8. Phoenix's little secret (5)

Arco I: Evolution

Capitolo 8: Phoenix's little secret (5)

Si assicurò di non essere visto da nessuno mentre percorreva le scale e passava davanti alla porta che conduceva in sala: non poteva correre il rischio di essere scoperto o avrebbe dovuto risponderne a Lacey, e di certo non voleva finire a far compagnia ai presunti corpi a cui stava andando a dare un saluto.

Nel caso avesse avuto sfortuna e fosse stato scoperto, avrebbe semplicemente detto di aver scorto un ratto bello grosso. Tuttavia, a metà rampa non gli sembrava di correre alcun pericolo: dal piano terra non proveniva nessun suono vicino e sotto invece molto probabilmente non c'era nessuno. I gradini di ferro gridavano di dolore ad ogni suo passo, Vincent pensava che sarebbero ceduti da un momento all'altro, ma riuscì a raggiungere la sua destinazione integro, con il cuore in gola e gli occhi stretti in due fessure.

L'illuminazione lì sotto era davvero penosa, l'atmosfera piuttosto cupa e sterile: Lacey non si era premurata di far dipingere i muri, il soffitto e gli angoli erano mangiati dalla muffa e regno delle ragnatele. Forse il pretesto del grosso ratto poteva rivelarsi tutto sommato fondato e credibile.

Fanny non sarebbe mai riuscita a stare lì, troppi ragni in giro, così si disse il ragazzo per infondersi un po' di coraggio mentre avanzava nella luce soffusa, guardandosi attorno con occhi cauti ma assetati di informazioni; si sentiva come un coniglio nella tana della volpe, pronto ad essere afferrato da denti affilati da un momento all'altro e sbranato senza che nessuno sentisse le sue urla.

Aveva le farfalle nello stomaco, le mani fredde e sudate e il cuore gli batteva forte; la parte del coniglio la stava impersonando magistralmente.

Nel momento in cui i suoi piedi toccarono terra si guardò intorno spaesato: non era mai stato lì prima d'ora.

Davanti a lui si estendeva per una decina di metri un corridoio che non veniva pulito da anni, il pavimento era polveroso e ricoperto di intonato caduto dalle pareti, queste erano vecchie e con qualche crepa che a Vincent ricordò il muro della cantina de Il gatto nero di Edgard Allan Poe.

E se anche i cadaveri visti da Marylin fossero stati murati? In quel caso lui non li avrebbe mai trovati e la questione sarebbe finita lì, no?

Scosse il capo, dandosi dell'idiota: doveva mantenere i piedi per terra e non lasciarsi suggestionare. Era il luogo a dargli una brutta sensazione: non c'erano morti lì sotto, e Marylin doveva starsi sbellicando dalle risate al piano terra alla faccia sua.

A piccoli passi, dispensando occhiate caute a ciò che aveva intorno, procedette lungo il corridoio cercando di produrre il minimo rumore. L'aria era viziata, opprimente e stantia, gli premeva contro il petto soffocandolo, Vincent dubitava che ci fossero condotti d'areazione; faceva freddo, non molto ma abbastanza da spingere il ragazzo a sfregare le mani contro le braccia coperte dal giubbotto per riscaldarsi.

Si trovò a passare davanti a diverse porte con su insegne che le identificavano: centralina elettrica, sala frigorifera, ripostiglio, ma ad attirare la sua attenzione fu una grande porta quadrata che ad occhio e croce era di plastica, con un'insegna e un dispositivo che sporgeva leggermente dal muro.

"Servizi, accesso riservato solo al personale autorizzato" lesse mentalmente.

Se Lacey stava nascondendo gente morta, allora era sicuramente lì dentro; provò ad aprirla, ma... non c'era nessuna serratura. Allora guardò più attentamente il dispositivo che aveva notato, specchiò i suoi occhi nello schermo e lo riconobbe: c'era in ogni film di spionaggio che si rispetti, era un sistema di riconoscimento, se vocale o oculare però non lo sapeva dire.

Se ne allontanò con un sospiro rassegnato, mettendo le mani sui fianchi con fare esasperato. La poca luce faceva confondere la sua ombra con quelle circostanti.

Tuttavia, ragionò subito dopo, nemmeno Marylin era sicuramente parte del personale autorizzato: se lei li aveva visti, quei corpi non potevano essere in una stanza preclusa al pubblico.

Ma perché correre il rischio di essere scoperti così facilmente?

Controllò le altre porte e scoprì che erano tutte aperte, quando gli venne in mente qualcosa di assolutamente ovvio, tanto che batté le palpebre come se si fosse appena svegliato da un incubo: dei corpi in un ambiente chiuso avrebbero reso l'aria irrespirabile, eppure lui non sentiva nessuna puzza al di fuori di quella dell'aria viziata.

L'unica cosa che per uno, massimo due giorni poteva mantenere un tale fetore era una temperatura molto bassa.

Torse il collo in direzione della cella frigorifera. La grande porta quadrata bianca che trasudava ghiaccio, l'ingresso di un inferno micidiale.

Oh no, lui lì dentro non ci sarebbe entrato: con la fortuna che si ritrovava, Replica sarebbe arrivata proprio in quel momento e lo avrebbe chiuso lì, a morire di freddo.

Decise che avrebbe solo dato un'occhiata da fuori, senza entrare, e così fece. Si accostò alla porta gelida e la aprì con discrezione, venne investito da un'onda d'aria che gli fece salire un brivido lungo la colonna vertebrale; l'interno era buio, il set perfetto per un film di Stephen King, illuminato solo dalla tetra luce esterna. Vincent cercò lungo il muro un interruttore, ma quando lo trovò e lo premette non accadde niente.

"Cazzo! Non funziona!" alzò lo sguardo e la spiegazione logica gli si parò davanti agli occhi: non c'era nessuna lampadina collegata ai cavi, che pendevano pericolosamente dal soffitto.

Non voleva entrare, ma sembrava che non avesse altra scelta: se c'era entrata Marylin e ne era uscita viva, perché non doveva essere lo stesso anche per lui? Ma poi... era un'abitudine di quella tizia ficcarsi a random nelle celle frigorifere?

Cercò di rincuorarsi mentre estraeva di tasca il cellulare, illuminando con la sua potente luce lo spazio intorno a sé.

"Sei disposto a questo pur di scoprire la verità?"

La domanda gli frullò nella testa: forse quello era un altro tassello del puzzle che stava cercando di ricostruire, il primo passo verso la risposta che cercava sulla propria dipendenza dal sesso, su ciò che era accaduto la notte in cui Lacey lo aveva accusato di tentato stupro, sui misteri di cui il Naughty Sunday era il centro.

Mosse un primo, incerto passo verso l'interno, il braccio proteso nell'oscurità fenduta dalla luce del neon, che usò per illuminare i lati della stanza; era poco larga, più o meno sette metri, le pareti bianche erano vecchie sì, ma pulite e lisce, senza crepe, e allo stesso modo erano puliti gli scaffali su cui erano conservate bevande e cibi surgelati in scatoloni disposti in linee ordinate.

Faceva un freddo insopportabile. Non era sicuro di quanto sarebbe riuscito a resistere in quell'inferno di ghiaccio.

Lesto, per accorciare il più possibile il tempo che avrebbe passato lì dentro, Vincent vede un rapido giro di perlustrazione, scrutando con attenzione il più possibile; notò che non c'erano telecamere. Spostatosi addosso alla parete sinistra, unica parete ad essere occupata solo dai comandi, i suoi occhi si posarono su una strana fenditura che lo lasciò perplesso.

La illuminò meglio: la fenditura saliva da terra, tracciando una linea perfettamente dritta verso l'alto, per poi sparire misteriosamente. Gli ci volle qualche secondo per realizzarlo: era una porta scorrevole. O forse un muro scorrevole. Qualcosa di simile insomma, ma tra il buio e l'adrenalina che gli ruggiva nello stomaco non riusciva a capirlo bene.

Effettivamente se non si fosse messo ad analizzare tutto da vicino non l'avrebbe mai notata, quella fessura, tanto era sottile.

Poteva sentire un odore nauseabondo provenire dall'altro lato: ecco la prova che aveva trovato ciò che cercava!

"Che razza di impicciona deve essere Marylin per averla notata?" provò a darsi motivo per ridere e sciogliere la tensione, con però scarsi risultati.

Non era più sicuro di respirare così concitatamente per il freddo. Temendo l'arrivo di qualcuno si affrettò a poggiare sul mobile il telefonino e, con entrambe le mani ormai gelide appoggiate sulla superficie, spinse con tutte le sue forze.

Fu più dura del previsto, non solo il freddo gli intirizziva le dita e i muscoli, ma la porta era pesante, il ragazzo riuscì a spostarla solo dopo diversi tentativi; questa si aprì con uno scatto secco.

Vi era un piccolo pezzo di foglio strappato incastrato tra la porta e il muro, bianco come il pavimento e i muri, che si posò per terra quando la porta fu aperta. Vincent non se ne accorse.

Non se ne sarebbe accorto nessuno, non davanti allo spettacolo che attendeva al di là della porta.

Vincent premette le mani gelide contro la bocca ed ingoiò un urlo, il suo corpo tremò da capo a piedi in preda allo shock, il suo cervello decise che quello era un buon momento per prendersi una meritata pausa dal lavoro.

Accasciati per terra, due corpi vicinissimi erano rivolti verso la porta, gli arti innaturalmente intrecciati, come se avessero cercato di difendersi dalla belva invisibile del gelo fino all'ultimo respiro.

Erano due uomini a cui Vincent avrebbe dato tra i quaranta e cinquant'anni, un bianco e un nero, entrambi con indosso le divise della polizia locale, come gli agenti Mochizuki e Mourier che erano appostati in quel momento nel parcheggio; erano seduti l'uno vicino all'altro e raggomitolati nella miglior posizione per mantenere il calore.

Entrambi avevano il volto piegato dal dolore e gli occhi sbarrati, terrorizzati, la pelle era ricoperta da una sottile pellicola di ghiaccio che li faceva quasi risplendere quando colpiti dalla luce.

Il bianco aveva inoltre una ferita da arma contundente alla testa, dalla quale scendevano rivoli di sangue secco che gli superavano la linea degli occhi ed imbrattavano la guancia destra.

L'odore di putrefazione era forte, orribile, disgustoso, Vincent si schermò il naso con la manica per smorzarlo prima di cedere all'impulso di vomitare. Sentì in bocca lo stomachevole sapore della bile, ma lo ricacciò indietro, assieme a una strozzata esclamazione di sorpresa.

Li aveva trovati. Li aveva trovati!

"Merda! Merda! Merda!" fece qualche passo indietro, barcollando sulle gambe improvvisamente molli. Faticò a mantenere l'equilibrio, si appoggiò al muro, reggendosi come se stesse per venire a mancare da un momento all'altro.

Era la prima volta che si trovava davanti a dei cadaveri, i suoi genitori non lo avevano mai neanche portato ai funerali dei nonni: quale modo peggiore per sperimentare per la prima volta la vista di un morto?

Il suo intero corpo gli urlava di scappare il prima possibile, senza neanche premurarsi di rimettere in ordine per non essere scoperto, mentre il suo cervello era completamente spento, si rifiutava di ragionare.

"Questi qui sono fottutamente morti!" si ripeté, senza riflettere su quanto fosse inappropriato o stupido quel pensiero, in quel momento era troppo sconvolto per farci caso.

Che cosa doveva fare? Che cosa avrebbe fatto? Ora che si era accertato della veridicità delle parole di Marylin, non voleva assistere a quello spettacolo ripugnante un minuto di più. Doveva andarsene, denunciare tutto alla polizia in fretta!

Un sospetto frenò però la corsa della sua mente: se fosse corso alla polizia, anche lui sarebbe stato scoperto e sarebbe certamente andato incontro a chissà quali conseguenze. Del resto aveva accettato di prostituirsi volontariamente, nessuno lo aveva costretto.

Mettere allo scoperto Lacey significava mettere allo scoperto se stesso.

Non poteva permetterlo!

Ma che ne sarebbe stato di quei due uomini? Probabilmente non avrebbero mai avuto una degna sepoltura, né le loro famiglie avrebbero mai saputo che fine avevano fatto. Forse erano addirittura genitori o nonni, con case piene di bambini che aspettavano il loro ritorno.

Non voleva che altri bambini non vedessero tornare a casa una persona cara, come era successo a lui.

Era troppo confuso per prendere una decisione sensata in quel momento, e la stretta del freddo sul suo corpo spossato era così forte da fargli perdere la sensibilità delle mani. Non era quello il momento di pensarci: era ancora in pericolo.

Prese il cellulare e scattò tre fotografie da tre angolazioni diverse ai corpi, per avere una prova nel caso avesse deciso di denunciare l'omicidio - perché a giudicare dalla scena pensò si trattasse di omicidio. Ripose il cellulare nella tasca e con fatica rimise il muro al suo posto, ma non prima di aver sussurrato delle scuse ai cadaveri. Neanche lui seppe mai il perché di quelle scuse.

Quasi correndo tornò sui propri passi, e, raggiunta la porta, notò con enorme sollievo che era ancora aperta, ne uscì e se la richiuse alle spalle, risalì infine le scale ed entrò nel salone, allontanandosi il più possibile da dove era venuto. Voleva mettere un muro invalicabile tra sé e la stanza nascosta, voleva dimenticare tutto.

Non aveva intenzione di rimanere al Naughty Sunday un minuto di più; l'urgenza di abbandonare il locale gli faceva fremere ogni muscolo e gli dava scariche d'adrenalina che lo attraversavano come elettricità. Si guardò intorno freneticamente: nessuno sembrava averlo notato, ma aveva la netta sensazione di essersi messo in un guaio da cui sarebbe difficilmente uscito. Voleva tornare immediatamente a casa, l'unico posto sicuro che gli veniva in mente.

Non era nemmeno sicuro di riuscire a guidare in realtà, ma non aveva scelta.

Nell'attraversare il club non scorse da nessuna parte Marylin e la cosa lo preoccupò: che l'avessero già messa a tacere? Ma no, non era il caso di diventare paranoici! Di positivo c'era però che neanche Replica e Lacey sembravano essere in giro, dunque aveva il tempo di darsela a gambe senza che nessuno di importante notasse che stava camminando più velocemente del solito e che era pallidissimo.

O almeno, così credé finché, quando fu nel parcheggio che puzzava di smog e benzina, nell'estremo angolo ad est dove parcheggiava sempre, non venne improvvisamente chiamato nel momento in cui si chinò per prendere le chiavi della moto dalla tasca.

«Hey, tu!»

Quella voce la conosceva, ma non la riconobbe finché non notò la testa rossa che lo aveva raggiunto di soppiatto: l'agente Mourier.

"Ah, giusto... erano appostati..." Vincent maledì il tempismo perfetto di quei due sbirri, che sarebbero stati l'ennesimo contrattempo fastidioso; che cosa volevano, interrogarlo? Chiedergli per l'ennesima volta il documento falso? Si augurò di no, perché lo aveva dimenticato in camera sua, sotto le pile di libri dell'università.

Vennero subito raggiunti dal detective Mochizuki, in borghese e parecchio elegante, con tanto di giacca e cravatta - al contrario, il rosso aveva una vecchia giacca marrone sopra una felpa nera, sembrava uscito da un outlet.

Nessuno avrebbe mai detto che fossero poliziotti guardandoli: l'uno aveva quel non so che di mafioso, l'altro l'aria da delinquente mancato.

«Sono molto di fretta...» parlò Vincent, la voce rauca e bassa, così diversa dalla sua solita fresca e vitale che rimase profondamente stupito.

«Ci vorrà giusto un minuto, signor Stephan Black.»

Il ragazzo strabuzzò gli occhi, si sentì mancare la terra da sotto i piedi: avevano scoperto il suo vero nome.

«Non guardarci così.» gli sorrise gentilmente Furuya, gli occhi sottili e neri venati di divertimento «Ci basta un veloce controllo per scoprire l'identità delle persone, sai?»

Vincent non voleva nemmeno sapere quante cose in quel momento lasciava trasparire la sua faccia; aveva bisogno di tempo per rimettersi in sesto e tornare ad essere imperscrutabile, perciò doveva andarsene subito, prima che i due lo mettessero con le spalle al muro.

«Non ho tempo per parlare con voi.» commentò, con quella voce strana che non riconosceva, guardando prima l'uno poi l'altro come se fossero stati due insetti davvero persistenti «Ho alcune cose urgenti da fare...»

Col fiato corto, diede loro le spalle e fece per salire sulla moto, ma Van ebbe la brutta idea di cercare di fermarlo, afferrandogli senza delicatezza una spalla.

Vincent fu scosso da un violento tremito e sobbalzò, si scrollò di dosso la mano e si accasciò contro la moto, lo stomaco contorto in una morsa violenta che gli risaliva la gola.

Furuya si abbassò - nonostante fosse giapponese, era persino più alto di Vincent - per osservarlo più da vicino, ancora una volta sembrò riuscire a strappargli verità che il ragazzo non voleva lasciare andare. Fece uno schiocco con la lingua, come se avesse afferrato qualcosa.

Sollevò lo sguardo al collega più giovane, confuso e in attesa, e poi tornando al ragazzo decretò «Ovunque tu debba andare, ti accompagniamo noi. Non sei in grado di guidare, ora.»

Incapace di farsi valere in quella situazione, né di ragionare a dirla tutta, Vincent non riuscì a far altro che annuire, riconoscendo la sconfitta. Il detective aveva ragione: si sentiva troppo spossato, prigioniero di quell'orribile visione di morte di cui sapeva che non si sarebbe più liberato.

Per tutto il viaggio verso casa Vincent non produsse il minimo suono, se non fosse stato per il petto che si alzava ed abbassava regolarmente lo si sarebbe scambiato per una statua molto realistica; i due poliziotti non lo forzarono a parlare, e quando lo lasciarono davanti a casa sua, erano quasi le ventidue e trenta, lo seguirono con lo sguardo finché non scomparve al di là delle porte scorrevoli della reception.

«Accidenti, sapevo che se la passava bene, ma addirittura un grattacielo...» commentò Van, spostandosi una ciocca ribelle rossa dagli occhi castani irritati «Che occasione sprecata, lo avevamo messo con le spalle al muro.»

«Quel ragazzo è una buona carta per scoprire che cosa sta realmente accadendo al Naughty Sunday e, forse, anche in questa città.» Furuya accese una sigaretta, come faceva quando aveva bisogno di riflettere; l'odore del fumo riempì l'abitacolo, una nuvoletta bianca si sollevò, lineare e delicata «Devo dirlo, quando mi sono trasferito da Tokyo non pensavo che mi sarei imbattuto in un caso così difficile. Phoenix è un po' pazza.»

Van sogghignò, completamente concorde «Beh, è per questo che ci piace vivere qui, no?» scrollate le spalle, si immerse nei suoi pensieri «Quel ragazzo ha visto qualcosa...»

«Intonaco.»

«... Eh?»

L'attenzione del rosso venne catalizzata dal collega e da quel ragionamento che gli sfuggiva.

Il detective affondò le spalle nel sedile, la sigaretta faceva su e giù mentre parlava «Aveva dell'intonaco sulle scarpe. Recente.»

«Intonaco...» a Van questo particolare era sfuggito «Un cantiere... o un interrato.»

«Qualsiasi cosa stiamo cercando è in un luogo polveroso, possibilmente un seminterrato o una parte del locale ancora in costruzione.» concordò Furuya, gli occhi ridotti a due fessure «E noi non perderemo di vista quel ragazzino finché non avrà confessato.»

***

The Wicked Witch of the West scrive:

Hey, Vince! Ci sei?

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The Wicked Witch of the West scrive:

Io ti aspetto!

Il contatto non è in linea, i messaggi verranno recapitati quando effettuerà l'accesso. (23.10)

The Wicked Witch of the West scrive:

Uhm... mi sa che stasera non vieni. Adesso devo andare, a domani! Sogni d'oro!

Il contatto non è in linea, i messaggi verranno recapitati quando effettuerà l'accesso. (01.10)

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