4. DON'T TOUCH ME

“È nel silenzio che rimbomba
  il frastuono di un bacio mancato”.

Paulina Dyron.

Kevin posa quel viola indecifrabile su di me, mi mangia un pezzo alla volta, fino a quando non raggiunge i miei occhi. Quell’indaco purpureo stagna per un tempo interminabile nel freddo glaciale delle mie iridi, innescando la tempesta. Sono atterrita e attratta dal suo sguardo misterioso, dalle sue iridi tenebrose.
Sono completamente rapita, ammaliata, investita e soggiogata.
Un grappolo di emozioni contrastanti mi dominano, mentre lui riempie l’intera stanza con la sua altezza e la sua stazza possente. È un gigante dai muscoli guizzanti, che esprimono tutta la sua forza fisica.
È bellissimo e io mi sto sciogliendo sotto quello sguardo di fuoco e veleno, uno sguardo indecifrabile e criptato, impossibile da comprendere e da dimenticare. I miei pensieri tremano intimoriti, così abbasso le ciglia all’istante. Kevin mi fa sempre lo stesso effetto, mi attrae e mi atterrisce.
Non ho paura di lui, ma mette soggezione con tutta questa bellezza impudica.

La reazione del mio corpo alla vista del suo è istantanea, le mie mutandine si inumidiscono e il mio cuore comincia a fremere, mentre lui continua a fissarmi in silenzio. Mi costringo a parlare, a ritrovare la voce smarrita, insieme ai miei occhi, sul suo corpo definito coperto da un accappatoio nero.

«Scusa, non sapevo fossi...».

Riprendo fiato, la sua presenza mi ruba il respiro.

Indietreggio sconvolta da questa consapevolezza aberrante.
Kevin mi priva dell’ossigeno e lo raccoglie tutto intorno alla sua figura maestosa.

«Non sapevo che fossi già qui» farfuglio, quasi senza voce.

Ha appena finito di lavare i denti, posa lo spazzolino sul lavandino e chiude il rubinetto poi, con quell’aria da dominatore, si incammina verso di me.

Tremo e indietreggio ancora, intimidita dalla potenza che sprigiona il suo corpo atletico. L’accappatoio, leggermente aperto sul petto, gli aderisce addosso come una seconda pelle, modellandosi ai suoi bicipiti forti, alle spalle larghe, ai pettorali pronunciati e all’addome scolpito, avvolgendo i suoi fianchi stretti e modellati. L’idea di aprire il cinturino che lo stringe in vita guizza veloce tra i miei neuroni chiazzando le mie guance di rosso.
Come posso pensare una cosa simile quando lui vuole soltanto starmi lontano?
Ormai lo conosco, la sua lingua tagliente e biforcuta sputerà presto un’offesa delle sue.

Ma quanto, cazzo, è bello?
È ovvio che le donne gli ronzano intorno come le mosche!

Lui mi scruta intensamente in silenzio, con la ferocia di una pantera pronta a sferrare l’attacco, mentre avanza verso di me. Fissa gli occhi sul mio rossore e una nota cupa, che non avevo mai notato prima, li attraversa. Il lampo di perversione che leggo nel suo sguardo aumenta il mio tremore, ma anche il senso di libidine che percepisco tra le gambe. Arrossisco ancora, com’è possibile che un solo sguardo sia tanto eccitante e… compromettente?

Compromettente per la mia sanità mentale.

Un calore improvviso dilaga nel mio bassoventre, diffondendosi in tutto il corpo, persino sulle punte dei capelli. Kevin si ferma ad un centimetro dal mio viso e il mio sguardo non può fare a meno di soffermarsi sul suo petto umido, restando imbrigliato nelle sue linee perfette.
Non emetto un fiato, non ce la faccio, rimango lì, sospesa sul fondo dell’abisso, ad osservare l’incavo del suo collo che in una curva virile scende verso il petto seminudo, ancora velato da qualche goccia d’acqua.
Intravedo la scia di un altro tatuaggio sotto l’accappatoio, ma non riesco a capire che cosa rappresenta.
Quando deglutisce il mio cuore diviene preda di una furiosa tachicardia.

Faccio un passo indietro, per sfuggire alla passione che dirama negli angoli più profondi della mia intimità, ma vado a sbattere contro il muro.
La mia schiena aderisce contro la superficie ruvida della parete, mentre sulla pelle percepisco ogni ombra di quello sguardo impietoso. Mi sento come una vittima di fronte al suo carnefice, impotente e prigioniera della sua aura criminale.
Si ferma dinanzi a me imponendosi dall’alto del suo metro e novanta.
Vorrei sollevare gli occhi e guardarlo in faccia, affrontarlo senza paura e senza lasciarmi suggestionare dalla sua presenza, ma le mie iridi non riescono a scollarsi dal suo petto.

È così accogliente quel petto.
Chissà come sarebbe dormirci sopra, magari lasciandosi cullare dal battito del suo cuore…

Mi ridesto da questi pensieri sciocchi quando lui solleva entrambe le braccia, imprigionandomi nel suo respiro, e mi solleva il mento con l’indice, costringendomi a guardarlo negli occhi. Quel viola m’investe di nuovo, risucchia tutta la mia energia e poi la risputa in un soffio. Mi sento completamente annientata, il suo sguardo scende sulla mia bocca, sosta lì per lunghi, interminabili, minuti e io muoio. I suoi occhi mi divorano inespressivi e la mia anima si perde nel rombo assordante di un tuono. Vorrei che parlasse, che dicesse qualcosa per interagire con me, ma continua a tacere, immerso in un silenzio assoluto e assordante.

Perché se ne sta muto e immobile a fissarmi?
Perché fa sempre così?
Mi ruba l’anima con quegli occhi e poi la calpesta senza pietà.

Kevin è un libro chiuso con me, a dire il vero non mi lascia sondare neanche la copertina, mi tiene sempre distante e rifiuta qualsiasi approccio che permetta un avvicinamento tra di noi.
Eppure adesso continua a guardare le mie labbra come se fossero l’unica cosa esistente sulla faccia della terra, come se le… desiderasse.
Probabilmente mi sto illudendo.
L’unica cosa che desidera realmente è che io gli stia il più lontano possibile ed infatti, all’improvviso, tutto finisce.

Mi osserva cupo, le sue labbra si atteggiano in un ghigno canzonatorio e arrogante, poi con uno scatto brusco si allontana da me.
Ecco il Kevin che conosco, quello incapace di provare un singolo briciolo d’affetto per me, il Kevin che mi odia, mi sbeffeggia e mi ferisce. Come se fosse appena rinsavito da chissà quale follia scuote la testa e afferra la maniglia della porta con impeto. Sembra infuriato, adirato per qualcosa che non riesco a comprendere, ma non me ne stupisco perché questo ragazzo è un enigma per me.
Non capisco, però, il motivo del suo odio, non l’ho mai compreso.

Perché mi odi così tanto?
Cosa ti ho fatto per meritare tanto disprezzo?
Perché ti diverti a torturarmi, deridermi e ferirmi?
E... soprattutto, perché io mi sento morire al solo pensiero della tua bocca sulla mia?

È inconcepibile e illogico, dovrei odiarlo anch’io, reputarlo insopportabile e indegno della mia attenzione e, invece, mi basta sentire il profumo della sua colonia nell’aria e ogni mio risentimento si annulla in un rivolo di quiete. Lui mi ammansisce, spadroneggia su di me con il suo fascino maledetto e con quegli occhi tristi. Non sono innamorata soltanto della sua bellezza, amo tutto il suo essere perché so che sotto la sua corazza da duro si nasconde un animo sofferente.
Abbiamo patito la stessa sorte, l’abbiamo subita insieme.
Ecco perché non riesco ad odiarlo, ecco perché lo amo con tutta me stessa.

Ti amo da sempre e ti amerò per sempre.

Senza dire niente, svanisce nel corridoio, lasciandomi lì, in balia di quel batticuore che non riesco a frenare, in balia dei suoi occhi, del suo profumo e del suo tocco.

Un tocco fugace e clandestino, un tocco che significa tutto o forse niente, un tocco che mi ha marchiato le bocca e… l’anima.

***

Batto un pugno sulla scrivania.
Sono adirato con me stesso, con la mia debolezza e incapacità di ragionare quando mi trovo da solo con lei nella stessa stanza.
Sono stato uno stupido.

Perché mi sono lasciato andare così apertamente?

Mi sarebbe bastato solo qualche altro minuto per perdere il controllo, sbatterla contro quel muro e scoparla come un animale, perché è questo che il mio corpo brama da tempo immemore.
Sfilo l’accappatoio e resto completamente nudo.
Sono eccitato e incazzato perché, pur avendola soltanto sfiorata, il mio cazzo è balzato sull’attenti. Frustrato, e con un’erezione prorompente in corso, afferro un paio di boxer dalla valigia, ancora da disfare, e li indosso.
Ho bisogno di scopare o impazzisco.
Agguanto il telefono con un gesto nervoso e invio un messaggio ad Erika, ci siamo visti solo un paio di volte e di lei mi piacciono i lunghi capelli che, mentre la fotto da dietro, ondeggiano sinuosamente sulla schiena. Sono lunghi e neri, esattamente come quelli di Selene, mi piace afferrarli e immaginare di stringere i suoi.

Sono un pazzo e Selene è la mia psicosi.

Non riesco ad oppormi a questa pulsione carnale che mi divora e ho bisogno di sfogarla andando a letto con donne che le somigliano.
Il modo in cui il suo sguardo innocente ha scolpito la mia figura, soffermandosi sul mio petto, si schianta tra i miei pensieri.
Ho letto paura nel suo sguardo.
Selene ha paura di me e non posso darle torto.

L’ho sempre tenuta lontano da me, ma soltanto per non farle capire i miei veri sentimenti. Nascondo quello che provo per lei sotto una maschera di odio perché solo così riesco a sopravvivere a questo amore impossibile. Non posso amarla e me ne sono fatto una ragione, tuttavia, ritrovarmela nel bagno all’improvviso mi ha colto alla sprovvista abbassando le mie difese già incrinate. Ero tranquillo, sono andato a controllarla prima di andare a fare la doccia e lei dormiva quieta avvolta nella coperta che le ho messo addosso un’oretta prima.
L’ho osservata con attenzione, dilungandomi sui dettagli del suo viso.

Quando dorme sembra così fragile, eppure Selene è anche molto forte.
Ha sofferto tanto, ma ha lottato per non soccombere ai mostri del passato.
Li condividiamo quei mostri, li abbiamo conosciuti entrambi nello stesso momento e, ogni singolo giorno, sbucano dai sobborghi della memoria per invadere le nostre vite. Quello che abbiamo vissuto anni fa è stato brutale, eravamo soltanto due bambini incapaci di realizzare e metabolizzare quello che è accaduto sotto i nostri occhi.
Per Selene il trauma è stato emotivo perché qualcuno, lassù, le ha risparmiato la vista di quell’oscenità macellata sull’asfalto, per me invece il trauma è stato fisico, ho battuto la testa durante l’impatto, ed emotivo, perché ho visto tutto.
Non sono dispiaciuto per la morte di quell’uomo, il mio vero padre, verso cui provo soltanto rabbia e odio, però quel giorno mi sono spaventato a morte per Selene.
Era svenuta e io ho creduto che fosse morta.
Scaccio questo ricordo orribile e i suoi occhi di ghiaccio si materializzano nella mia mente.
C’è un’intera galassia in quegli occhi, un firmamento di stelle, un pugno di colori lucenti, come perle su un vestito nero.

Eppure sono anche freddi.
Freddi e misteriosi.
Sfuggenti e deleteri.
Fatui.
Fatui come la fiamma di una candela dentro un barattolo di vetro.

Quando me la sono ritrovata davanti, con quell’aria sbarazzina e i capelli arruffati, ho perso il controllo.
Mi costringo a starle lontano, non posso avvicinarmi a lei, non posso toccarla.

Lei è mia sorella.

Mi hanno imposto questa parentela, anche se la sento estranea al mio essere.

Una sorella non si ama nel modo in cui io amo te, non si desidera come un assetato del deserto agogna l’acqua, perché tu sei la mia acqua nel pieno di una siccità, una sorgente pura e incontaminata, una sorgente posta su un dirupo, irraggiungibile e inafferrabile. Non potrò mai dissetarmi di quelle acque cristalline, la mia sete è destinata a restare insoddisfatta perché è da pazzi amare la propria sorellastra.
È da pazzi amare te, Selene.

12 ANNI PRIMA...

«Mamma…» la vocina esile di Kevin richiamò l’attenzione di Carola, che abbassò lo sguardo su suo figlio.
«Dimmi, tesoro» rispose, con tenerezza.
Carola amava il suo bambino, anche se il suo arrivo inaspettato aveva cambiato la sua vita. Tuttavia, non aveva rinunciato alla sua carriera di promettente architetto, si era data da fare subito dopo il parto e aveva potuto farlo anche grazie all’aiuto di Roberto. Si erano innamorati due mesi dopo il concepimento di Kevin, lo aveva scoperto da poco e il mondo, in quel momento, le era crollato addosso. Era stata insieme ad Alessandro soltanto una volta, aveva commesso quell’errore lasciandosi trasportare dall’euforia del momento, pentendosene subito dopo. Lui era un uomo sposato e, oltretutto, era il titolare dello studio dove aveva cominciato a lavorare per avviare la sua carriera. Alessandro Colonna era uno dei più rinomati architetti di Roma e aggiungere quell’esperienza lavorativa al suo curriculum le avrebbe garantito ottimi sbocchi professionali.
Non aveva premeditato di andare a letto con lui.
Certo, Alessandro era sicuramente un uomo attraente e affascinante, aveva uno sguardo particolarmente intenso e magnetico, ma non era nei suoi piani invaghirsi di un uomo, in quel periodo voleva soltanto perseguire i suoi obiettivi professionali. Quando quella sera erano rimasti da soli in ufficio, esaltati per il nuovo contratto appena firmato e annebbiati da una bottiglia di vino che avevano condiviso soltanto in due, si erano ritrovati avvinghiati l’uno all’altra. Un mese dopo aveva scoperto di essere incinta ed era scappata via, si era licenziata e se n’era andata, facendo perdere le sue tracce. Non aveva alcuna intenzione di dire ad Alessandro che sarebbe diventato padre, non era innamorata di lui e non voleva distruggere la sua famiglia, tanto più che, proprio in quei mesi, stava recuperando il rapporto con la moglie.
Poi aveva conosciuto Roberto ad un meeting di lavoro, accompagnava una coppia che richiedeva i suoi servigi di architetto per un antico casolare di loro proprietà che volevano ristrutturare.
Era stato amore a prima vista.
Roberto era molto attraente, i suoi occhi chiari emanavano un fascino intellettuale e ammaliante, aveva i capelli brizzolati, sempre perfettamente pettinati, solo qualche ciuffo ribelle gli incorniciava il volto virile, e una bocca seducente. Vestiva sempre elegante, con colori chiari tendenti al marrone. Un look che rischiarava il suo sguardo gentile e catturava l’attenzione, come un cielo azzurro che si stagliava nel deserto.
Era professore di astrofisica all’università di Roma.
Subito dopo il meeting le aveva chiesto un appuntamento, ma lei aveva rifiutato. Non se la sentiva di intraprendere una relazione sentimentale, soprattutto con un bambino in arrivo che nessun uomo avrebbe accettato. Ma Roberto era stato caparbio e si era recato varie volte allo studio dove lavorava, voleva conquistarla ad ogni costo. Non andava mai da lei a mani vuote, portava con sé sempre un piccolo dono che le lasciava sulla scrivania prima di andarsene, un cioccolatino, una rosa rossa, una boccetta di profumo. Di primo acchito la cosa le era parsa bizzarra, ma in seguito aveva compreso che l’altruismo era una caratteristica predominante del suo carattere. A Roberto piaceva donare, ma, soprattutto, donarsi.
Così, dopo l’ennesima visita, aveva deciso di accettare il suo appuntamento e, durante la cena molto galante che aveva prenotato per loro in uno dei ristoranti più esclusivi della città, Carola aveva raccolto tutto il suo coraggio e gli aveva spiegato il reale motivo del suo rifiuto.
Aspettava un bambino.
Un bambino di cui il padre non era neanche a conoscenza, ma questo lo tenne per sé, non lo confidò a Roberto.
Dopo aver sputato tutta la verità in faccia a quell’uomo che, per quanto buono e gentile, era pur sempre uno sconosciuto, si aspettava la sua fuga e invece lui l’aveva stupita, ancora una volta.
Si era alzato dal suo posto e si era inginocchiato ai suoi piedi, poi le aveva chiesto di diventare sua moglie. Questa reazione inaspettata aveva lasciato Carola interdetta e stupita, si sarebbe aspettata qualunque cosa, persino una sfuriata, ma non una proposta di matrimonio. Incredula, era scoppiata a ridere, ma non aveva accettato, era troppo presto, non lo conosceva ancora.
Si erano sposati dopo la nascita di Kevin, con una cerimonia molto intima.
Roberto era un uomo fuori dal comune, considerava Kevin suo figlio e si comportava come se fosse il suo vero padre, per questo non aveva mai detto a suo figlio che suo padre era un altro uomo. Aveva risparmiato quell’amara verità al suo bambino per preservarne la tranquillità almeno durante i primi anni di vita. Glielo avrebbe confessato una volta cresciuto, quando sarebbe stato in grado di capirla senza cadere nel pregiudizio. Ma purtroppo Roberto l’aveva lasciata troppo presto, la leucemia se l’era portato via e lei, sola e spaventata, era corsa dall’unico uomo che in quel momento avrebbe potuto aiutarla, Alessandro. Forse stava commettendo una pazzia, non aveva neanche rivelato a Kevin che l’uomo che aveva appena conosciuto era il suo vero padre, ma in quel momento sragionava, non era in sé, era spaventata.
Si sentiva impotente e incapace, ma, soprattutto, sola.
Erano appena andati via da quella casa ma, seppur soltanto un bambino di cinque anni, Kevin sentiva che sarebbero ritornati presto.
«Chi è quella bambina?» domandò, con una punta di imbarazzo, non voleva che sua madre intuisse ciò gli aveva suscitato.
In realtà non sapeva dare un nome alle emozioni che provava quando ripensava ai suoi occhi luminosi, sapeva soltanto che si sentiva legato a lei da un sentimento sconosciuto, qualcosa di troppo grande per un bambino di soli cinque anni.
«È tua sorella» lo informò Carola, mimando un sorriso tenue.
Sua sorella?
Lui non aveva una sorella!
«Non è mia sorella!» aveva protestato Kevin.
Lui era sempre stato solo, non aveva fratelli, era figlio unico.
«Sì che lo è, amore!» insistette sua madre, «Avete lo stesso padre».
Lo stesso padre?
Selene, questo era il nome della bambina, era la figlia di Alessandro Colonna, non di Roberto.
Suo padre era Roberto.
Carola si era zittita un momento per fissare la strada, poi lo aveva preso per mano e avevano attraversato dall’altra parte.
«Vedi, tesoro, Selene è stata adottata da tuo padre e sua moglie quando aveva un anno, anche lei è sua figlia, esattamente come te!».
Kevin ancora non riusciva a capire il suo discorso. Sua madre gli stava forse dicendo che Alessandro Colonna era suo padre?
No!
Non poteva essere vero, stava mentendo.
Quell’uomo non era suo padre.
«Roberto è mio padre…» ribatté, con voce fioca.
Udendo le sue parole Carola si fermò all’improvviso.
Erano sul marciapiede ora, le auto procedevano lente nel traffico cittadino e alcune persone li superavano per proseguire la loro strada.
Carola si accovacciò a terra per guardarlo bene negli occhi. Prese il suo visetto piccolo tra le mani e lo costrinse a voltarsi verso di lei. Aveva un’espressione contrita stampata sul volto e un velo d’angoscia nello sguardo.
«No, tesoro. Roberto era il tuo patrigno, Alessandro Colonna è il tuo vero padre» asserì, con una carezza.
«Patrigno? Che cos’è un patrigno?» aveva chiesto lui, di rimando.
Non gli piaceva quella parola, sembrava cattiva.
Carola si rialzò in piedi e lo prese di nuovo per mano.
«Capirai tutto quando sarai un po’ più grande, tesoro mio. Su, andiamo!» lo spronò, riavviandosi per raggiungere l’auto che avevano lasciato in un parcheggio pubblico, poco distante dalla casa dei Colonna.
Alessandro era suo padre.
Roberto era il suo patrigno.
Selene era sua sorella perché era stata adottata da suo padre.
Era un discorso troppo complesso e contorto per essere compreso da un bambino.
Kevin, ora, aveva una nuova consapevolezza, cruda e amara come il veleno, quella bambina che gli aveva trafitto l’anima era sua sorella.

Mi vesto di fretta, poi indosso le cuffie e mi getto sul letto. Ho bisogno di oscurare i pensieri, di allontanare questo desiderio malato che mi tortura dal primo istante in cui l’ho vista.
Prometto a me stesso di non cadere più in tentazione, poi la notifica di un messaggio illumina il display del mio telefono. È Erika, mi informa che ha casa libera e io, da perfetto pervertito quale sono, non riesco a fare a meno di sorridere soddisfatto.
Rispondo al suo messaggio, dicendole che la raggiungerò per l’ora di cena, ma non rispondo a quello successivo.
Non ho voglia di scrivere stronzate, di illudere le donne.
Io fotto e basta.
Ho bisogno di stringere tra le dita quei lunghi capelli neri, per perdermi e poi ritrovarmi nell’ombra lontana di Selene.

Perché sei soltanto tu l’unica con cui ogni volta faccio l’amore.

***

Esco dalla mia camera soltanto all’ora di cena.
Sapere che c’è anche lui in casa mi turba e ho preferito rinchiudermi nella mia stanza come una prigioniera, piuttosto che rivivere il suo disprezzo. Forse sono una vigliacca, ma non voglio continuare ad essere succube del suo veleno.
Ho trascorso il resto del pomeriggio a chattare con Carmen.
Mi ha chiesto se volevo accompagnarla al centro estetico, doveva rifarsi le unghie, ma ho declinato l’invito perché ero troppo intontita per uscire.
Dopo essermi risvegliata sono passate circa due ore prima che riacquistassi pienamente la lucidità, ma adesso mi sento meglio. Metto lo sformato di patate e prosciutto nel microonde e apparecchio la tavola per due.
Mi si aggroviglia lo stomaco al pensiero di cenare da sola con lui.
È passato tanto tempo dall’ultima volta che è successo, ci teniamo sempre a debita distanza l’uno dall’altro, tranne quando mia madre e Carola organizzano gite, cene e varie attività di famiglia in cui siamo costretti a passare del tempo insieme.
Il solito senso di frustrazione mi colpisce con un pugno al petto, è sempre così quando si tratta di lui.

Quando si tratta di noi.

Non ho mai compreso il suo rifiuto verso di me e non lo capirò mai.
Decido di andare a chiamarlo, anche se sono tentata di mandarlo a letto senza cena. Se lo merita dopo il modo in cui mi ha trattato oggi pomeriggio. È soltanto uno sbruffone, un presuntuoso che si diverte a provocarmi. Lo ha fatto apposta per ferirmi, si è avvicinato a me per dimostrare la sua predominanza sulle donne e poi se n’è andato perché la mia vicinanza lo disgusta.

Che verme!

È un seduttore nato, ma se pensa che mi basta una carezza per cadere ai suoi piedi si sbaglia di grosso.
Cosa vuole dimostrare?
Che tutte le donne, persino io, gli cedono soltanto alitandogli in faccia quel dannato respiro di menta e tabacco?
Il solo pensiero però, mi rimescola lo stomaco.
Probabilmente è così, gli basta sfiorare una donna affinché ceda al suo volere.
Attraverso il corridoio che conduce alla sua stanza di corsa, decisa a bussare una sola volta. Se continua ad ignorarmi tanto meglio, ma non faccio in tempo perché la porta si apre e mi ritrovo il suo petto ad un millimetro dal viso.
Il suo profumo assale le mie narici, inerpicandosi tra le mie sinapsi e mandandole completamente in tilt.
Lo osservo tutto.
Indossa un jeans scuro, strappato sulle cosce, e un dolcevita nero aderente.

Cristo santo!

Mi incanto ad osservare le sue gambe lunghe, toniche e muscolose, fasciate da quel pantalone aderente che non lascia niente all’immaginazione e, involontariamente, mi soffermo sul cavallo dei jeans, esaminando l’evidente protuberanza.
Arrossisco imbarazzata e attraverso il suo addome piatto con lo sguardo, quel maglione si attacca ai suoi addominali come una seconda pelle, poi risalgo fino al suo volto, infrangendomi sulle sue labbra.
Ha il respiro affannoso, come se l’avessi spaventato, così sposto gli occhi nei suoi e noto che mi sta fissando la bocca, di nuovo.

«Hai finito di farmi la radiografia, Sailor Moon?» chiede, con la sua solita aria strafottente.

È infastidito dalla mia presenza, ne sono certa, poi le sue pupille incandescenti slittano come un leopardo in agguato nelle mie, catturandole nelle macchie nere del suo manto. Solleva un sopracciglio, la sua mascella si contrae in una smorfia di disappunto e il suo cuore accelera i battiti, riesco a percepirli distintamente in questo silenzio assordante.
Indietreggio d’istinto, sospesa in una dimensione parallela.

Perché appena ti vedo mi si serra la gola?

Mi sento una stupida, una ragazzina che non è capace neanche di respirare.
Il suo profumo mi avvolge.
Sospiro, recuperando le corde vocali che ogni santa volta smettono di funzionare.

«È pronta la cena» sussurro, impacciata.

Perché mi fai sempre questo effetto?
Maledizione!
Mi sgretoli con un solo sguardo e mi uccidi con un’occhiata.

Si schiarisce la voce, ma non serve a nulla, è sempre roca e sensuale, ogni volta che apre bocca sembra che stia per fare l’amore o che abbia appena finito di farlo.

«Non ho fame!».

Ed eccolo lì, pronto a digiunare pur di evitarmi come se io non fossi altro che il germe di una peste nera pronto a contagiarlo.

«Come vuoi!» rispondo, ormai rassegnata al suo atteggiamento scostante.

Continuiamo a fissarci per un tempo indefinito, poi parla di nuovo e rompe l’incantesimo.
Il mio incantesimo perché per lui è sicuramente un incubo.

«Vuoi restare lì impalata per tutta la sera? Spostati!» tuona brusco, e mi supera con una gomitata leggera. Non mi ha fatto male fisicamente, ha fatto piano come sempre, pero mi fa male l’anima.
Un senso di rabbia misto a frustrazione si impossessa di me.
Ma perché deve essere per forza scortese?

Che stronzo!

Attraversa il corridoio che porta al salotto e indossa la giacca di pelle nera appesa all’attaccapanni.
Sta uscendo?
Dove deve andare?
Io questo ragazzo non riesco proprio a capirlo, ma se crede di farla franca anche questa volta si sbaglia di grosso.

«Ti piace torturarmi, non è vero? Ti rende felice, ti fa sentire più... maschio?» lo provoco, in tono tagliente.

Non mi importa niente della sua reazione, voglio soltanto ferirlo con le parole.
Kevin sbatte le palpebre confuso, solo per un breve istante però, poi le sue labbra si atteggiano in un ghigno di derisione.
Non si aspettava questa reazione da parte mia, ma ha prontamente recuperato la sua solita arroganza.

«Torturarti?» domanda a sua volta, con il tono affilato e la voce melliflua.

La sua voce profonda e leggermente graffiante mi colpisce in pieno petto, facendolo vibrare. Gli basta una sola parola per far traballare le mie certezze e dissolvere il mio coraggio.

«Sì, torturarmi!» confermo.

Le lacrime mi pungono gli occhi e la voce trema, ma contengo la mia crisi di rabbia, non voglio dargli la soddisfazione di vedermi piangere.
Lui ride sarcastico.

«Ti piace prendermi in giro?» insisto, seriamente infastidita dalla sua insensibilità, ma non ottengo risposta.

«Perché?» mi sento pronunciare.

Non ho posto realmente questa domanda stupida, vero?

Sono soltanto un’ingenua.
Lui è furbo, sa come manovrare una donna, non mi darà mai una risposta sincera perché è cattivo e gli piace pugnalarmi con la sua lingua di fuoco.
Lo vedo raggiungermi in due falcate e abbassare il volto sul mio, mi respira sulla bocca e il mio ventre si aggroviglia in una miriade di piccoli tintinnii dorati.

«Perché... potresti farti male, Selene!» sussurra piano, fissando le mie labbra.

Il luccichio dissoluto che leggo nel suo sguardo mi tramortisce, privandomi dell’aria.
Un sussulto silenzioso smuove il mio petto e una sensazione di calore languido scivola sul mio slip. Quegli occhi continuano ad inchiodarmi, mentre passa la lingua sulla sua bocca carnosa, inumidendola di saliva. La fisso, vorrei assaggiarla, morderla e sentire il suo sapore.
Stringo le cosce, per placare la sensazione insolita e piacevole che mi affligge il bassoventre, e lui lo nota perché un sorrisetto perverso compare sul suo viso.

E fammi male allora, perché tutto il male che mi farai tu è il bene più bello del mondo.

Ci trafiggiamo lungamente con un duello di sguardi, poi, improvvisamente, mi volta le spalle, apre il portone e scompare nella notte con un tonfo di legno battente.
Se n’è andato.
Kevin se n’è andato, lasciandomi dentro una guerra.
Sono perduta e stanca, stravolta e affranta.
Perché scappa sempre da me?
Conosco già la risposta, perché lui mi odia, mi odia a morte. 

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