Epilogo: Dawn of a new world (1)

Epilogo: Dawn of a new world (1)

«Ma avevi promesso che ci portavi alle giostre!»

Coi grandi occhi giallastri umidi di lacrime, il piccolo Vincent guardava supplichevole il suo papà, nella speranza di convincerlo a boicottare l'impegno imprevisto che lo avrebbe costretto in ufficio tutto il giorno.

«Ho aspettato una settimana intera perché me lo avevi promesso!» ripeté, lamentoso.

Mortificato, Thomas si abbassò sulle ginocchia per accarezzare la testa del figlio minore, poi fece lo stesso con Jonathan, mano nella mano con Vincent. Quel dannato telefono aveva suonato proprio ora che erano pronti a uscire «Mi dispiace tanto, ragazzi, ma-...»

«Ma il tuo lavoro è importante, lo sappiamo.» si intromise Liza, fulminandolo con uno sguardo accusatorio che gli fece abbassare gli occhi; la madre raccolse in una coda di cavallo i capelli rossicci ed indossò il cappotto «Vi ci porta la mamma, alle giostre. Forza, prendete i giubbotti.»

«Ma io voglio andarci anche con papà!» la lagna di Vincent non sembrava avere fine, tuttavia non pestò i piedi né si mise a piangere, sapendo che non sarebbe servito a niente: ormai era sicuro che papà non sarebbe stato con loro quel giorno.

Cercò aiuto in Jonathan, che con soli quattro anni di vita in più di lui sembrava saperne già una più del diavolo; lui aveva sempre la risposta alle domande di Vincent. Il fratellone fece cenno di lasciar perdere e gli strinse un po' più la mano.

«Mi farò perdonare, Stephan.» gli assicurò allora il padre, facendo scorrere la grande mano sulla dolce linea del mento del figlio.

Il bambino mugolò lamentoso «È Vincent...»

«Ancora con la storia del secondo nome... vedremo quando ti passerà questo periodo ribelle.» sospirò Liza. Ancora non aveva idea che quel "periodo ribelle" nei confronti del proprio nome, così comune tra i bambini, sarebbe stato molto più lungo di quel che pensava.

«Lo dici sempre e non lo fai mai...» non sembrava esserci fine a quei mugugni tristi, mentre Liza si inginocchiava accanto a Vincent per sistemargli il basco alla parigina, comprato in un petit shop nei pressi degli Champs-Elysées circa un anno prima.

Thomas fece per ribattere, ma Liza, nel chiudere il giubbotto a Jonathan, lo anticipò quasi con freddezza «Vai, Thomas. Ritarderai.»

Incapace di continuare quella discussione già persa in partenza, l'uomo abbracciò i figli e si apprestò a passare la domenica a lavorare.

Quella sera rincasò tardi, troppo tardi per trovarli ancora svegli; quando Vincent la mattina dopo aprì gli occhi, trovò accanto a sé un peluche a forma di dinosauro blu. Da quell'episodio nacque la sua segretissima passione per i dinosauri.

***

- Presente. Due giorni dopo la notte dell'operazione –

Si sentiva assolutamente sfinito.

Questa fu la prima sensazione che Vincent percepì quando si rese conto di essere cosciente, coi muscoli intirizziti e le palpebre tanto pesanti da non poterle sollevare; solo dopo qualche minuto di confusione capì di essere avvolto in morbide lenzuola, di essere steso su un letto.

Aveva l'odore acre del disinfettante nelle narici e la pungente aria fredda gli pizzicava la pelle. In lontananza, ovattati rumori di passi e chiacchiere gli solleticarono l'udito. Non riuscì ad afferrare che stralci di parole, i quali però non formavano alcuna frase sensata nella sua mente disorientata.

Doveva essere in ospedale, cercò di rassicurarsi, sperando automaticamente che fosse lo stesso in cui si trovava Thomas. Aveva un disperato bisogno di rivedere suo padre. Suo padre era ancora vivo, giusto?

Conservava vividi i ricordi della notte dell'operazione. Come si erano infiltrati facilmente, il tunnel che sembrava l'ingresso ad un altro mondo e tutto ciò che si era poi scatenato dentro il laboratorio. La sua memoria s'interrompeva bruscamente durante l'esplosione, di cui era convinto di essere rimasto vittima assieme a Neville.

Giusto, Neville! E non solo lui: Marika, Giles e Fanny erano gli unici sopravvissuti di quello che la piccola Morgan aveva rinominato progetto RE. Troppi di loro avevano perso la vita in quella vicenda. Se l'FBI non li avesse messi in mezzo – se lui non li avesse messi in mezzo – Shaun, Alicia e Jonathan sarebbero stati ancora vivi. Se non fosse stato per Neville, anche lui sarebbe morto con loro.

"Dio, che cosa ho fatto? È tutta colpa mia..."

Quel pensiero drammatico gli riempiva il petto di calore, di voglia di piangere, di urlare il suo dolore e piombare di nuovo in quello stato di rassegnata apatia in cui si era chiuso dopo aver abbandonato suo fratello. Ogni parte del suo corpo faceva male, tra tutte in particolar modo la gola, stretta in un nodo che gli mozzava il fiato e risucchiava la voce.

Erano riusciti a riportare indietro la cura e il campione di sangue di Lacey, che con tutta probabilità Giles aveva già consegnato a quella serpe di Violet Alraven: che ne sarebbe stato di loro, adesso? In che condizioni era Neville? Che cosa era successo dopo l'esplosione? Il persistente bruciore che gli divorava la schiena era un'ustione?

Aveva bisogno di risposte, sebbene le emozioni ormai fossero tante e mescolate tra loro da confonderlo e farlo sentire perso in un mondo di incertezze.

Finalmente con uno sforzo di volontà aprì gli occhi; la luce del sole che entrava dal finestrone inondò il suo campo visivo e fece urlare i suoi poveri nervi. Sì, era in un ospedale e la sua stanza godeva di una splendida vista su una Phoenix silenziosa, immersa nella luce calda del pomeriggio inoltrato.

Volse lentamente la testa, strofinando i capelli contro il cuscino, e alla sua sinistra trovò Neville, addormentato su una poltrona, il capo abbandonato di lato e un braccio penzoloni. Vincent ebbe un tuffo al cuore: sembrava star bene, a parte per una mano fasciata e un cerotto sulla guancia destra. Un sollievo indescrivibile gli scaldò il petto.

Si sfilò gli aghi delle flebo dalle braccia e si sedette, accompagnato da un concerto di ossa scricchiolanti e intontito tanto da faticare a mantenere l'equilibrio; quanto aveva dormito? Qualche giorno, a giudicare da come le sue gambe si rivelarono molli appena toccarono terra. Rischiò di cadere rovinosamente, ma dopo qualche goffo tentativo riuscì a reggersi con una certa stabilità e addirittura muovere qualche passo. Si rese conto solo allora di avere il petto fasciato; strabuzzò gli occhi, pensando di avere davvero la schiena ustionata.

Qualcuno aveva avuto l'accortezza di lasciare una coperta bianca sul divano in fondo alla stanza, vicino al tavolo con su biscotti, una bottiglietta di tè freddo mezza piena e il suo zaino mezzo bruciacchiato. Vincent si tirò sulle spalle la coperta, cercando di coprire il pigiama bianco un paio di taglie più grande di lui.

Non avrebbe disturbato Neville per ora, poteva solo immaginare quanto dovesse essere stanco e soprattutto turbato dal vortice di tragedie in cui si era buttato volontariamente. Presto o tardi lo avrebbe ringraziato per essere stato l'amico più fedele di tutti i tempi.

Senza far rumore, uscì dalla stanza e socchiuse la porta, ritrovandosi in una sala d'attesa con dei finestroni a fare da sfondo a due file di bruttissime sedie blu di plastica; non vi era nessuno, fatta eccezione per una affaticata Marika Starson con la testa bassa, stretta stancamente tra le mani. Era ancor più trascurata del solito, ma Vincent non vi diede peso e si avvicinò a passi lenti, spesso stentando.

Quando le fu vicino, Marika alzò finalmente lo sguardo e rimase stravolta dal vedere proprio lui. Evidentemente si aspettava Neville.

«Vincent!» esclamò il suo nome con sollievo, mentre gli occhi le si illuminavano. Si mise in piedi e lo affiancò subito, aiutandolo a sedersi «Non dovresti essere in piedi, quando ti sei svegliato? Come ti senti?»

Lasciandosi aiutare, Vincent fece un cenno di diniego «Sto bene, solo un po' di bruciore alla schiena. Neville sta dormendo, non ho voluto disturbarlo.» poi aggiunse, vedendo la ragazza correre alla propria borsa per cercare qualcosa «Quanto ho dormito?»

«Quasi due giorni.» Marika estrasse un pacco di cracker e una bottiglietta d'acqua e glieli porse «Ecco, prima di tutto metti qualcosa nello stomaco. Bevi a piccoli sorsi.»

Il ragazzo non provò neanche ad obiettare, aveva fame, sete e poca voglia di fare conversazione. Marika doveva avergli letto in faccia la necessità di un graduale ritorno al mondo.

Mangiò poco e bevve poco, senza mai sollevare lo sguardo dalle gocce d'acqua che si ammassavano sul bordo della bottiglia. Marika gli teneva intanto una mano sulla spalla, così evidentemente felice del suo risveglio.

«Scusami, vi avrò spaventati.»

Sentì la presa sulla spalla tremare, ma poi farsi più salda.

La giovane gli sorrise «Abbiamo avuto paura, sì. Ma adesso sei qui.»

Dopo qualche altro minuto di silenzio, Vincent abbandonò cibo e bevanda, sentendo già lo stomaco torcersi dal dolore; sprofondò nella sedia, mentre in lontananza un telefono suonava un pezzo dei Green Day poco famoso.

Decise che era il momento di affrontare la realtà, temporeggiare lo avrebbe solo fatto sentire peggio «Raccontami cosa è successo.» disse, assumendo un tono incolore «Mio fratello?»

In un primo momento Marika parve restia a raccontare. Servì un lungo e intenso sguardo del ragazzo a farla desistere e sospirare «Non è stato ritrovato niente, il laboratorio non è solo esploso, ma anche crollato.»

Vincent accettò la verità dei fatti con un lungo silenzio, ma stringendo tra le mani la bottiglietta fino a deformarla.

«I funerali di Alicia e Shaun sono tra due giorni.»

Annuì. Non intendeva mancare, doveva la vita anche a loro, soprattutto a loro; prima che il loro ricordo lo straziasse, aggiunse, con una nota di curiosità «Neville?»

Marika sorrise «Quando gli hai raccontato la verità è partito il prima possibile per venire ad aiutarti. Ha passato alcuni giorni in un hotel, cercando di entrare in città. Quando una bomba è esplosa si è finto uno dei fuggitivi, i militari lo hanno dunque trasportato di forza in città. Poi è corso a casa tua, sbagliando due volte la fermata della metropolitana.»

Neville aveva affrontato quell'odissea per lui? Vincent si sentì onorato di una così grande dimostrazione d'amicizia. Non se lo meritava.

La sua espressione ebete fece ridere la ragazza «Hai un ottimo amico, Vince. Sono felice che tu non lo abbia deluso.»

Vincent annuì «Hai ragione...» se non si fosse convinto a scappare da quel tunnel sarebbero morti entrambi e tutti gli sforzi di Neville si sarebbero trasformati in un viaggio verso la morte. Il suo arrivo era stato veramente provvidenziale.

Il racconto riprese, stavolta con toni più seri «Con la morte di Lacey, almeno secondo quanto sa l'FBI, i Genitori si sono estinti. Questo ha portato gli infetti a una specie di berserk collettivo: in alcuni si sono scatenati gli istinti violenti, altri, la maggior parte per la precisione, sono svenuti. Quasi l'intera popolazione di Phoenix è collassata.»

«È possibile che senza almeno un Genitore in vita gli infetti vadano fuori di testa?»

Era strano, ma considerata la natura strettamente gerarchica del virus non lo sorprendeva più di tanto. Marika confermò i suoi sospetti con un rigido cenno del capo.

«E come lo hanno spiegato ai media?»

«I media continuano a non sapere niente della natura del virus H. Ogni informazione è strettamente riservata. Il pubblico crede che sia stato un pesante attacco di isteria generale. O meglio, questo è ciò di cui vorrebbero convincerlo.»

Gli esseri umani non erano fatti per essere chiusi in una gabbia, la scusa poteva più o meno reggere, ma era ovvio non avrebbero potuto continuare a lungo quella farsa; Vincent era assorto nei suoi pensieri, quando gli venne in mente un altro interrogativo «E come hanno risolto il problema?»

La più naturale delle domande: avevano costretto qualcuno a iniettarsi il sangue di Lacey? Oppure gli infetti si erano gradualmente calmati? Marika si rabbuiò, ma Vincent non ebbe modo di notarlo perché in quel momento qualcuno chiamò il suo nome.

Sulla porta della sua stanza scorse Neville, che trafelato gli corse incontro e senza mezzi termini lo abbracciò; Vincent si sentì impacciato e imbarazzato, non era abituato a simili gesti affettuosi, specialmente da altri maschi, ma quando sentì Neville esclamare felicemente «Sono così sollevato...!» si concesse un sorriso rincuorato e ricambiò l'abbraccio.

«Mi dispiace per quel che è successo. Ti devo la vita.» dichiarò con sincerità, notando vicino a loro Marika commuoversi.

Neville si sentì in difficoltà, ma dopo un lungo silenzio si separò dall'amico e, colmo di un buonumore ritrovato, si diede subito un gran daffare per lui «Ti prendo un caffè alla macchinetta?»

Un caffè non era decisamente ciò che si fa bere a una persona che ha passato due giorni dormendo, vero? Marika glielo fece capire con un'occhiata severa, mentre Vincent rideva sommessamente, essendo già a conoscenza della scioccante ignoranza e ingenuità di Neville in medicina.

Vincent avrebbe voluto avere una clessidra magica in grado di fermare il tempo, prima che l'ennesima tempesta di brutte notizie lo travolgesse, ma stranamente fu lui stesso a mettervi fine, sebbene a malincuore.

«Marika mi stava aggiornando sulla situazione.» spiegò a Neville con un mezzo sorriso «Dicevamo? Ah sì, come hanno calmato gli infetti?»

I due si scambiarono uno sguardo strano, che gelò il sangue nelle vene del bruno; per un attimo fu tentato di coprirsi preventivamente le orecchie con le mani. Qualcosa di orribile era in arrivo, lo sentiva, lo sentiva...

«Allora?» insisté, incapace di darsi pace «Non tagliatemi fuori!»

Marika strinse le mani sulle gambe ed abbassò lo sguardo, in viso aveva un'espressione piena di dolore «Hanno trovato una nuova Madre, Vince.»

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