Epilogo: Dawn of a new world (2)

Epilogo: Dawn of a new world (2)

Raggiungere la sede dell'FBI non si rivelò semplice. Fu necessario rintracciare Giles, rimasto con loro dopo l'operazione, ed egli dovette ottenere il permesso di rivelare loro l'indirizzo; una volta arrivati, furono scortati da due agenti nerboruti e armati di tutto punto.

La struttura scelta era un palazzo a tre piani spacciato per la redazione di un giornale locale. Il motivo di tanta segretezza era palese: data la criticità della situazione di Phoenix, la popolazione si sarebbe riversata addosso ai federali se avessero saputo dove trovarli, inoltre adesso avevano in mano il virus, la cura e il sangue degli Smith, sostanze in grado di cambiare il mondo.

E poi avevano una nuova Madre. Il suo nome era...

Vincent, Marika e Neville furono scortati attraverso un lungo corridoio bianco, arredato solo con sporadici attestati e piante che imploravano di essere annaffiate; ai lati era un susseguirsi di porte di uffici, da cui provenivano rumori elettronici di stampanti e computer. Superata quella prima zona si trovarono in una grande hall circolare, con al centro una scrivania dal design moderno, alla quale stava una giovane segretaria dai capelli rossi e il viso coperto di efelidi. Si voltò verso di loro quando li vide arrivare e mise da parte il laptop a cui stava lavorando, assumendo un'aria professionale.

Da una delle porte dietro di lei, quella più vicina ad un grande acquario ricco di colori, fece il suo ingresso Giles. Aveva i capelli più disordinati del solito, gli occhi cerchiati di occhiaie ma, in generale, un'aria soddisfatta.

Vincent provò l'irresistibile tentazione di spaccargli tutti i denti con un pugno. Ad ogni dente rotto cento punti, come nei videogiochi che piacevano tanto a Fanny.

Passò oltre la segretaria senza degnarla di uno sguardo, a passo di marcia e con i pugni stretti; quando lo raggiunse, lo aggredì immediatamente a parole «Si può sapere cos'è questa storia? Fanny Madre? Cosa cazzo hai fatto, Giles?!»

L'albino, incrociando le braccia al petto, lo rimbeccò acidamente «Abbassa la voce, Black. Siamo in un ufficio.»

Aveva intenzione di prenderlo in giro? Vincent lo fulminò con uno sguardo furioso «Abbassa la voce lo dici a uno di quei pezzi di merda per cui ci hai traditi, Morgan. E ora rispondi alle mie domande.» ma prima di dargli tempo di rispondere, lo incalzò «Dov'è Fanny?»

«La nuova Madre non può ricevere visite al momento.» alla sua sinistra, dalla stessa porta da cui era uscito Giles, apparve Violet Alraven.

Lei, quella dannata donna, quella che lo aveva travolto e trascinato nell'abisso. Vincent la fissò a lungo, con odio e ribrezzo, come se avesse desiderato che un suo solo sguardo potesse trafiggerla a morte.

«Che cosa le avete fatto?» urlò, fuori di sé, mentre Marika e Neville lo raggiungevano «Fanny non è il tipo che si espone. L'avete obbligata voi, vero? È per questo che l'avete tenuta qui la notte dell'operazione, sapevate che con la morte di Lacey gli infetti sarebbero impazziti e vi serviva una sostituta il prima possibile!»

Violet alzò una mano e la sventolò come se stesse scacciando una noiosa mosca «Niente di tutto ciò, Black. Stai vaneggiando. Sicuro di non essere uscito dall'ospedale troppo in fretta?»

Ma prima che il ragazzo potesse metterle le mani addosso, Giles richiamò la sua attenzione «Quando sei svenuto, questi due ti hanno portato in ospedale. Io invece sono stato condotto qui, dove ho consegnato il sangue di Lacey Smith e la HEINE91. Saputo della morte di Jonathan, Alicia e Shaun e delle tue condizioni, Fanny ha autonomamente deciso di assumersi questa responsabilità.»

«E tu non hai fatto niente per impedirglielo?!» la spiegazione riuscì solo a far dare ancor più di matto Vincent, che prese Giles per il maglione e lo strattonò «Non solo prima mi lasci a marcire là sotto, hai anche tradito tutti, tradito tua sorella! Mio fratello ha fatto l'impossibile per salvarmi, e tu hai voltato le spalle a Fanny in questo modo! Che razza di uomo sei, Giles?!»

Vincent sentì le mani di Marika tirarlo indietro per le spalle e la sua voce sussurrargli all'orecchio «Vincent, per quanto tu abbia ragione, ora devi calmarti...»

«Calmarmi? Al massimo chiedimi di graziargli la vita quando avrò finito!»

«Ora basta, Black.» Violet con un cenno diede l'ordine ai due agenti che li avevano accompagnati di bloccare il ragazzo. Questi, senza alcuna difficoltà, lo allontanarono da Giles e lo immobilizzarono.

Neville diede segno di voler fare qualcosa, ma Marika bloccò ogni suo tentativo sul nascere: agire in quel momento significava giocarsi quel poco di possibilità che avevano di scoprire di più sulle condizioni di Fanny.

«Sei ancora sconvolto dalla perdita di Jonathan.» con un gesto veloce, Giles inforcò gli occhiali e se li sistemò sul naso «Non vedi le potenzialità della coraggiosa scelta di mia sorella.»

Vincent aveva rinunciato a ribellarsi, i buttafuori erano troppo forti per lui, ma avvertì la rabbia salire quando realizzò il vero obiettivo del suo amico d'infanzia «Potenzialità? Quindi è questo tutto quello che vedi, l'occasione di studiare più da vicino il virus H? Che comodità avere una sorella Genitore, eh?»

«Sicuramente lo è, per uno scienziato.» confermò l'altro «Sono orgoglioso di lei e darò il meglio di me per aiutarla in qualsiasi modo. Ripeto, Fanny si è rivelata molto coraggiosa, al contrario di una persona che aveva scelto di mandare al diavolo il sacrificio dei suoi amici.»

Vincent non poteva credere alle sue orecchie. Quel colpo basso non poteva davvero venire da qualcuno che tanto lo aveva aiutato, che così spesso in quegli anni gli aveva offerto una spalla su cui piangere e che lo aveva difeso dalle aggressioni di Jonathan. Giles, quello stesso Giles che lo aveva sostenuto dall'inizio... adesso gli sembrava un mostro, un umano che ha abortito la capacità di provare emozioni in favore di... di che cosa?

Neanche Marika seppe più trattenersi, travolta dal disgusto verso il loro ex alleato «Almeno Vincent non se l'è data a gambe con la scusa di dover consegnare quella roba.»

«Oh, credetemi: Hound è eccezionale nel darsela a gambe.» s'intromise Violet, tagliando corto quella discussione che altrimenti sarebbe continuata per le lunghe «Fanny Morgan sarà sotto la custodia dell'FBI fino a data da stabilirsi, non permetteremo a niente e nessuno di minacciarla. Quando si sarà stabilizzata, vi sarà permesso vederla.»

Marika sbarrò gli occhi «Che significa "stabilizzata"?» mormorò, temendo la risposta.

«Il passaggio da non infetta a Madre non è certo dei meno traumatici, il suo corpo impiegherà un po' di tempo per abituarsi alla nuova condizione.» illustrò Violet, professionale e precisa, come se stesse parlando di una cavia e non di un essere umano «Adesso scusateci, ma abbiamo parecchio da fare. Ragazzi, mostrate ai nostri ospiti quella meravigliosa pianta tropicale all'ingresso.»

Mentre i due buttafuori tentavano di trascinare via i tre, Giles si avvicinò a Vincent e sottovoce bisbigliò, stavolta con una voce più simile a quella dell'aspirante scienziato che era cresciuto con lui e Fanny «L'ha fatto per tutti, ma soprattutto per te.»

Vincent avrebbe voluto urlare. L'aveva fatto per farlo svegliare, per essere sicura che sarebbe stato bene. Si era sacrificata, era stata sacrificata in un modo così meschino e disumano; era tutto troppo ingiusto. Quante cattiverie aveva dovuto affrontare, la debole Fanny, e ancora una volta il destino le era stato avverso.

Le parole di Lacey su ciò che era successo a coloro a cui era stato iniettato il virus tornarono vivide nella mente di Vincent, che gridò mentre veniva allontanato «Due anni, Giles! Te lo hanno detto che lei morirà tra pochi anni?!»

La sua più grande soddisfazione, e al contempo il più grande orrore, fu lo shock che si dipinse sul volto dell'albino in quel momento.

***

Neville e Marika non sapevano più cosa fare per calmare Vincent.

Dopo esser stati buttati fuori dalla sede dell'FBI, non avevano avuto altra scelta, dal momento che Vincent si era fatto dimettere dall'ospedale, che prendere la metropolitana per tornare a casa Black, dove entrambi gli amici avevano intenzione di alloggiare a tempo indeterminato.

Phoenix, benché sprofondata in una irreale cappa di immobilità e quiete, rimaneva un luogo pericoloso, dove la gente era restia a uscire di casa.

Le strade di Phoenix, teatro di guerriglia urbana due notti prima, erano ora deserte e fredde di aria notturna, qualche debole goccia di pioggia ed un crescente strato plumbeo in cielo minacciavano l'arrivo di un temporale.

Mentre tornavano a casa, Vincent spiegò agli amici gli effetti collaterali che il ceppo madre del virus aveva se impiantato a persone non infette; la crudeltà del destino di Fanny gli aveva reso impossibile trattenersi oltre.

I tre si affrettarono a rincasare, silenziosi, amareggiati e arrabbiati; Vincent dei tre era quello più visibilmente scosso, vagava con sguardo spento sui visi dei suoi amici, ma i suoi pensieri erano tutti rivolti alla piccola Fanny. Neville avrebbe voluto fare qualcosa per aiutarlo in quel momento nerissimo, dove quasi tutte le persone che amava gli erano state strappate o lo avevano tradito. Non riusciva a immaginare che cosa provasse, tantomeno cosa fare se non restargli vicino.

Una volta in casa, nel buio salone immerso nella penombra e nell'aria stantia, Vincent gettò il suo zaino per terra e spalancò le tende dei finestroni, lasciando che le accecanti luci della città invadessero la stanza, mentre Marika si accomodava sul divano e Neville rimaneva in piedi, un po' in imbarazzo.

Titubante, il moro si avvicinò all'amico e chiese cauto «Che cosa faremo d'ora in poi?»

Quelle parole furono seguite da un lungo e gelido silenzio, più eloquente di qualsiasi risposta. La verità era che tre ragazzini di diciannove anni, soli e senza alcun potere, non potevano fare niente, solo continuare a vivere nell'ombra di chi aveva le redini del gioco. Loro non erano i protagonisti di chissà quale romanzo o manga in cui una banda di adolescenti salva il mondo.

A spezzare il filo delle loro paure fu il telefono di Vincent, che iniziò a suonare Smooth Criminal. Il ragazzo lo estrasse dalla tasca del cappotto, senza nascondere la speranza che fosse Giles a chiamarlo per avvertirlo di aver portato via Fanny da quell'inferno, ma sul display compariva un nome ben diverso: mamma.

L'ultima volta che aveva sentito Liza era stato prima dell'operazione al Naughty Sunday.

«Qualcuno ha già avvertito mia madre di tutto?» chiese con un filo di voce, sterile nel tono.

Marika annuì «Sì, l'ho fatto io. Non sa niente del virus, le ho detto che siete rimasti coinvolti nell'esplosione di una bomba e Jonathan non ce l'ha fatta.»

Naturalmente però Liza non sapeva che era stato dimesso dall'ospedale, o forse sì, dato che chiamava al cellulare. Il bruno si scusò con gli altri due, prese lo zaino e si diresse verso la propria camera. La trovò spenta e buia come l'aveva lasciata, con la vista sull'abisso che conosceva come le sue tasche. Fuori pioveva, il cielo era ancor più buio di prima.

Non ricordava più l'ultima volta in cui quella stanza era stata usata da un comune universitario, la cui maggiore preoccupazione era dare almeno due esami a sessione. Adesso era un luogo di verità nascoste, paure dilanianti, allucinazioni e ombre che si allungavano.

Abbassò tutte le fotografie che mostravano Jonathan e Thomas e si sedette sul letto, scorrendo sulla stoffa alla ricerca di una quotidianità perduta per sempre. Solo allora richiamò Liza, insicuro se sarebbe stato in grado di reggere la conversazione ma comunque ansioso di parlare con sua madre.

Ella rispose quasi immediatamente «Vincent?» dal tono con cui aveva chiamato il suo nome, Vincent immaginò che se fosse stata lì lo avrebbe stretto a sé con troppa foga.

«Sono qui.» confermò, e sentì il suo fiato spezzarsi per l'emozione.

«Grazie a Dio. Ho chiamato in ospedale e mi hanno detto che ti avevano dimesso. Ora dove sei?»

Un'interferenza distorse le sue ultime parole, ma Vincent riuscì comunque a riformare il discorso «Sono a casa.»

«Sei da solo?»

«No. Ci sono Marika Starson e un mio amico, Neville Lance. I genitori di entrambi non sono a Phoenix, perciò abbiamo deciso che rimarranno qui per un po'. Per... non lasciarmi solo.» spiegò, lentamente, sentendosi improvvisamente solo.

«Vincent, io...» la voce di Liza si era ormai ridotta a uno squittio, come accadeva sempre prima che scoppiasse a piangere, e così accadde di lì a poco.

Vincent poteva quasi immaginarla seduta al tavolo della cucina, il lacrime e disperata per la perdita di un figlio, in pensiero per l'unico dei suoi bambini rimastole e per l'uomo che aveva abbandonato, adesso in bilico tra la vita e la morte. Una famiglia a pezzi, ma soprattutto lontana e irraggiungibile. Doveva essere straziante per lei. Non aveva mai provato tanta pietà per sua madre.

«Non c'è bisogno che ti sforzi.»

«No, Vincent, questo non è importante.» annaspò la donna «L'importante è che almeno tu stia bene, tesoro. Almeno tu...»

Vincent tirò su col naso e si sdraiò sul letto, affondò la testa nel cuscino; sperava che il buio celasse la lotta con se stesso per mantenere il controllo, già persa in partenza.

«Jonathan è morto.» disse, una verità brutale che ancora non riusciva ad affrontare; sentì gli occhi inumidirsi e si girò su di un fianco, incapace di stare fermo «E papà è in coma.»

«Tuo padre si sveglierà, tesoro.» gli assicurò lei, stranamente convinta ed asciugandosi le lacrime «E tuo fratello... tuo fratello era il miglior ragazzo del mondo, Vincent. Devi essere fiero di lui e non dimenticarlo mai.»

«Sì...» un sussurro solo, Vincent trovò finalmente il coraggio di ammetterlo «Lui non ha tradito nessuno, fino alla fine.»

Forse quelle parole sarebbero suonate un po' strane a Liza, ma Vincent, una volta ripresosi dalle emozioni del momento, aveva capito che Jonathan aveva solo fatto quel che chiunque avrebbe fatto al suo posto: lo aveva protetto e perdonato, ed era poi rimasto con la persona che amava. Per un anno era scomparso dalle loro vite, ma nel momento peggiore aveva salvato entrambi, Vincent dalla morte e Lacey da se stessa.

Vincent poteva solo sperare che fosse morto felice; egoisticamente, però, lo rivoleva indietro. Rivoleva suo fratello. Si lasciò scappare un singhiozzo.

All'altro capo della linea, sentì Liza trattenere il fiato «Verrò a prenderti.» affermò.

Che sciocchezze! Una sottile risata carica di amarezza risalì la gola di Vincent «Non fare stupidaggini. Non sono solo, te l'ho detto. E poi non posso andarmene finché papà non si sveglia.»

Entrare nella zona di quarantena non era facile, Neville stesso c'era riuscito solo grazie a un invidiabile colpo di fortuna. Vincent non aveva ancora riflettuto su quanto la vita sarebbe diventata difficile da quel momento: come avrebbe fatto ad affrontare i problemi di ogni giorno? Come si sarebbe mantenuto? Come avrebbe pagato le tasse e le bollette? Come si stirava una camicia?

Dopo un lungo momento di tristezza e solitudine, sua madre lo chiamò, dolce e gentile; quel tono gli ricordò le volte in cui gli raccontava fiabe magnifiche prima di andare a dormire «Vincent, voglio parlarti di una cosa.»

Il silenzio bastò come cenno d'assenso.

«Io e tuo padre non ti abbiamo dato la miglior infanzia possibile. Ci siamo accorti di non amarci più poco dopo la tua nascita, e nonostante gli sforzi siamo durati poco come coppia. Abbiamo cercato di farvelo pesare il meno possibile, ma abbiamo fallito. Avevi ragione quando dicevi che siamo stati egoisti, ma voglio che tu sappia una cosa: benché non siamo più una famiglia, niente potrà toglierti il ricordo dei bei momenti passati con noi. Forse sono pochi, ma speciali. Niente potrà mai cancellare il nostro amore per te. Io e tuo padre ti amiamo più della nostra vita, tu sei la nostra vita. E lo sarà per sempre anche Jonathan. Qualunque cosa accada, tu non sarai mai solo, avrai sempre me e tuo padre.»

Vincent ebbe un tuffo al cuore che gli fermò il respiro. Qualche lacrima macchiò il piumone. La mano destra, che stringeva strettamente il telefono, tremava leggermente.

«Tu sei un ragazzo introverso, chiuso e confuso. Ti sei sempre tenuto tutto dentro e hai percorso strade sbagliate, ma sei ancora in grado di tornare su quella giusta, perché sei anche una persona buona e gentile. E nessuno meglio di tua madre lo può sapere, credimi. Anche tuo padre è un uomo splendido, con un carattere molto simile al tuo; ho parlato con lui mentre eri qui a Seattle, mi ha confidato di aver paura di non essere stato un buon padre per te. Che tu abbia frainteso i suoi insegnamenti: il mondo è pieno di cose brutte, Vincent, ma ciò non significa che non se ne possano creare di belle. Noi non abbiamo mai provato a illuderti che sarebbe stato facile, devi combattere per i tuoi sogni, piangere quando ne hai bisogno e appoggiarti ai tuoi cari se il peso sulle tue spalle è troppo grande. Non hai bisogno di essere perfetto: sei già speciale per chi ti ama, e questo basta e avanza.»

***

Vincent Black aveva sbagliato tutto, aveva frainteso tutto, aveva buttato diciannove anni di vita in cerca di fantasmi creati dal suo cervello, non poteva crederci. La soluzione era sempre stata lì, alla base di tutto, in un discorso che non aveva mai affrontato né con Liza né con Thomas.

Ora era tutto dannatamente più sensato. Non si era mai sentito così simile a suo padre, pieno di parole difficili da pronunciare. Buttò fuori ogni emozione nell'ennesimo, ultimo fiume di lacrime, stavolta non disperato come quello di due notti prima, ma emozionato e commosso.

Il suo cuore batteva forte: era senza dubbio il discorso più bello che gli avessero mai fatto.

Non si era mai sentito così speciale in vita sua. Capì di aver fatto bene a seguire Neville, ad aver dato un'altra chance al futuro, perché se non lo avesse fatto non avrebbe mai sentito quelle parole. Non avrebbe mai realizzato il senso di tutto il suo peregrinare interminabile.

Per la prima volta, Vincent realizzava di essere insostituibile. Aveva trovato il suo posto nel mondo e non aveva avuto bisogno di strapparlo o condividerlo con altri: era suo di diritto, lo aveva aspettato sin dalla nascita.

Nessun altro avrebbe mai potuto essere Vincent Black. Adesso sì che sapeva di essere insostituibile.

Poteva affermare di aver cominciato finalmente a vivere in quell'esatto momento. Sorrise e, imbarazzato, mormorò «Grazie, mamma. Ora ho capito.»

Quando, circa dieci minuti dopo, chiuse la conversazione, Vincent si alzò dal letto e raggiunse la borsa nera che aveva scaricato vicino alla porta; l'aprì e cercò il portafoglio. Ne estrasse una fiala trasparente, colma quasi fino all'orlo di sangue.

Sull'etichetta era scritto Edmund Schimtz. La strinse in mano, fissandola intensamente. Che cosa avrebbe dovuto farne? Stava per tornare al piano di sotto, quando il suo cellulare squillò un'altra volta; a telefonargli stavolta era un numero privato.

Vincent si fermò sull'uscio, tutt'un tratto insicuro, fissando l'apparecchio stretto nella sua mano e illuminato diagonalmente da un fascio di luce. Accettò la chiamava e lo avvinò all'orecchio «Pronto?»

«Black?»

Quella voce non gli era nuova, pensò.

«Sono l'agente Mourier.»

«Oh.» fece Vincent, finalmente riconoscendolo «Non avevo...»

«Nessun problema.» tagliò corto Van Mourier; la sua voce era affannata, persino spaventata avrebbe detto Vincent. In sottofondo sentiva dei suoni che poté ricondurre solo a un incendio di ingenti dimensioni.

«Va... va tutto bene?» provò a chiedere, riconoscendo ora i rumori di una corsa. Cosa diavolo stava accadendo a quell'uomo?

«Va tutto meravigliosamente di merda!» imprecò quello a denti stretti «Li ho seminati per miracolo. Ascoltami bene, Black, perché non so se sarò in grado di ricontattarti. C'è una cosa che devi sapere...»

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