15. The Quarantine (3)

Arco II: rEvolution

Capitolo 15: The Quarantine (3)

Dopo l'incontro con Violet non lo trattennero a lungo: gli fornirono un cellulare particolare, la cui linea non era intercettabile, col quale avrebbero comunicato in futuro. Quindi lo accompagnarono dall'ufficio al garage, dove lo aspettava qualcuno che lo avrebbe portato nella Central City; attraversando i lunghi, bui e freddi corridoi della base, Vincent pensava a quanto tutto quel che accadeva fosse troppo simile a un film di spionaggio, con la differenza che lui non aveva la minima esperienza come spia o agente segreto.

Fu felice di non aver avuto il tempo di vuotare il sacco anche sulle pillole che contenevano la dipendenza, se gliele avessero tolte sarebbe stato in un bel guaio.

Durante le due settimane a Seattle erano state una specie di manna dal cielo.

L'aria era stantia e asfissiante, o forse era solo una sua sensazione, la situazione lo portava ai limiti dello stress: non riusciva a ragionare su ciò che avrebbe dovuto fare di lì in poi senza che una terribile ansia gli attanagliasse lo stomaco e gli facesse salire brividi lungo la colonna vertebrale.

Più volte si strinse nel suo cappotto rosso, cercandovi conforto, mentre due uomini in giacca e cravatta – avevano dei volti talmente anonimi che li si sarebbe potuti incontrare ogni mattina alla posta o in stazione –, talmente silenziosi da ricordargli l'algida Replica, lo scortavano.

Presero un ascensore e scesero dal settimo piano al sotterraneo, quando si aprirono le porte si ritrovò davanti a uno dei garage più grandi che avesse mai visto: dove diavolo si trovavano? Ad attenderlo poco distanti c'erano una normalissima ford e...

Il detective Mochizuki e l'agente Mourier.

Il primo era in piedi accanto allo sportello del sedile anteriore del passeggero, mentre l'altro stava al posto di guida, con il finestrino abbassato ed un gomito appoggiatovi, sembravano entrambi nervosi.

Quando il gruppo si accostò al duo, uno dei due agenti della FBI spinse il ragazzo verso il detective giapponese «Da adesso è vostro. Portatelo nella Central City e assicuratevi che nessuno lo segua.»

«Ci pensiamo noi.» annuì il moro, per poi aprire la portiera a Vincent «Su, ragazzo, sali.»

Il bruno non se lo fece ripetere due volte: Furuya Mochizuki e Van Mourier collaboravano con l'FBI, forse ne erano parte loro stessi, ma si fidava cento volte più di loro che di Violet Alraven.

"Non posso credere che tutto questo mi stia capitando solo perché ho seguito Lacey quella sera..." sospirò, si sentiva stanco e provato, sia dal volo che dai brutti eventi.

Caricò il borsone sul sedile e poi vi si accasciò contro, scoccando sguardi curiosi al rosso al volante; i loro occhi si incontrarono, Van lo fissò con una tale intensità che si sentì a disagio e abbassò la testa.

Dopo neanche un minuto, anche Furuya salì in macchina e fece cenno al collega di mettere in moto, partirono ed abbandonarono finalmente quel luogo. Ma con grande delusione di Vincent, quando salirono una scivola molto lunga e si ritrovarono in superficie, si rese conto di non riconoscere la zona in cui erano: palazzi mai visti, strade sconosciute, l'unica cosa certa era il deserto alle porte.

«Ti sei messo proprio in un bel guaio, Stephan Black.» sorrise sarcastico Furuya, attirando la sua attenzione.

«Vincent.» lo corresse il ragazzo, anche se in quel momento gli sembrava la cosa più stupida e superflua del mondo: tutto pur di non sentire parlare ancora di virus H, progetto E, Lacey Smith e Violet Alraven.

«Vincent.» la correzione venne accettata bonariamente, poi il detective allungò una mano verso la radio «Vuoi un po' di musica rilassante? Hai la faccia di chi ha appena visto il diavolo.»

Van rise sarcastico «Ha visto di peggio: la Alraven!»

Non immaginava che quel poliziotto perennemente sulle sue e cupo fosse in grado di ridere, ma neanche quella scoperta valse a riaccendere la luce nei suoi occhi vacui, persi in mille ragionamenti interiori. I due agenti ebbero modo di scoprire che Vincent era capace di passare molto tempo chiuso in se stesso, in silenzio, con l'espressione di chi rimugina così profondamente da sembrare in trance.

Dopo trenta minuti di strada, Furuya ruppe il silenzio «Ragazzo, sei tra noi?»

Da dietro sentì alzarsi un incerto «S-sì...»

«Sembri un'altra persona di notte, in quel postaccio.» non poté fare a meno di notare Van, e Vincent non poteva dargli torto: al Naughty Sunday era Hound, qualcuno di completamente diverso.

Cercò di replicare qualcosa, ma non riuscì a formulare nulla se non un sommesso mugugno; era confuso, estremamente confuso, tanto da non saper più come comportarsi.

«Da oggi noi siamo la tua scorta, non sei contento?» Furuya si voltò e gli sorrise, Vincent lo trovò però solamente irritante, c'era un che di sardonico e ipocrita nel suo modo di rivolgersi «Nella rubrica del telefono che ti hanno dato ci sono anche i nostri numeri, se accade qualcosa chiamaci. Noi ti terremo comunque sotto controllo, l'FBI non vuole che accada niente al suo unico nesso con Lacey Smith.»

Vincent impallidì: ottimo, adesso sarebbe stato vittima di stalking sia da parte di Replica che da parte dei due agenti; dopotutto l'FBI non poteva permettersi di perdere il suo nuovo giocattolo.

Alzando un po' la voce per sovrastare il rumore del motore chiese, mentre iniziava a riconoscere qualche strada intorno a loro «E gli altri? I... miei amici e la mia famiglia, intendo. L'FBI ha promesso che proteggerà anche loro.»

Furuya fece uno strano rumore con la bocca, un'espressione indolente e leggermente irritata accompagnò l'occhiata obliqua che rivolse al rosso «Ho dei conti in sospeso con quelli, io. Mio giovane collega, perché non intervieni tu al mio posto? Potrei dir cose che non mi verrebbero perdonate.»

Van annuì deciso, professionale come sempre, per poi svoltare a destra «Il patto era la tua collaborazione in cambio di impunità per i tuoi reati e protezione per te e, se necessario, le altre persone coinvolte nella faccenda.»

«Che conti in sospeso ha con loro?» senza preoccuparsi di risultare inopportuno, Vincent si sollevò ed allungò verso i due davanti, rivolgendosi al detective.

Non che Furuya avesse l'aria di voler rispondere, ma dovette in qualche modo provar pietà o qualche sentimento positivo nei confronti del ragazzo – forse era il suo volto così esageratamente giovane ad intenerirlo -, cosicché inspirò e rispose in tutta franchezza «Li ho visti molte volte rigirare le carte a loro vantaggio. Mi ero promesso che dopo la morte di mia moglie non avrei avuto più niente a che fare con loro, ma eccomi qui.»

Vincent non capì bene a cosa si riferisse, quell'uomo era troppo misterioso ai suoi occhi, ma dedusse che gli costava molto fare quell'ammissione; gliene sarebbe stato grato se non lo avessero praticamente venduto all'FBI.

«Se sei rimasto coinvolto in questa faccenda è solo colpa nostra, Vincent Black. Hound.» continuò il moro, mentre rallentavano per fermarsi a un semaforo «Se avessi saputo prima i loro piani, non avrei fatto il tuo nome. Non si fanno scrupolo persino nell'usare un ragazzino di neanche vent'anni. Se loro ti tradiranno, noi saremo dalla tua parte.»

Finalmente attraversarono un incrocio e furono nella Central City, Vincent la riconobbe immediatamente; si appoggiò allo schienale e socchiuse gli occhi, guardando fuori dal finestrino.

Con appena un filo di voce mormorò «Mi hanno teso troppe mani. Perché dovrei fidarmi proprio di voi?»

«Perché anch'io sono infetto.»

Vincent strabuzzò gli occhi, scioccato: a parlare era stato Van, e tutt'un tratto quell'occhiata rivoltagli prima assunse tutt'un altro significato.

«Se i federali vogliono il sangue della Madre, dubito non sia anche per scopi militari, mentre la LIFE vuole portare a termine quel piano megalomane. Io voglio solo una cura per me e la mia fidanzata: non mi importa dei benefici che il virus H può dare, non permetterò che i miei figli nascano affetti da una malattia sconosciuta. Questo è quanto, fattelo bastare.»

Non se lo aspettava, avrebbero potuto leggerglielo in faccia; certo, immaginava che buona parte della popolazione di Phoenix fosse già sotto l'influsso del virus, ma non si era posto nemmeno per un attimo il dubbio che lo fosse anche Van Mourier, quell'uomo che sembrava l'incarnazione del rigore.

Guardò con aria interrogativa anche Furuya, che sorrise di nuovo in quel modo sornione, adocchiandolo attraverso lo specchietto retrovisore.

«Tutti ti hanno costretto a collaborare, ragazzo. Noi ti stiamo offrendo il nostro supporto dandoti la possibilità di scegliere, questo dovrebbe farti riflettere.» spiegò paziente, fin troppo convincente.

In effetti loro due sembravano gli unici ancora sani di mente in quel groviglio infernale.

Ma Vincent non voleva scegliere, non ora per lo meno, così si chiuse di nuovo in un ostinato silenzio, fin quando non furono a un isolato da casa sua e lo fecero scendere: non dovevano destare sospetti, lui sarebbe arrivato a piedi da solo, ma loro lo avrebbero sorvegliato da lontano.

Mentre scendeva, rimettendosi in spalla il bagaglio, Furuya gli parlò un'ultima volta, e stavolta così serio e grave da mettergli quasi paura.

«Vincent Black.» disse «Questa è una quarantena. Pur adottando le migliori strategie di controllo del panico di massa, la gente andrà in paranoia presto. La situazione potrebbe diventare dura, se non addirittura pericolosa. Prenditi cura di te e di chi hai a cuore.»

Vincent fu scosso da un brivido, ma annuì.

***

La chiave girò fin quando la serratura non scattò, la porta venne aperta e Vincent finalmente poté respirare la familiare aria domestica.

«Sono a casa!» fece a voce alta quando fu dentro, appoggiando il borsone sul parquet.

Ebbe il tempo di appendere all'appendiabiti il cappotto rosso ed inspirare profondamente – si sentiva finalmente al sicuro e ciò era impagabile – che dal piano di sopra ci fu un gran rumore di sedie spostate e passi che si muovevano in direzione delle scale; in pochi secondi Jonathan e Thomas raggiunsero la cucina, avevano in volto delle espressioni ebeti.

«Che ci fai tu qui?!» chiese Jonathan, che fu il primo a raggiungerlo.

Vincent alzò un sopracciglio, abbozzando un sorriso provocatorio «... Ci abito?»

Non era la risposta che suo fratello voleva e glielo si lesse in volto, ma il giovane lo ignorò in favore del padre, che gli si accostò trafelato «Vincent! Ti hanno fatto entrare in città?»

«Oh, ehm... sì. Alla fine sì.»

«E i federali?»

Oh, quindi Jonathan aveva parlato. Vincent scrollò le spalle, inventandosi la prima cosa che gli venne in mente «Stanno cercando i cittadini fuorisede. Hanno esaminato ogni passeggero del volo e ci hanno spediti a casa. Un po' di disorganizzazione, ma non è una novità.»

E si premurò di specificare che gli avevano già assicurato di essere sano come un pesce; padre e fratello sembrarono tranquillizzarsi un po'.

«Ho provato a chiamarti, anche se la quarantena è stata indetta quando l'aereo era già in volo...» Thomas sembrava molto preoccupato, tanto che cominciò un vero e proprio terzo grado su come stava, se lo avevano trattato bene, se aveva avuto problemi, come era tornato a casa e...

«Stop!» sbottò il ragazzo a un certo punto, le mani alte «Ne discuteremo a pranzo, ho una fame da lupi!»

Ora di pranzo era già passata, in effetti, ma Thomas mandò Jonathan a cucinargli qualcosa mentre lui lo aiutava coi bagagli; l'occhiata torva che il fratello gli indirizzò la disse lunga sul fatto che dopo il pasto avrebbero dovuto parlare in privato. Vincent lo ignorò, facendosi viziare un po' da quelle rare attenzioni di suo padre: da quando era finito in ospedale sembrava che Thomas avesse finalmente deciso di mettere da parte ogni indecisione ed essere un genitore presente.

«E questo?» gli chiese mentre si faceva carico del borsone, riferendosi al cappotto rosso.

Il figlio rispose con un accenno di imbarazzo «Me l'ha regalato la mamma...»

Notò l'ombra di un sorriso malinconico e nostalgico del volto dell'uomo, ciò lo riempì di tristezza: un tempo l'argomento Liza era stato un tabù con Thomas, al quale non era mai andato giù il tradimento dell'ex moglie, ma sembrava che ora si fosse finalmente lasciato alle spalle il passato, riuscendo a ricordarla e persino sorridere al suo ricordo.

Per un attimo Vincent si chiese se provasse ancora qualcosa per sua madre, tuttavia privo di quella infantile speranza di rivederli un giorno insieme che lo aveva accompagnato per molti anni.

«Ci avrei scommesso, è proprio nel suo stile.» annuì, per poi mettere un braccio sulle spalle del figlio e accompagnarlo di sopra. Nonostante la grande apprensione, sembrava al settimo cielo di riavere entrambi i suoi ragazzi con sé.

Mentre svuotavano il borsone, Thomas gli raccontò di come quella mattina fosse stato impedito ai cittadini di andare a lavorare e imposto di chiudersi in casa, ad attendere un censimento generale e un breve controllo medico che prevedeva un prelievo di sangue. Era stata infine proclamata la quarantena: avrebbero potuto riprendere le loro normali attività dall'indomani, ma era assolutamente proibito varcare il perimetro urbano, sia per entrare che per uscire.

Risolvere i problemi dei pendolari, di viaggiatori e turisti, di coloro che erano solo di passaggio a Phoenix e che erano rimasti bloccati, e in generale di chiunque messo a disagio dal blocco era una priorità per cui il governo si stava già mettendo in moto.

Tutto coincideva perfettamente col quadro dipinto da Violet: l'FBI stava dimostrando di avere sotto controllo ogni cosa, probabilmente a quell'ora la LIFE e Lacey stavano già facendo piani di guerra.

Thomas gli mostrò anche il cerotto sul braccio e Vincent si rabbuiò.

«Non hanno detto niente sul motivo della quarantena?» domandò, temendo che si scoprisse che anche suo padre era infetto: non aveva mai nemmeno considerato l'ipotesi, il solo pensarci lo innervosiva.

L'altro scosse il capo «Solo che non si tratta di una malattia mortale. Stai lontano dagli ospedali e dagli ambulatori se non è necessario, tra ipocondriaci e persone giustamente preoccupate sono subito stati assaltati e asserragliati e c'è già stato qualche incidente.»

«La situazione precipiterà velocemente, secondo te?»

Glielo lesse in faccia che sì, era così, ma Thomas volle comunque provare a rassicurarlo senza nascondergli la verità «Il panico s'impossesserà della gente se non verranno dati continui aggiornamenti sulla situazione. Evitare il panico di massa non è semplice, anche una stupida diceria può scatenare una rivolta; probabilmente il governo chiederà l'appoggio di noi giornalisti per mantenere l'ordine. Ma pensa ai pendolari o a chi qui è solo di passaggio e non ha un posto dove andare. Pensa alle famiglie separate, come stava per succedere a noi.»

«Non manterranno a lungo i nervi saldi.» ragionò il ragazzo, sedendosi sul proprio letto con aria avvilita.

«No, infatti.» Thomas invece lanciò un lungo sguardo fuori dal finestrone, alla città in fermento «Né cibo e acqua dureranno in eterno, i rifornimenti dei supermercati diventeranno più lenti, e lo stesso vale per il gasolio e la benzina, per non parlare delle medicine. L'assalto alle farmacie e ai negozi di alimenti è già iniziato, tornando a casa ho visto file interminabili.»

Era tutto così terribilmente pauroso...

«Sembra un film sull'apocalisse...» mormorò Vincent, visibilmente intimorito.

«La realtà è più agghiacciante di qualsiasi film tu possa vedere, Vince.» Thomas fece quella considerazione senza ragionare sull'effetto che avrebbe avuto sul figlio, tanto che quando tornò a guardarlo e lo trovò quasi pallido si affrettò ad aggiungere «In ogni caso noi non abbiamo niente da temere. Abbiamo scorte in quantità e siamo sani come pesci! Anche se, Vincent, non voglio che esci di casa a meno che non sia strettamente necessario, d'accordo?»

Il ragazzo annuì, consapevole che avrebbe dovuto comunque infrangere la regola: doveva agire il più in fretta possibile per appropriarsi della cura e del sangue di Lacey. La persona che poteva mettere fine alla quarantena era lui, prima che qualcuno desse di matto.

Decisero a quel punto di mettere da parte l'argomento e scendere al piano di sotto, dove Jonathan aveva preparato hamburger e insalata.

«Roba verde...» borbottò Vincent con un'espressione scontenta.

«Non ti bucherà lo stomaco, mangia.» un'occhiataccia lo raggiunse fulminea, tanto che il ragazzo gettò la spugna e si sedette composto.

Contro ogni previsione, anche padre e fratello si accomodarono: era raro che passassero un pasto tutti insieme, Vincent non ricordava quando era stata l'ultima volta.

L'atmosfera del pranzo fu piacevole; parlarono dell'esperienza di Vincent a Seattle e di come si sarebbero dovuti organizzare nei giorni successivi. Capitò qualche volta che Thomas incespicasse o si bloccasse d'improvviso, non sapendo bene come reagire per non risultare noioso agli occhi del vivace figlio minore, il quale non sembrava mai a corto di opinioni e parole. Sapeva che Vincent era una persona sagace, ma non ricordava fino a quel punto, risultava quasi difficile stargli dietro in certi momenti.

«Ah, pa'...» con la bocca piena, il ragazzo irruppe con un nuovo argomento «Uhm... hai notato qualche movimento sospetto, tipo qualcuno che ti segue o che sorveglia la casa?»

Che domanda diretta! Jonathan strabuzzò gli occhi: che gli stava passando per la testa? Cercò lo sguardo del padre, già confuso ed accigliato.

«No. Avrei dovuto?» s'informò, ma davanti al cenno di diniego del figlio non si arrese «Perché qualcuno dovrebbe sorvegliarci?»

Vincent scrollò le spalle, imitando una perfetta nonchalance al punto da risultare convincente «Nah, è che tornando ho visto gente strana per strada, ma probabilmente sono solo gli uomini del governo. Non mi ispirano fiducia.»

Un lungo silenzio seguì, la bugia non era poi del tutto falsa, del resto c'erano là fuori davvero uomini del governo che non gli piacevano per niente, coi quali avrebbe avuto molto a che fare nei mesi successivi.

Thomas infine, dopo aver soppesato le parole, fermatosi ad osservare con apprensione i due ragazzi, si schiarì la voce e con tono fermo ribadì «Non preoccupatevi, andrà tutto bene.»

Nessuno dei tre ne era convinto.

***

«Credi che TeamSpeak sia intercettabile?»

«Uhm... non dovrebbe, no? Il server è nostro.»

Tamburellava con i polpastrelli della mano destra sulla scrivania, nervoso e con un ritmo che si rifaceva a qualche canzone che al momento gli sfuggiva. Vincent aveva scelto TeamSpeak nella speranza che fosse più sicuro e non intercettabile, ma nel momento in cui aveva avviato la chiamata si era sentito pervadere da un senso d'inquietudine.

Sul monitor spiccava in caratteri in grassetto il nome Neville Lance, un modo più formale di chiamare l'essere umano che amava definirsi La strega cattiva dell'ovest. The wicked witch of the west.

Neville era un gran fan del musical Wicked, tanto da aver promesso a Vincent che quando si sarebbero incontrati avrebbe portato con sé il DVD e l'avrebbero visto insieme. Vincent non amava i musical, ma come dirgli di no? In cambio gli avrebbe fatto ascoltare l'intera discografia dei Rolling Stones, si diceva.

Neville Lance era il suo migliore amico. Fanny trovava fantastico che lui avesse qualcuno di così caro seppur distante; avevano giocato a World of Warcraft tutti insieme qualche volta, ma parecchio sporadicamente.

Da quando aveva scoperto i due cadaveri nel Naughty Sunday, Vincent sentiva la pressione farsi sempre più forte sulle sue spalle, al punto da soffocarlo in una gabbia immaginaria, fatta di diffidenza, angoscia, ostilità e disperata ricerca d'ossigeno. Aveva bisogno di una spalla a cui aggrapparsi, di qualcuno a cui raccontare il calvario che stava affrontando: quella persona era Neville Lance, non poteva essere nessun altro.

Chiaramente aveva paura, un'indescrivibile paura per Neville, ma sapeva che proseguire sul sentiero della solitudine lo avrebbe prima o poi condotto al burrone; inutile dirsi che non era così, si conosceva. Conosceva fin troppo bene quell'insopportabile, debole e sensibile se stesso.

«Di cosa volevi parlarmi?» il silenzio all'altro capo gli confermò che, come sempre, Neville si era premurato di eliminare ogni possibile distrazione prima di dedicarsi del tutto a lui.

Vincent tirò un lungo sospiro, smettendo di picchiettare con le dita «Vediamo... da dove posso cominciare?»

***

Un lungo momento di silenzio seguì il sussurrato «Ecco tutto.»

Forse gli avrebbe chiuso la chiamata in faccia, oppure gli avrebbe dato del pazzo. Lo stomaco di Vincent era in subbuglio, come un insetto che rimane impigliato in una ragnatela e comunque si divincoli rimane sempre più intrappolato: si era gettato nella trappola del ragno, tenendo per mano anche Neville.

Dopo quell'interminabile quiete, finalmente la voce strozzata dell'amico si fece sentire «Hai chiamato la polizia?» e subito si corresse «Ah, l'FBI è la polizia. Scusami, non ci ho pensato.»

Vincent sgranò gli occhi, sentendo il fiato spezzarsi; quando parlò, le sue parole sembrarono provenire dal fondo di un pozzo «Aspetta, quindi mi credi?»

«Certo.» nonostante non potesse vederlo, gli sembrò un po' lugubre «Non avresti motivo di inventare tutto questo, dico bene? Posso fare qualcosa?»

"Dio, se da qualche parte esisti, grazie di avermi fatto conoscere questa persona."

Al bruno scappò un sospiro di sollievo che molto somigliava a una risata appena accennata: era come se i fantasmi che lo assediavano si fossero dissolti all'improvviso.

Le punte delle dita, che poco prima avevano assediato il legno della scrivania, sfiorarono le tempie e le massaggiarono vigorosamente, mentre il respiro si faceva più regolare e la gola riarsa trovava pace.

Aveva un alleato. Qualcuno di cui potersi fidare veramente.

«In realtà non saprei...» tentò quindi di concentrarsi, con però scarsi risultati.

L'emozione era ancora troppo forte per permettergli di ragionare lucidamente.

C'era davvero qualcosa che Neville poteva fare, lontano com'era? Fornire backup e tenersi pronto a chiamare le autorità locali in caso di pericolo, se mai fosse valso a qualcosa, si disse; tuttavia anche solo sapere di avere qualcuno dalla sua parte era più che sufficiente.

«In ogni caso ne parleremo di persona.»

In che senso? Il bruno corrugò la fronte, temendo d'aver sentito male, e premette le cuffie contro le orecchie, lasciando che la voce di Neville gli penetrasse i timpani «Di persona?»

«Sì, di persona.» ripeté l'altro, risoluto «È più sicuro. Non corriamo il rischio di essere tracciati.»

Quella sembrava la premessa di un piano.

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