alessandro fissò sorpreso e intenerito dalla sua intraprendenza.
La strinse piano e tremante, il bambino, invece, la strinse con fermezza.

«Piacere, Kevin» si presentò, serio, e Alessandro sorrise, mentre quella vocina gli scoppiava nel petto. Sentiva le lacrime pungere agli angoli degli occhi, ma le trattenne per non spaventare il bambino.

«Piacere mio, Kevin» sussurrò, emozionato.

Alessandro era un omone alto quasi due metri, aveva una stazza prorompente e il suo corpo era tonico e in forma nonostante i suoi quarantacinque anni, eppure si stava sciogliendo come melma di fronte a quel bambino così piccolo. Sentiva i battiti accelerati del suo cuore e si portò una mano al petto per impedirgli di esplodere.

«Ritorna a giocare, Kevin» ordinò Carola e il bambino eseguì, ritornando sul tappeto persiano.

Ora aveva compreso l’espressione di Sofia.
Quel bambino era…
Non riusciva a crederci, non aveva mai saputo della sua esistenza perché Carola gli aveva impedito di conoscerlo.
Un senso di rabbia e frustrazione lo assalì, ma decise di contenersi.
Aveva scoperto che quel bambino era suo figlio soltanto da un minuto, ma non avrebbe rinunciato a lui per niente al mondo.
Aveva un figlio.
Un figlio suo, sangue del suo sangue, carne della sua carne, e lui era stato completamente all’oscuro di tutto per cinque lunghi anni.
Carola gli aveva negato la gioia di essere padre, si era perso i primi anni di quella piccola vita sbocciata dal suo seme e, improvvisamente, la rabbia esplose.

«Perché, Carola?» domandò, scattando in piedi.

Il suo tono di voce, troppo alto, attirò anche l’attenzione dei bambini, così Sofia lo frenò posando una mano sul suo avambraccio.
Era un gesto insignificante, ma servì a rinsavirlo.
Stava sbagliando atteggiamento e poteva indurre Carola a fuggire di nuovo.
Fece un profondo respiro per recuperare la calma e si mise di nuovo a sedere.

«Perché non mi hai detto che aspettavi un bambino?» continuò, in tono più calmo, abbassando la voce per evitare che i bambini udissero la conversazione.

Carola si fissò le nocche, che non aveva smesso di torturare da quando aveva messo piede in quella casa.

«Non volevo sconvolgere la tua vita» affermò, in un soffio.

Alessandro la osservò in silenzio, riflessivo, doveva ponderare bene la scelta delle parole perché non voleva che Carola prendesse decisioni affrettate.

«Avevo il diritto di saperlo» rispose, truce.
Lei annuì, ne era perfettamente consapevole.

«Abbiamo commesso un errore…» riprese, ma Alessandro non la fece finire.

«Quel bambino non è un errore!» affermò, questa volta in tono più alto.
Carola annuì di nuovo.

«Non sto parlando di Kevin, ma di quello che è successo…» tentennò un istante e guardò Sofia avvilita, «Tra noi» concluse, tremante.

Alessandro strinse le palpebre inquieto.
Si sentiva a disagio a parlarne di fronte a sua moglie, anche se le aveva raccontato esattamente cos’era successo quel giorno.

«Spero che tu mi consentirai di recuperare il tempo perduto» sussurrò, a fil di voce.

Carola annuì.

«Era giusto che tu sapessi» affermò lei, tristemente.

Alessandro acconsentì a sua volta.

«Perché soltanto adesso?» chiese, stravolto.

«Non lo so» mentì.

Invece sapeva bene il motivo.
Perché Roberto era morto e lei non sarebbe stata mai capace di crescere un figlio da sola.
Perché era spaventata.
Perché era una vigliacca.

«Adesso dobbiamo andare…» disse, con gli occhi lucidi di lacrime trattenute e si alzò in piedi, richiamando Kevin.

Anche Alessandro e Sofia scattarono in piedi, allarmati.

«Promettimi che non scapperai di nuovo, Carola» disse lui, con voce implorante, e lei assentì silenziosa.

«Lasciami il tuo numero di telefono» intervenne Sofia.

Era l’unica cosa che aveva detto durante tutto quel tempo.

«Certo» rispose l’altra, con un sorriso tirato.

Sofia si allontanò, ritornando poco dopo con una penna e un pezzo di carta sul quale Carola scrisse le cifre del suo contatto telefonico, poi glielo porse.

«Ti chiamo presto, Carola» continuò Sofia, Alessandro invece guardava il bambino, che adesso era vicino a sua madre in attesa che andassero via.

I loro occhi, di un blu profondo tendente al viola, si scontrarono e il cuore di Alessandro perse un battito per la forte emozione.
Suo figlio…

«Allora noi andiamo» asserì Carola, frastornata dall’accaduto.

Finalmente Kevin aveva conosciuto il suo vero padre.

Alessandro riportò lo sguardo su di lei e annuì nervosamente, mentre Sofia li accompagnava alla porta.

«A presto» affermò, tendendole la mano e Carola la strinse, poi scompigliò i capelli neri di Kevin e sorrise, «A presto, piccolo» e, in quel breve attimo, gli occhietti tristi di quel bambino scintillarono.

«Ciao» la salutò lui, poi se ne andarono, seguiti dallo sguardo commosso di Sofia.

Sbuffo seccato, la mia vita oscilla tra due puttane, l’indifferenza e l’ossessione.
L’indifferenza di mia madre e l’ossessione per Selene.

Con un movimento brusco tiro il telone nero e polveroso, scoprendo la moto di Roberto. Mia madre mi ha proibito di prenderla perché non ho ancora l’età per guidarla. Anche se compirò diciotto anni ad agosto, per guidare questo bolide dovrei averne venti.
Come al solito violo il suo divieto, anche perché lei non se ne accorgerà nemmeno visto che non c’è mai, e monto sulla sella.
È stato Carlos ad insegnarmi a guidarla, un uomo di origine cubana che frequenta la biblioteca di Lilith. Lui non è come gli altri, ha un’indole buona e si prende cura dei ragazzi poveri del suo quartiere. È il proprietario di un bistrot famoso per il Rum della Casa, che ho assaggiato più di una volta, essendo un cliente abituale del suo locale. Provo una profonda stima nei confronti di Carlos perché insegna i giusti valori ai ragazzi dalla vita disastrata, il più delle volte votati alla delinquenza. Sono giovani che neanche conoscono la parola onestà perché crescono in un ambiente criminale, ma che lui, con pazienza e dedizione, cerca di insegnare a tutti loro.
A volte riesce nel suo intento e ne salva qualcuno, altre volte fallisce, ma è un tipo caparbio, non molla facilmente la presa quando capisce di poter scalfire una di quelle anime tormentate.

Giro la chiave e il rombo potente del motore invade le quattro pareti strette, stringo le manopole del manubrio nel palmo delle mani e do gas, calandomi completamente nel frastuono.
Mi avvio lentamente verso il cancello che limita il viale d’ingresso, che divide casa mia da quella di Selene, e appena sono in strada accelero, lasciandomi alle spalle una nube di fumo.

Venti minuti dopo sto parcheggiando la moto nel cortile di Erika.
Mi ha sicuramente sentito arrivare perché, appena spengo il motore, lei compare sulla soglia.
Mi affretto a scendere e la raggiungo in poche falcate, poi l’afferro per i fianchi e l’addosso al mio petto.
«Ho preparato la cena» afferma lei, leggermente spaventata dalla mia presa brutale.

«Sei tu la mia cena» gracchio, cupo, spingendola dentro casa e chiudendo il portone con la suola della scarpa.

«Quando tornano i tuoi?» domando, staccando le labbra dal suo collo delicato.

Erika non ha il profumo dolce di Selene, il suo corpo emana una fragranza floreale, sa di lavanda, come un ammorbidente. Arriccio il naso infastidito in attesa della sua risposta.

«Tornano domani, mia madre ha accompagnato mio padre ad una cena di lavoro fuori città e dormiranno in albergo».

Annuisco soddisfatto, mentre lei mi divora con gli occhi.

«Andiamo in camera tua, se non ti scopo subito impazzisco!».

Sorride maliziosa e mi guida su per le scale.

Quando siamo in camera mi scaravento nuovamente su di lei.
Indossa un vestitino corto, è senza reggiseno e anche senza mutande costato, infilandole due dita dentro.
«Sei già bagnata…» sussurro, mentre con l’altra mano le palpo il seno.
Ha un seno prosperoso che risalta sulla sua figura minuta.
Lei annuisce lasciva, poi interrompe il nostro contatto per sfilarmi la giacca e il maglione.
Erika osserva il mio petto nudo con ingordigia, come se stesse per mangiarlo da un momento all’altro, indugiando sulla costola sinistra dove spicca un tatuaggio che raffigura le fasi della luna.

Selene.

Finisce di spogliarmi, sbottonando i jeans stretti, che a stento contengono la grossa erezione coperta dai boxer. Con le dita sottili traccia una linea nell’incavo definito della zona pelvica, facendo ingrossare ulteriormente la mia eccitazione.
Senza dire nulla la prendo per i capelli e le spingo verso il mio bacino.
Lei capisce al volo e si inginocchia ai miei piedi, umettandosi le labbra vogliosa, come se non stesse attendendo altro.
Abbassa i boxer e lo prende in bocca.
I miei occhi accarezzano la chioma scura che stringo nel pugno.

Selene.

L’immagine del suo viso dolce e arrossato vaga dentro la mia retina.
Chiudo gli occhi e vado più in profondità, anche se Erika non potrebbe mai accogliermi interamente nella sua bocca, mentre la figura esile e candida della mia sorellastra si staglia nitida tra i miei pensieri. Immagino che sia la sua bocca piena e a forma di cuore ad accogliermi, che sia lei a regalarmi questo piacere, e un gemito gutturale esce dalla mia bocca.
Erika tossisce e un rivolo di saliva cade sul pavimento riportandomi alla realtà.

«Chiedimi di scoparti!» affermo austero, sfilandomi dalle sue labbra.

Senza lasciare i suoi lunghi capelli neri l’aiuto ad alzarsi, poi la faccio girare di schiena e indosso il preservativo.

«Scopami, ti prego» miagola, mentre le sfioro il clitoride gonfio e umido con le dita.

Un lampo di lussuria volteggia nelle mie iridi indaco, la prendo in braccio e lei avvita le gambe intorno al mio bacino, facendo combaciare la sua intimità fradicia con il mio cazzo gonfio e duro. Ci sediamo sul bordo del letto e le tolgo il vestito dalla testa lasciandola nuda.

«Voglio prenderti da dietro» ringhio, al colmo dell’eccitazione e lei, con agilità, gattona sul letto raggiungendone l’estremità.

Le attorciglio il vestito di raso intorno al collo, lei sente la stoffa morbida sulla carotide e sporge i fianchi verso la mia erezione, impaziente di sentirmi dentro.
Non mi faccio attendere e, infilato il preservativo, la penetro con violenza, beandomi di quella visione sensuale.
I lunghi capelli neri ondeggiano sinuosi ad ogni spinta, l’addome è contratto per incassare i miei affondi, le sue grida di piacere esplodono ad ogni colpo.
Con una mano stringo il lembo del vestito e l’attiro verso di me, facendo aderire la sua schiena ai miei pettorali definiti e con l’altra le stuzzico i seni tesi dal desiderio.
La sento ansimare e aumento il ritmo, che lei asseconda inarcandosi sempre di più verso di me.

«Scopami forte» sussurra, quasi al culmine, e la riempio completamente con il mio cazzo, facendola mugolare.

«Vuoi farti male?» domando, sarcastico, sbattendola e riempiendola tutta.

Mi scosto lievemente di lato per guardarla.
Ha il volto arrossato e le lacrime agli occhi.
«Ti piace così?».

Le soffio su un lobo il mio respiro e stringo ancora di più il vestito intorno al suo collo.

«O vuoi che vada ancora più a fondo?» domando, perverso, schiaffeggiandole una natica.

«Piano…» mi prega, ansimante, e sorrido soddisfatto, ma non assecondo la sua richiesta.

Continuo a muovermi veloce, assediando e tediando il suo ventre con spinte intense, voraci e violente, isolandomi dalla realtà per raggiungere Selene.
Forse sta leggendo un libro, forse si è addormentata, chissà cosa sta facendo?
Poi un dubbio mi assale.
E se invece si è sentita male di nuovo?
Se ha avuto un altro dei suoi attacchi?
Sofia è al lavoro e io sono uscito lasciandola in casa da sola.
Preso dalla smania di Selene sono andato via senza riflettere per placare la voglia malsana di lei e fottermi una tizia che aveva i suoi stessi capelli soltanto perché non posso avere lei.
Sono stato un idiota.
Se al mio ritorno la trovassi di nuovo svenuta sul pavimento non me lo perdonerei mai.

«Kevin… mi stai… strozzando!».

La voce di Erika mi riporta alla realtà e allento la presa, poi getto l’abito per terra e aumento la velocità ancora di più.

«Kevin…» geme lei, ma non la sento.

«Kevin…» ripete ancora, ma non riesco a smettere di sbatterla forte, lei si contorce in un secondo orgasmo e realizzo che devo andarmene subito, devo andare da Selene e accertarmi che stia bene, perciò esco da questa ragazza, che ora mi fissa sbigottita, e raccatto i miei vestiti.

«Dove stai andando?» chiede, confusa.

Non rispondo e indosso i boxer.

«Perché ti rivesti, non abbiamo ancora finito!» mi rimprovera, nel tentativo di ricondurmi a sé, ma io mi sfilo il preservativo vuoto e comincio a vestirmi.

«Rispondi, Kevin!».

Non la degno di uno sguardo, in questo momento il mio pensiero principale è Selene.
Devo ritornare a casa, devo rivederla.
Solo allora potrò calmarmi e ritrovare la lucidità.
Sono stato un irresponsabile ad uscire dopo il suo attacco di panico.
Selene è molto vulnerabile e ho notato che gli attacchi di panico sono soliti arrivare quando rimane da sola.
Devo ritornare da lei immediatamente, il suo corpicino provato non reggerebbe un secondo malore.
Infilo il maglione e la giacca di pelle, poi corro giù per le scale, ignorando le urla di Erika che, con un lenzuolo bianco arrotolato intorno al corpo, mi sta seguendo.
Mi sbatto il portone alle spalle, lasciando dietro di me le sue urla e i suoi insulti, poi sfilo le chiavi dalla tasca della giacca e salto in sella.
In questo momento non sono lucido, sto pensando soltanto a lei.
Guido come una furia, violando i limiti di velocità e sorpassando le auto che mi intralciano il cammino, e quando arrivo a casa parcheggio la moto in garage, ma dimentico di coprirla con il telo.
In pochi passi raggiungo il portone, inserisco la chiave nella toppa ed entro.

Silenzio.

Comincio a temere il peggio, mentre, in preda all’ansia, attraverso l’ingresso.
Ho il cuore a mille e l’adrenalina alle stelle.
La luce in salotto è accesa ma lei non c’è, così vado in cucina e, finalmente, la vedo.
È seduta al tavolo, il suo piatto ancora pieno è affiancato da un altro vuoto, il mio, e ha lo sguardo piantato su uno dei suoi libri.
Tiro un sospiro di sollievo, la mia Selene sta bene, non ha avuto nessun attacco di panico.
Mi sono spaventato a morte, il tragitto verso casa è stato un inferno, ma maschero tutto con un sorriso sarcastico e mi piazzo di fronte a lei facendola sobbalzare.
Gli occhi di Selene attraversano la mia figura dal basso verso l’alto e si fissano nei miei per un lungo istante.

«Cosa vuoi?» mi domanda, confusa dal mio atteggiamento.

Sono confuso anch’io a dire il vero.
Senza distogliere lo sguardo dal suo sfilo una Marlboro dal pacchetto e la incastro tra le labbra, poi l’accendo e aspiro una lunga boccata.
La guardo lungamente, con un’intensità silente, infine mi abbasso su di lei per allineare i nostri volti.
Lei sussulta per questo gesto inaspettato.

«Tu sei una strega!» ringhio, sputandole il fumo in faccia.

Sei una strega sì, perché mi hai lanciato un potente incantesimo che ha imprigionato il mio cuore dentro al tuo.

Lei indietreggia e tossisce un paio di volte, guardandomi interdetta.
Sorrido intenerito, ma lei non se ne accorge per via della tosse e quando si riprende mi lancia un’occhiata incollerita.

La mia strega.

Deve esserlo per forza perché solo un sortilegio giustifica degnamente il mio comportamento, me ne sono andato nel bel mezzo di una scopata soltanto per appurare che lei stesse bene. Mi rimetto in posizione eretta, scrutandola ancora una volta tetro e indispettito, poi me ne vado, ho bisogno di fare una doccia.
Sento gli occhi di Selene sulla schiena…

E, cazzo, se vorrei voltarmi e prendermi il tuo respiro, strapparti quel libro dalle mani e baciarti fino a domani.

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