4. Race of regrets (1)

Arco I: Evolution

Capitolo 4: Race of regrets (1)

Benché non avesse avuto altre relazioni oltre quella con Vincent Black, Marika sapeva che non era normale ciò che stava accadendo. Certo, c'era da considerare il brusco ed inusuale modo in cui si erano incontrati ben tre anni dopo aver rotto, forse questo poteva giustificare la passiva cooperazione che aveva permesso loro di parlare piuttosto liberamente durante la serata, ma restava il fatto che non era comune vedere due ex scorrazzare insieme in moto per le vie della città.

Naturalmente, la ragazza non era ansiosa di rimettersi in sella al veicolo ancora caldo per la gara, ma aveva poca scelta: la sua serata era completamente andata in fumo – la povera Fanny ci era sicuramente rimasta male -, e non aveva altra scelta che accettare il passaggio di Vincent se voleva tornare a casa ad un orario decente.

Per sua fortuna, il ritorno al campus era tra un paio di giorni, giusto il tempo di riprendersi dallo spavento, pensava la ragazza mentre correvano, a velocità stavolta più moderata, per le strade ora più affollate, alla volta di Maryvale, dove si trovava la casa di Marika, il quartiere a nord della Central City.

Ricordava che Vincent aveva comprato quella Ninja poco prima della fine della loro relazione, appena compiuti i sedici anni; le era già capitato infatti di farci qualche giro sopra, anche se all'epoca il ragazzo sembrava avere la testa sulle spalle e rispettava con maggiore prudenza le regole della strada; ricordava ancora quando si fermava cautamente appena scattava il giallo, mentre adesso se vedeva il giallo accelerava.

A differenza di un'ora prima, però, questa volta non c'era nessuno ad inseguirli con l'intenzione di buttarli fuori strada, nessuno che puntava loro addosso pistole, nessun tempo tiranno che li perseguitava. Anzi, Vincent sembrava addirittura piuttosto sereno, procedeva pacificamente per non sforzare ulteriormente la sua povera moto, che avrebbe senza dubbio avuto bisogno di un periodo di riposo.

Dietro di lui, Marika cercava di stargli il meno addosso possibile, tenendosi da sola in equilibrio, con le mani sui fianchi di lui come unico contatto fisico, decisamente diverso dal modo in cui si era avvinghiata a mo' di piovra durante la competizione.

Era incredibile quanto un giro in moto potesse risultare diverso a seconda delle occasioni: se quello precedente era stato esaltante ma terrificante, quello attuale era piacevole, quasi rilassante.

Se Scottsdale era il paradiso della night life, lì a Maryvale la gente era già andata a letto da un pezzo: i negozi erano chiusi ma le vetrine illuminate, la poca gente per strada portava sul viso sguardi assonnati, le automobili circolavano lentamente, il vento era persino più freddo e le faceva salire brividi lungo la schiena.

Che cosa avrebbe detto a Vincent quando si sarebbero fermati? Troppo stanca e scossa dall'adrenalina che ancora le paralizzava la mente, era incapace di formulare pensieri sensati: voleva solo andare a riposarsi ed affrontare suo padre l'indomani.

Oh, già... suo padre.

Sarebbe stato davvero difficile inventare una bugia per nascondere gli avvenimenti di quella notte, altrimenti avrebbe mancato la parola data a Lacey Smith e messo nei guai Vincent, che si era dimostrato inaspettatamente gentile e premuroso.

Eppure, al contempo, le sembrava anche più triste e arrabbiato di quando se n'era andato, quella volta...

«È questa, no?»

Il tono distratto e piuttosto basso della domanda non bastò a richiamare l'attenzione della ragazza seduta dietro di lui, in silenzio da quando erano partiti; che si fosse addormentata? Vincent diede uno strattone all'indietro col braccio destro e stavolta ricevette in risposta un'esclamazione di sorpresa.

«Cosa?»

Il ragazzo sospirò «Abiti ancora qui, giusto? Non te l'ho chiesto prima...»

Sollevò lo sguardo dal contachilometri ormai stabilmente fermo sullo zero alla strada, poi al palazzo davanti a loro, articolato su due piani dai muri neri, a cui si accedeva attraverso un cancello che dava su un cortile alberato. Un cartello apposto sopra il portone principale recitava "Clinica Starson", non c'era dubbio che Marika abitasse ancora lì.

«Hm-mm!» mugolò dietro di lui la ragazza, che durante il passaggio si era pian piano sempre più stretta a lui, probabilmente in maniera inconscia, ma Vincent non lo avrebbe certo fatto notare.

«Bene...» annuì, per poi improvvisare una voce squillante «Clinica Starson, ultima fermata della corsa!»

La sentì ridere sommessamente dietro di sé, quasi contagiandolo.

Benché il loro arrivederci di tre anni prima non fosse stato dei più felici, gli sembrava doveroso rendere quella serata meno pesante di com'era stata fino a quel momento. Inoltre non aveva niente contro Marika, e ora che si trovava fuori e lontano dal Naughty Sunday sentiva di potersi rilassare un po', di poter allontanare i suoi perenni pensieri negativi almeno per qualche minuto e non recitare la parte dell'ex fidanzato ancora rancoroso e legato al passato.

Non senza qualche difficoltà, l'intrepida Marika scese dalla moto e poggiò finalmente i piedi per terra, in quel momento il suo volto si illuminò di nuova vitalità e sicurezza.

«Non metterò mai più piede su una moto.» proclamò solenne, con un sorriso sulle labbra rosee.

Vincent ridacchiò, stringendosi nelle spalle «Suvvia, non abbiamo nemmeno fatto il classico salto dal ponte rialzato!»

Lo scherzo non sembrò andare a buon fine, la ragazza mise le mani sui fianchi e ribadì «Appunto per questo non ci salirò mai più, prima che un certo genio del male decida di farmi provare anche questo brivido.»

«Genio del male? Mi piace. Vincent, il genio del male, suona bene.»

«Magari la prossima volta prendiamo un autobus.»

Ecco, quella era davvero l'ultima frase che avrebbe voluto sentire, la miglior frase utilizzabile per farlo indisporre, ciò che Marika avrebbe dovuto evitare di pronunciare se non voleva far scattare nel ragazzo un cambiamento radicale.

Nel momento in cui era uscito dalla stanza 302 del St Joseph's, l'ultimo posto in cui aveva visto la ragazza prima di quei tre anni di vuoto, aveva detto contemporaneamente addio a Marika e a ogni traccia di buonismo che si era trascinato dietro fino ai sedici anni. Aveva posto uno spartiacque a quel punto della sua vita, tra ciò che era stato prima e ciò che sarebbe venuto dopo, e lo aveva attuato cambiando giro di amicizie – l'unica eccezione erano stati i fratelli Morgan, uno dei pochi punti fissi nella sua vita.

Riaprire le porte al passato, ma soprattutto a quella persona che era l'incarnazione del passato che aveva cacciato brutalmente, era per lui inaccettabile.

Marika dovette leggerglielo in faccia, poiché aggiunse «Quella volta, in ospedale, hai detto che avremmo continuato la nostra conversazione quando sarei stata pronta. Ricordi? Ora lo sono.»

«No, ora sei sconvolta e confusa dalla gara, credimi.» tagliò corto lui, tornando a stringere il manubrio «Domani mattina ti sveglierai e mi ringrazierai mentalmente di avertelo fatto notare.»

Non aveva intenzione di rimanere un minuto di più lì, all'aria tiepida della notte che gli accarezzava il volto e gli ricordava che era stanco e vulnerabile in quel momento.

Le sue convinzioni e la sua volontà ferrea traballavano quando la stanchezza lo avvolgeva, non poteva permettere a Marika di approfittarne e fargli fare un passo falso, ne aveva già abbastanza di problemi.

Mentre muoveva un passo per darsi la spinta, però, la bruna riuscì a trovare le parole per colpirlo nel profondo e costringerlo a fermarsi.

«Vincent! Stai scappando di nuovo?» lo provocò, adesso più seria.

Vincent impiegò qualche attimo per raccapezzarsi, era rimasto sorpreso dall'ottima scelta di parole, dalla bravura di Marika, che ancora ricordava come giocare con lui; chinò il capo, dietro di lui la giovane allungò il collo nella sua direzione invece, curiosa di scrutare la sua espressione per leggerne i pensieri, ma quando il ragazzo tornò a fronteggiarla c'era solo un sogghigno ironico e cattivo sul suo volto.

«Ti piacerebbe? Ti farebbe sentire importante?»

La ragazza si ammutolì, a sua volta messa in difficoltà; i suoi ricordi non la ingannavano, conosceva Vincent abbastanza bene da riconoscere quando si metteva sulla difensiva. Tuttavia, non sapeva come rispondere a domande così prive di tatto.

«Non credere di potermi mettere con le spalle al muro così facilmente, Mary. Non sono più la persona che conoscevi.» continuò lui, il sorriso gli morì sulle labbra.

No, Marika non gli credeva, aveva avuto troppe prove che il ragazzino solo e insicuro che conosceva era ancora lì, davanti a lei, solo camuffato meglio. Dopo qualche attimo di silenzio, tornò a farsi valere.

«Io non credo, Vince.» ribadì, impuntandosi «La persona che vuoi farmi credere di essere è diversa da ciò che hai dimostrato stasera. Le persone non cambiano, ma maturano. Pensavo però che fossi maturato abbastanza da darmi una possibilità di rivalsa. Non mordo mica, sai? Non sono io il cane randagio*...»

Hound, era vero. Marika adesso sapeva il nome con cui era conosciuto in quell'ambiente e di certo ciò non giocava a suo vantaggio.

Che fare? Concederle un'occasione non era certo una tragedia, era qualcosa che prima o poi avrebbe fatto sicuramente, glielo aveva detto in ospedale; era lui in realtà quello non ancora pronto ad affrontare il passato, non era in grado di guardarla negli occhi davanti a una tazzina di caffè e sorriderle senza ricordare i momenti felici passati insieme. Non voleva, non poteva permettersi di tornare ad essere la persona debole che era diventata nel periodo in cui Marika era riuscita a fargli credere che poteva essere se stesso, senza bisogno di nascondersi dietro la maschera del ragazzo perfetto.

Quella maschera adesso funzionava nel miglior modo possibile, era capace di ingannare quasi tutti, di proteggerlo dall'insania e dalla brutalità del mondo che tanto lo... impauriva?

No, Vincent Black non poteva avere una paura tanto stupida, tanto imbarazzante.

Il suo mondo della notte, con le sue tenebre che nascondevano e avvolgevano corpi che si mescolavano, rendendoli irriconoscibili e nascondendo le deformità, era la sua dimensione ormai.

Farsi investire dalla luce calda e pulita di Marika avrebbe messo in risalto tutto quello sporco che il buio mimetizzava prudentemente.

Quella fu la sua irrevocabile scelta.

«Il nostro incontro è stato solo una coincidenza.» decretò, poi si voltò e le diede le spalle, prima di spingere sull'acceleratore «Buonanotte.»

Stavolta, mentre si allontanava tra le ombre della città, Marika non lo fermò, rimase invece al suo posto, coi lunghissimi capelli mossi dal vento e le mani strette al petto, osservando coi suoi occhi blu spento la schiena del ragazzo sempre più lontano, fisicamente e spiritualmente.

Si lasciò andare ad un sospiro malinconico, a seguito del quale mormorò piano parole dirette a nessuno «No, Vincent. Non sarà una buona notte fin quando non avremo fatto i conti.»

***

- La notte successiva –

Apparire e scomparire nelle tenebre era da sempre un'ottima tattica quando si voleva fare il colpo grosso, questo pensava Van Mourier, o almeno così gli aveva insegnato il detective Mochizuki, che ormai considerava suo mentore.

Lo aveva raccattato per strada quando non era niente più che un ragazzaccio senza speranze, dalla lunga e scompigliata zazzera rossa e gli occhi arrabbiati, orfano di padre, fatto a pezzi da una bomba durante la Guerra del Golfo, e con sulle spalle una madre incapace di superare il trauma e un'accusa di rissa in un pub; si era improvvisamente ritrovato a sedere in una sala interrogatori buia e nera, dove aveva per la prima volta incontrato gli occhi a mandorla e i lineamenti orientali del famigerato Furuya Mochizuki, il peggior detective di tutta Phoenix.

Peggiore dal punto di vista delle persone con cui lavorava, poiché non esisteva nessun cane da caccia migliore di lui, che col suo intuito imbattibile, gli informatori infallibili e la caparbietà di una persona ossessionata dall'idea di fare giustizia, non si lasciava scappare neanche il pesce più piccolo. Era il peggiore degli stacanovisti.

Nonostante a volte sembrasse vivere con l'unico scopo di mettere in cella tutti i criminali su cui riusciva a mettere le mani, il detective Mochizuki era un grand'uomo: esperto oratore, intellettuale interessato ad ogni branca della cultura e... ottimo cuoco.

Sì, perché per qualche motivo che Van non aveva mai compreso, quell'uomo dalle spalle larghe e il sorriso sardonico aveva improvvisamente deciso di prendere sotto la sua ala quell'allora maleducato quindicenne.

Conobbe il vero Furuya Mochizuki, una persona chiusa nella gabbia del passato, alla disperata ricerca del volto di chi, anni addietro, gli aveva strappato per sempre la sua amata moglie; imparò che dietro ogni uomo, non per forza famoso, si cela un dramma mai pienamente comprensibile da chi ne è spettatore, e nel silenzioso rispetto che ogni giorno cresceva dentro di sé verso quel giapponese che aveva trovato felicità, disperazione e un lavoro a cui dedicare la vita nel Nuovo Mondo, era entrato nella polizia, anche se solo temporaneamente. Il suo vero obiettivo era l'esercito.

Da ragazzo ribelle e testa calda ad austero portatore di giustizia, un bel cambiamento!

Da un po' di tempo, Van aveva cominciato a collaborare segretamente col detective Mochizuki dopo l'orario di servizio, alla ricerca della verità su quello che sarebbe certamente stato uno dei casi più importanti della sua vita: le attività illegali che si svolgevano all'interno del Naughty Sunday, uno dei locali più famosi, frequentati ed intoccabili di Phoenix.

C'era poco da discutere c'era sull'indubbia protezione del posto da parte di qualche politico o della criminalità organizzata: nonostante si fossero già recati sul posto per sopralluoghi senza mandato – una volta anche in borghese -, in qualche modo riuscivano sempre ad anticiparli, persino gli incredibili informatori di Furuya erano a corto di materiale al riguardo; non avevano abbastanza prove per attirare l'attenzione dei superiori, figurarsi aprire un'inchiesta o delle semplici indagini ufficiali!

Tutto ciò che avevano in mano, ed era anche piuttosto imbarazzante per entrambi, erano semplici voci e comportamenti sospetti.

«Sembra che ci siano stati parecchi incidenti a danni di motociclisti nella zona di Scottsdale, ieri sera.»

Furuya richiamò l'attenzione di Van con quella semplice affermazione, che sembrava invitarlo a un esame di intuito.

Il rosso perse qualche attimo a ragionarci sopra; rivolse gli occhi nocciola, fino a quel momento puntati sul Naughty Sunday davanti a loro, alla propria sinistra, verso il sedile del guidatore al quale sedeva l'altro.

«Guida in stato d'ebbrezza?» ipotizzò, l'ora tarda atrofizzava le sue capacità di deduzione «È abbastanza normale la domenica sera.»

«Gara motociclistica clandestina.»

Senza pietà, Furuya distrusse la sua teoria con un'espressione rilassata e perfettamente a proprio agio.

Erano chiusi in quella macchina, una Ford blu di una decina d'anni, da due ore e mezza, un finestrino aperto dal quale usciva una nuvoletta di fumo della sigaretta tenuta pigramente tra due dita da Van, che tentava di rimanere sveglio in tutti i modi e concentrarsi sulle facce dei clienti.

Accanto a lui, Furuya non aveva rinunciato all'abituale camicia a maniche lunghe nonostante il caldo di luglio, tamburellava con le dita sul suo block note – da molti scherzosamente chiamato 'il libro nero' – appoggiato sul volante, aperto ad una pagina quasi del tutto ricoperta della sua calligrafia quasi elementare, pulita ed ordinata di chi ha imparato a scrivere in caratteri occidentali da adulto.

Con fatica, Van represse uno sbadiglio decisamente poco appropriato alla situazione, si tirò a sedere composto sul sedile e abbandonò ciò che restava della sigaretta nel porta cicche.

Alzato un sopracciglio, con l'incertezza che gli si leggeva chiara in volto, domandò «È possibile?»

Furuya annuì, senza spostare gli occhi dal Naughty Sunday «Sì, se hai qualcuno a coprirti le spalle.»

Non c'era bisogno di aggiungere niente, Van conosceva i loro superiori e non poteva dare torto al detective se aveva così poca fiducia in alcune persone, non sarebbe rimasto molto stupito se fosse saltata fuori qualche losca connessione con i proprietari del locale.

La cosa che lo lasciava perplesso, però, era sapere che Lacey Smith, la padrona, aveva un anno in meno di lui: era possibile per una ragazza di ventisette anni mettere in piedi un simile giro senza che nessuno osasse tradirne i segreti? C'era qualcuno dietro di lei, una master mind che muoveva i fili? Se sì, di chi si trattava, e qual era il suo scopo? Contro chi si stavano mettendo?

Diverse voci circolavano per i bassifondi di Phoenix, principalmente su giri di prostituzione gestiti dal Naughty Sunday, ma chiunque avrebbe saputo riconoscere una prostituta con un semplice colpo d'occhio, e invece quel luogo sembrava solo pieno di clienti di classe, e quei pochi che erano riusciti ad adocchiare e 'smascherare' si erano presentati come banalissimi host, un mestiere più che legale.

Avevano addirittura dei documenti magicamente sempre a portata di mano.

La presa in giro era così plateale da essere quasi insopportabile, Van era sempre più motivato a mettere in luce le verità del Naughty Sunday anche a costo di passare accampato in macchina ogni notte della sua vita.

«Eh...» sospirò, innervosito «Non bastava l'assurdo aumento degli stupri, ora anche le gare motociclistiche in pieno centro abitato. Questa città sta diventando pazza!»

La sua espressione dovette risultare divertente agli occhi di Furuya, che si lasciò andare a una risata divertita «Vivi qui da tempo, dovresti sapere che Phoenix è pazza.»

Qualche minuto dopo, una macchina nera attraversò la strada ed entrò nel parcheggio del club, alla guida vi era una donna dai capelli biondi lunghissimi e chiarissimi e gli occhi coperti da un paio di lenti oscurate.

Benché l'auto dei due uomini fosse lontana e parcheggiata dall'altro lato della strada, al buio e con ogni luce spenta, poterono notare distintamente la bionda lanciare loro un veloce ma intenso sguardo, prima di sparire dietro l'angolo.

«... Era lei.» sibilò Van, con la fronte corrugata.

Era il braccio destro di Lacey Smith, la depositaria di chissà quanti segreti, la silenziosa e gelida guardia del corpo che tutti chiamavano semplicemente Replica, un nome che sembrava adatto a un robot uscito da qualche film fantascientifico.

Il rosso cercò conferma nel suo collega, il quale non aveva ancora distolto gli occhi dall'ingresso affollato di persone apparentemente felici, addirittura euforiche.

Senza un'ombra di dubbio sul volto serio, affermò «Sì, era lei: il personaggio più misterioso di questa storia intricata.»


Note:

#1: Marika si riferisce a Hound, che significa appunto cane da caccia.

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