9. H virus (1)
Arco I: Evolution
Capitolo 9: H Virus (1)
- Una settimana dopo –
La prima volta che la vide fu in una fresca serata di settembre che sarebbe dovuta andare come tutte le altre. Vincent aveva impiegato il pomeriggio per riposarsi e riprendersi dai recenti avvenimenti, ma ogni volta che chiudeva gli occhi si ritrovava nella cella frigorifera del Naughty Sunday e rivedeva i cadaveri dei due poliziotti morti di freddo, dietro la parete che nessuno avrebbe mai notato senza un suggerimento, sentiva di nuovo l'odore di putrefazione invadergli le narici e le loro urla mute nelle orecchie.
A quel punto, immancabilmente cominciava a domandarsi se avrebbe dovuto avvertire la polizia. Sì, sarebbe sicuramente stata la cosa giusta da fare, soprattutto dopo la gentilezza dimostrata dagli agenti Mourier e Mochizuki – di cui tuttavia non riusciva a fidarsi, perché c'era qualcosa negli occhi neri del giapponese che lo faceva sentire in pericolo -; ma poi gli tornava in mente Lacey, la tanto perfetta quanto sospetta organizzazione del Naughty Sunday, che doveva sicuramente avere l'approvazione di qualcuno di potente.
E se ci fosse stato il governo stesso dietro quei silenzi?
In che cosa aveva cacciato il naso?
Dopo aver visto la camera nascosta, Vincent cominciava a credere che la prostituzione non fosse l'unico dei diletti illegali di Lacey. Che altro, allora? Spaccio d'armi? Droga? Tangenti? Ipotesi che a loro modo potevano giustificare la presenza di due sbirri ammazzati, che forse avevano scoperto un po' troppo per i gusti della signorina Smith.
Vincent non voleva che anche Mochizuki e Mourier finissero in quel modo.
"E se mi avessero visto?" un'altra domanda che rimbombava nella mente del ragazzo senza sosta, tenendogli gli occhi spalancati come se avesse avuto un ago a pochi centimetri dall'iride.
In qualsiasi ora del giorno si sentiva spiato, tenuto d'occhio: quando era a casa, quando cercava riparo all'università, persino quando usciva a comprare la cena, ma soprattutto quando era al Naughty Sunday.
Dormire era ormai diventato difficile: le notti passavano lente e lui rimaneva vigile, con gli occhi sbarrati, sentendo la presenza di Replica sul balcone della sua camera, con un revolver in mano pronto a far fuoco e le labbra che silenziosamente articolavano un game over.
Spesso si era ritrovato sul suo letto, raggomitolato contro il muro e coperto completamente dalle lenzuola, con lo stomaco in subbuglio che si contorceva dolorosamente, le mani gelide e sudate; ascoltava il silenzio, scattando in allerta per ogni rumore fuori dall'ordinario scricchiolio dei vecchi mobili o dalla vibrazione del cellulare sulla scrivania.
Anche l'ultima notte era passata in quel modo, e Vincent prese la sua decisione: non sapeva cosa fare e aveva bisogno di aiuto, perciò sarebbe andato da Giles, l'unico che poteva ascoltarlo senza giudicarlo né tradirlo, poiché doveva mantenere il segreto professionale. Vincent non era affatto sicuro che fosse una buona idea rivolgersi alla polizia: una settimana era ormai passata da quell'avvenimento sconvolgente, Replica e Lacey avevano avuto il tempo di fare quel che volevano dei corpi e forse persino di scoprire Marylin.
Sperava che neanche alla ragazza fosse accaduto niente, non voleva che finisse a far parte della macabra collezione di morti del Naughty Sunday. Il suo sorriso sciocco e frivolo di labbra rosse e carnose gli balenò in mente.
Per quanto riguardava lui stesso, invece, non era neanche certo di non essere stato visto entrare e uscire dalla stanza sotterranea.
Vincent prendeva la polvere in piedi davanti alla scrivania, sulla quale era poggiato un libro di un tale William Beck aperto a pagina 498: una settimana di pausa dal lavoro e di stress continuo era riuscita persino a fargli divorare quasi un intero libro.
Con la bocca stretta in una linea leggermente curva verso il basso, gli occhi rossi di stanchezza e vigili e i pugni serrati, era fermo da diversi minuti a fissare le tende del finestrone, attraverso le quali penetravano con fatica pochi fasci luminosi che venivano proiettati sul soffitto, nei quali si muoveva lento e annoiato il pulviscolo.
Nonostante la stanza fosse illuminata, c'era qualcosa che non andava. Vincent portò una mano alla tempia destra, massaggiandola delicatamente e socchiudendo gli occhi cerchiati da occhiaie viola; non c'era dubbio che fosse profondamente agitato, ma non era da lui lasciarsi scombussolare così dalla paura.
C'era davvero qualcosa che non andava e che non aveva niente a che fare con l'episodio dei cadaveri. Il suo cervello non riusciva a darsi pace; era come se non volesse più rispondere ai suoi ordini e lo confinasse in uno stato di perenne attesa di qualcosa.
Non aveva funzionato nessun tradizionale rimedio per calmare i nervi, e allo stesso modo avevano fallito i calmanti e persino i sonniferi.
«Devo fare qualcosa... non posso andare avanti così...» sospirò, tirando su col naso.
Lasciò cadere il braccio lungo il fianco, beandosi della comodità della sua felpa: un abbigliamento trascurato che si permetteva solo tra le pareti domestiche, poiché ogni indumento sportivo aveva l'effetto di un pugno nell'occhio sul suo bell'aspetto di ragazzo elegante. Bell'aspetto che probabilmente era andato sbiadendo sempre più in quella settimana di angoscia, considerò Vincent, chiedendosi se magari, presentandosi da Lacey in uno stato pietoso, ella gli avrebbe concesso spontaneamente un'altra settimana di riposo.
«Eh...» provò a sorridere, ma in quel momento gli riusciva davvero difficile.
Chiunque fosse entrato in quel momento lo avrebbe preso per pazzo, a parlare e sorridere da solo, ma Vincent non poteva farne a meno: lui era sempre solo, la sua voce era l'unica che era abituato a sentire in quella casa, in qualche modo doveva reggersi sulle proprie gambe se nessuno gli offriva una spalla.
Ispirò profondamente, decise che avrebbe cucinato una cioccolata calda e poi guardato qualche demente programma televisivo per tenere la mente impegnata, magari The Big Bang Theory, che più che farlo ridere gli ricordava com'era fortunato a non essere Sheldon Cooper.
Avanzò finalmente di un passo per avvicinarsi alla scrivania e chiudere il libro senza un reale motivo, stirò i muscoli delle gambe e delle braccia, che sentiva indolenziti.
Si mosse parallelamente al muro, passando davanti allo specchio un po' più alto di lui incollato all'anta dell'armadio, e con l'intenzione di prendersi un po' in giro vi si fermò a specchiarsi.
L'immagine che lo fissava era a dir poco distorta, quanto di più lontano da come appariva normalmente: era pallido, con le guance scavate, gli occhi rossi e le occhiaie pesanti, i capelli in disordine che gli ricadevano sull'occhio destro in quel caschetto che sua madre odiava; per non parlare poi della vecchia e sbiadita tuta nera che indossava e che, come ogni abito non elegante, lo rendeva ridicolo.
«Se papà mi vedesse ora mi disconoscerebbe.» decretò con una risata, riconoscendo di essere un insulto all'etica della famiglia Black.
La prima risata che gli era uscita spontanea però morì presto miseramente, o meglio ebbe una radicale mutazione e si trasformò in un'esclamazione strozzata quando riaprì gli occhi.
Il riflesso di sé che fino a pochi attimi prima aveva ricambiato il suo sguardo era ora sovrastato dalla cosa più orrenda e terrificante che Vincent aveva mai visto: un'ombra semi trasparente, alta una decina di centimetri più di lui, gli stava addosso minacciosamente, a distanza di pochi centimetri; era in tutto e per tutto umana, con due braccia leggermente sollevate e le dita protese verso le spalle del ragazzo.
Vincent non ebbe il tempo di osservarne il volto o di notare altro che non fosse l'inquietante evanescenza dei suoi tratti, che sembravano fatti di oscurità. Si voltò istantaneamente, ma alle sue spalle non vi era già più niente.
Col fiato corto, guardò di nuovo lo specchio e il risultato fu lo stesso suggerito dai suoi occhi: non c'era niente, non più.
Una goccia di sudore gli solcò la fronte. Sentì qualcosa dentro lo stomaco far forza per risalire e dovette mandarla giù con disgusto. Cercò un appiglio a cui aggrapparsi quando il mondo iniziò a vorticare confuso, sfocato e delirante, ma prima di avere il tempo di realizzare cosa stava accadendo si ritrovò in ginocchio, poi a terra a fissare la porta che si spalancò in quel momento.
«Vin... Vincent!» la voce di Jonathan gli invase le orecchie, ma gli occhi poterono vederne solo le gambe che si avvicinarono di corsa.
Il fratello lo prese delicatamente per le spalle e lo sollevò a sedere, ma il ragazzo era ancora troppo scombussolato per sentire Jonathan che continuava a chiamarlo e chiedergli se stava bene.
Piuttosto Vincent guardava verso il pavimento, scosso e paralizzato, col respiro pesante e gli occhi vacui, terrorizzati. Passato qualche secondo, solo l'intervento decisivo di Jonathan, che lo afferrò per le spalle cominciando a scuoterlo con forza, riuscì a ridestarlo e farlo tornare in sé.
Alzò il capo finché il suo sguardo non incontrò quello incredibilmente preoccupato del fratello, «Mi ascolti?!» stava urlando.
«... Sì.» annuì finalmente Vincent, chiedendosi da dove fosse saltato fuori Johnny così all'improvviso.
Quel monosillabo sembrò bastare per il momento a Jonathan, che sospirò per il sollievo «Ho sentito un urlo.»
«... Ho urlato?»
Jonathan lo squadrò come se avesse appena preso una botta in testa o assunto una droga pesante, sospetto che in effetti gli passò per la mente: non sarebbe stata la prima volta.
«Che cosa è successo?» chiese, innervosito dall'atteggiamento del fratello minore.
Vincent dovette cogliere la nota di nervosismo nella sua voce, perché abbassò di nuovo il capo e curvò le spalle, reazione che sin da bambino aveva nei momenti in cui si sentiva aggredito da un familiare.
Sebbene volesse scusarsi per averlo spaventato, Jonathan scelse di non dire niente, in attesa che fosse lui a spiegare il motivo di quel trambusto - sperando che non se ne sarebbe uscito con una bugia ovviamente, anche se non sembrava in grado di farlo al momento.
«Credo... di aver avuto...» il ragazzo si bloccò a metà frase, come cercando la parola più adatta «... un'allucinazione.»
"Un'allucinazione?" pensò Jonathan alzando un sopracciglio, poi chiese «Non è normale avere allucinazioni, Vincent. Hai preso qualcosa?»
«Ha! Ho preso di tutto in questi giorni! Non dormo da una settimana!»
L'uomo rimase sbigottito: pensava che l'improvvisa carenza di sonniferi e varie altre medicine in cucina fosse da attribuire a loro padre, che soffriva occasionalmente d'insonnia, non a Vincent, che nel frattempo sembrava starsi calmando; tenendo ancora una presa ferrea sulle spalle del fratello, Jonathan cercò di sollevarlo «Avanti, in piedi. Ti porto dal dottore.»
«Non ce n'è bisogno...» biascicò il ragazzino, ma eseguì i suoi ordini, mettendosi sulle gambe che, sorprendentemente, lo ressero «Ho solo bisogno di rilassarmi... e dormire...»
«Vincent, non puoi prendere sonniferi quando ti pare. Guardati, sembra che tu stia per avere un crollo nervoso! Ora si fa come dico io, e non lamentarti, sei un'incosciente!» lo rimproverò duramente, ma Vincent gli sembrava di nuovo lontano, assente come prima.
Jonathan lo aveva mai visto in quelle condizioni solo quella maledetta volta al Naughty Sunday, ma quella paura che gli leggeva in faccia e che gli faceva tremare le mani era comunque anomala: suo fratello non mostrava mai apertamente di avere paura.
Per qualche motivo che non capiva, Vincent continuava a correre con gli occhi sul resto della camera, in particolare sullo specchio, forse cercando l'allucinazione che lo aveva terrorizzato a morte.
«Andiamo di sotto...» lo spronò, facendogli cenno col capo di precederlo.
L'altro sembrò molto sollevato al pensiero di lasciare la stanza e mosse un lungo passo con cui superò la porta, guardandosi però intorno diverse volte, guardingo; Jonathan, inquieto a sua volta, lanciò un attento sguardo alla camera prima di uscire e chiudersi la porta alle spalle.
Giunti al piano sottostante, Vincent venne subito mandato a sdraiarsi sul divano.
«Ti preparo una camomilla, poi chiamerò il dottor Calvin.» disse Jonathan, prima di precipitarsi ai fornelli con la fronte coperta da una ragnatela di tensione.
Vincent si lasciò cadere sul morbido sofà con un sospiro stanco, distese le gambe ed appoggiò la testa sul bracciolo soffice, sprofondando come se volesse essere inghiottito dai cuscini profumati. Tentò di chiudere gli occhi, ma la paura gli serpeggiava sotto la pelle come una fiamma e neanche il pensiero di aver visto Jonathan preoccuparsi per lui per la prima volta da chissà quanto tempo riusciva a rassicurarlo; temeva di trovarsi di nuovo l'orribile apparizione davanti ad ogni battito di ciglia.
"Calmati, devi calmarti" si impose, cercando di convincersi che tutto era dovuto allo stress, alla mancanza di sonno, all'orribile visione del piano sotterraneo del locale; troppe cose, tutte in una volta sola, era normale che il cervello gli stesse esplodendo!
Tuttavia... quel che aveva visto era troppo reale, troppo dettagliato per essere un'immagine che la sua mente aveva rubato a qualche film horror: quella figura era stata davvero dietro di lui, ne aveva sentito la pelle gelida avvicinarsi al suo collo.
Quel mostro era stato lì, dietro di lui.
"Calmati, Vincent."
Ma non riusciva affatto a calmarsi: si guardava intorno spaesato e spaventato, sussultando ad ogni rumore e ad ogni gioco ottico che gli faceva vedere cose che non esistevano. Una cosa era sicura: non avrebbe più chiuso occhio per un bel pezzo.
O almeno, così pensava.
Quando Jonathan lo raggiunse in salotto, infatti, lo trovò addormentato, messo a tappeto dalla stanchezza.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top