26. The night is about to end (3)
Arco III: Redemption
Capitolo 26: The night is about to end (3)
Il primo pensiero di Lacey fu abbastanza deludente persino per lei stessa: "Ho le allucinazioni."
Ma non si trattava di allucinazioni, né di sogni ad occhi aperti o altro, stava assistendo al reale svolgersi degli eventi: l'allontanarsi dei fratelli Black, la schiena di Vincent che spariva al di là della possente porta in acciaio, Jonathan che lo faceva andare per primo... per poi chiudersi dentro. In trappola. Con lei.
L'urlo disperato di Vincent, i pugni contro l'acciaio, i ripetuti «Apri! Apri questa dannata porta!» la raggiunsero come uno schiaffo.
Qualcosa era andato storto. Non si era trattato di un errore o di un suo trucco: Jonathan si era volontariamente precluso l'unica via di fuga. Perché?
Lacey lo chiese in un sussurro, quasi temendo la risposta. Ma lui non sembrò sentirla.
«Jonathan!» ancora Vincent, incontrollato come Lacey non lo aveva mai sentito.
«Cos'è successo?» ah, stavolta era l'albino di cui non sapeva il nome.
«Andatevene!» esclamò categorico Jonathan, in un'evidente battaglia con se stesso «Giles, portalo via!»
Fuori da quella trappola mortale, Giles comprese i motivi di Jonathan molto prima di Vincent, che si dibatteva contro l'ostacolo che li divideva, cercando di forzarne la serratura o di buttarlo giù a spallate o calci.
«Cosa ti passa per la testa?! Io non me ne vado da qui senza di te!» ma neanche mettendoci tutta la sua forza sarebbe riuscito a sfondare tre metri di portone «Perché cazzo hai chiuso questa porta?!»
Giles lasciò scivolare per terra il corpo di Shaun e si affiancò al ragazzo: non avevano tempo, ma era loro dovere per lo meno tentare di salvare Jonathan dalla sua stupida ed emotiva scelta.
«Fammi spazio.» intimò al giovane, strinse le mani intorno alla maniglia e la abbassò.
Insieme tentarono il possibile, ma la loro forza non sembrava bastare, probabilmente non sarebbe bastata neanche quella di dieci uomini contro un meccanismo simile.
Sgolandosi perché la sua voce raggiungesse il fratello, Vincent urlò «Dì a Lacey di aprire! Lei deve conoscere un modo per aprire!»
E invece no, Lacey non lo conosceva, perché non esisteva e basta. Jonathan si voltò verso di lei, sul cui volto lesse, tra paura e confusione, solo la conferma dei suoi sospetti. Strinse i denti; doveva convincere Giles a portare via suo fratello, prima che fosse troppo tardi.
Si accostò a quei pochi millimetri di spazio tra la porta e la parete, neanche Jonathan stesso sapeva dove stava trovando la forza di mantenere i nervi saldi, la verità era che tremava di paura e non voleva morire «Non c'è un modo per aprire. Andatevene! Dio santo, Giles, portalo via prima che saltiamo in aria tutti!»
«Non puoi pretendere che se ne vada senza delle risposte, Jonathan!»
Un chiaro messaggio: deludilo, dagli un motivo per volerti lasciare qui. L'uomo scoccò uno sguardo all'orologio: undici minuti. Non aveva il tempo di inventare una scusa, confidò che la verità sarebbe bastata e avanzata a convincere Vincent, ma scelse di renderla ancor più cruda, di usare il tono di voce più distaccato che aveva.
«Ci vuole così tanto a capirlo? Ho deciso di rimanere con quella visionaria ingrata, Vincent. Perciò ora vattene il più in fretta possibile.»
«Stronzate!»
Ah, quel ragazzo! Non solo lo costringeva a parlargli in quel modo nella speranza di distruggere ogni residuo di affetto che li legava, per di più lo smascherava con tanta facilità!
"Immagino che dopotutto sia mio fratello..." pensò, ma nel formulare quella frase uno strano vuoto opprimente gli premette contro il petto.
Era difficile dire addio a Vincent.
Nel frattempo, Giles sentiva ogni attimo in meno gridargli di scappare; afferrò violentemente le spalle del ragazzo e lo scosse, costringendolo a guardarlo «Vincent, dobbiamo andare. Avvertiremo l'FBI, forse loro saranno in grado di fare qualcosa.»
No, lui non ci stava, non ne voleva sapere. Si scrollò di dosso le mani dello psicologo con rabbia, tremando inconsapevolmente «No! Non muoveranno un dito! Io non me ne vado senza mio fratello!»
Giles sospirò; sarebbe stato più facile avere a che fare con un bambino capriccioso che con un adolescente in procinto di perdere l'unico famigliare rimastogli accanto. Negli occhi disperati di Vincent leggeva un chiarissimo messaggio: non sarebbe riuscito a portarlo via da lì a meno che non fosse stato lui a volerlo, ma quest'eventualità gli sembrava più che mai remota.
Lo lasciò andare, ignorando Jonathan che gli ripeté ancora una volta di portarlo via, quindi tornò al cadavere di Shaun e se lo caricò addosso, accompagnandosi con poche parole «C'è bisogno che almeno uno di noi torni indietro, o sarà stato tutto inutile. Manderò qualcuno a prendere Vincent.»
«Giles, dannazione!» Jonathan non gliel'avrebbe perdonata, benché capisse il perché di quel comportamento «Non farlo! Portalo con te!»
Giles era sempre stato così irragionevolmente logico, incapace di manifestare emozioni, ma non doveva essere suo fratello a pagarne le spese. Lo sentì allontanarsi a passi veloci, correndo per raggiungere la superficie nel minor tempo possibile, mentre il suo orologio segnava dieci minuti all'esplosione.
Si sentì pervadere da una gelida sensazione di tristezza e insicurezza: chiuso lì dentro era impotente, non poteva far nulla se non sperare che Vincent si decidesse a scappare.
A meno di un metro di distanza, il fratello minore aveva inconsapevolmente iniziato a piangere.
Teneva i pugni sull'acciaio duro, lo picchiava come se quello fosse stato il suo unico scopo nella vita, guadagnando solo botte su botte e producendo un rumore continuo di colpi ed esclamazioni di dolore, fuori di sé al punto da non controllarsi più, fin quando sentì la spalla destra gonfia, le dita spaccate e il calore del sangue che scorreva e gocciolava.
Non avrebbe ceduto, non si sarebbe arreso, non potevano togliergli anche Jonathan! Ricominciò a scagliarsi con tutto il suo peso sulla porta col lato sinistro del corpo: una, due, tre, poi cinque, sette, dieci volte, all'undicesima per errore batté la testa e si accasciò con un mugolio che sembrava più il latrato di un cane maltrattato.
«Basta così, Vincent.»
La voce di Jonathan era più vicina, forse si era inginocchiato anche lui.
«Ho detto che non me ne vado!» esplose però lui, non riconoscendo la propria voce, tanto era distorta da un nodo alla gola.
Appoggiò i palmi per terra, trovando difficile persino stare seduto. Si sentiva malissimo, sia fuori che dentro, non riusciva a trattenersi più. Tutti gli anni passati ad immagazzinare emozioni, a creare sul proprio volto una maschera invincibile, tutte le lacrime miracolosamente trattenute, tutto era crollato in mille pezzi. Esattamente come aveva predetto Marika.
Ecco la definizione esatta: si sentiva a pezzi.
Non gli importava più se mostrare insicurezza avrebbe portato il mondo a colpirlo ancora più forte, se il perfetto Hound era stato definitivamente soppiantato dall'insicuro Vincent, se piangere in quel modo era ridicolo per un uomo: non voleva perdere anche Jonathan.
«Perché... l'hai dovuto fare? Io non voglio che tu muoia...» biascicò con difficoltà tra le lacrime, che scendevano lungo le guance in fiamme.
«Neanche io volevo...» sentì, più vicino di prima «Alla fine non sono stato in grado di scegliere te, Vì. Non posso abbandonarla qui... sono un pessimo fratello, mi dispiace, ma non potevo permettere che anche tu rimanessi vittima della mia pazzia.»
«Tu sei sempre stato così...» replicò Vincent, mettendo in quelle parole tutto il veleno che poteva «Pretendi che gli altri capiscano sempre le tue buone intenzioni e non ti metti mai nei panni degli altri. E ancora non mi perdoni per qualcosa di cui mi sono pentito.»
C'era ancora una cosa in sospeso tra loro: gli errori di Vincent nel passato anno, dalla violenza a Lacey alla decisione di vendere il suo corpo. Cose su cui il ragazzo aveva ragionato fino alla nausea, fin quando la consapevolezza, la vergogna e il disgusto per se stesso non lo avevano schiacciato; Jonathan ancora non gli aveva perdonato quelle azioni.
Lacey, che nel frattempo si era fatta forza e avvicinata, col braccio penzoloni e il viso stravolto, si fermò dietro Jonathan, lo sguardo basso e in qualche modo pentito.
Prese un respiro profondo, poi, mortificata, svelò finalmente la verità «Vincent non mi ha fatto niente. Sono stata io a contagiarlo.»
Entrambi i fratelli strabuzzarono gli occhi, rimanendo senza parole davanti a quella confessione inaspettate, che stravolgeva tutto. Il motivo principale della distruzione del loro rapporto fraterno si era rivelato falso, e ora... ora Vincent si sentiva ancora più arrabbiato.
La Madre si chinò accanto a Jonathan, senza appoggiarsi a lui per paura di essere rifiutata: non poteva non essere sincera con lui, che aveva scelto la morte pur di non abbandonarla. Era un finale troppo romantico per lei, non se lo meritava.
Lo sguardo eloquente di Jonathan bastò a rompere l'idillio e a farle gravare sulle spalle il peso di ciò che aveva fatto: d'improvviso quella vendetta e tutto ciò ne era seguito, ora che era davanti alla morte, le pareva tanto sciocca e immotivata.
«Mi dispiace, Vincent...» si scusò a bassa voce, sperando che il ragazzo la sentisse.
Anche l'uomo si accodò alle scuse «Dispiace anche a me di non aver avuto fiducia in te.»
Ma dopo di ciò seguì un lungo silenzio, tanto lungo che Jonathan temette che fosse accaduto qualcosa «Sei ancora lì?»
In risposta, si sentì un debole strofinare di unghie contro la porta.
Jonathan sospirò, rassegnato e col cuore in gola: che cosa poteva fare?
«Ascolta, Vincent.» provò ancora, incapace di arrendersi e disposto ormai a tutto «Devi capire che il mondo non può sempre girare come vuoi tu, e-...»
Vincent non udì altro, gli bastò la prima parte di frase per sentire l'ira montare come un'onda, falciare ogni residuo di lucidità in lui e distruggerlo con la forza di una valanga: era questo che Jonathan pensava di lui, che era solo un ragazzino abituato ad avere tutto?
Interruppe le sue parole come una tempesta impazzita, sollevando la testa per non trovare il volto di nessuno a guardarlo di rimando.
«Come voglio io? Il mondo non ha mai girato come voglio io!» assestò un pugno all'acciaio della porta, sentendo le nocche crocchiare «Io non ho mai voluto che mamma se ne andasse o che papà finisse in coma! Non volevo neanche vivere con una famiglia che odio, lontano da voi! Non ho voluto rimanere contagiato e prostituirmi! E adesso mi vuoi togliere anche l'unica persona che mi è rimasta?! Tutti non fate altro che ricordarmi quanto io sia una persona orribile, egoista o crudele, ma vi siete mai chiesti perché lo sono e chi mi ha portato a diventarlo?!»
Silenzio.
«RISPONDIMI!»
Un altro pugno fu scagliato, il più forte che gli riusciva, carico di delusione, amarezza e angoscia, ma ancora nessuna risposta.
Vincent si sentì sprofondare e non solo metaforicamente; strinse le spalle, abbassò la mano, sanguinante, la testa e, più di tutto, la voce «Avrei tanto voluto che qualcuno lo facesse...»
«Mi dispiace...» Jonathan non riuscì a dire altro.
Sapeva di non aver provato abbastanza, di essersi arreso nel momento in cui il loro rapporto si era spezzato, un anno prima, e oltre lui nessuno aveva mai davvero provato a capire cosa pensasse Vincent, né l'impegnata Liza, né il timoroso Thomas.
Tutti avevano sempre semplificato: Vincent era un ragazzo troppo chiuso e arrabbiato, non valeva la pena tentare di buttar giù i muri della sua solitudine.
Avevano sbagliato, e avevano così portato una persona sull'orlo dell'abisso.
Sentì suo fratello muoversi al di là della porta, forse mettersi in piedi, prima che un cupo e spento «Addio, Jonathan...» confermasse che Vincent se ne stava andando.
Jonathan non esitò a salutarlo con un sentito «Ti voglio bene.»
Quando anche l'ultima eco dei passi del diciannovenne venne inghiottita dal silenzio, si concesse di appoggiare le spalle alla parete, apprensivamente chiedendosi se ce l'avrebbe fatta a salvarsi. Fece una silenziosa preghiera a qualcuno che non pregava da molti anni, prima di incontrare infine gli occhi limpidi di Lacey.
Ella gli era accanto, si concesse con una buona dose di coraggio di appoggiarsi al suo braccio e lui non la respinse: il loro epilogo si sarebbe svolto lì, due innamorati a cui era concesso di stare insieme solo a otto minuti dalla morte.
«Se questo fosse un film ed io uno dei personaggi protagonisti...» Jonathan alzò lo sguardo verso l'involucro, senza però guardarlo con attenzione «Farei causa al regista. Che brutto finale!»
La donna rise, sincera e discreta come non lo era da troppo tempo.
«Per quanto mi riguarda, non mi lamento.» chiuse gli occhi, spostando la mano ferita sul proprio grembo «Ho perso tutto, ma alla fine ho la cosa più importante.»
Sentì le mani grandi e calde dell'uomo avvolgersi intorno alla sua «Mi dispiace per questa. Ma non puoi dire di non essertela meritata. Lacey, non ti perderò per quel che hai fatto, sappilo, ma non ti abbandonerò neanche.»
Anche lei aveva pensato che fosse tutto finito e seppellito per sempre tra loro nel momento in cui le aveva sparato, ma ora non importava più; e poi lo aveva fatto per difendere Vincent. Si sentiva così stupida e infantile adesso, ripensando a quanto era stata invidiosa del ragazzo al punto da desiderare che non fosse mai nato.
«Va tutto bene. Suona egoista, lo so, ma sono felice che tu sia rimasto.» c'era qualcosa di estremamente sbagliato nel sollevo che il suo amato avesse deciso di morire con lei «Forse è vero che sono un po' pazza. Come Vincent.»
Jonathan annuì, inspirando a pieni polmoni quanta più aria possibile «Lo siamo un po' tutti.»
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