15. The Quarantine (1)
Arco II: rEvolution
Capitolo 15: The Quarantine (1)
Un tempo, durante un caldo mese d'agosto, Vincent aveva promesso a Marika che l'avrebbe portata a vedere Hollywood prima o poi - una delle mille promesse che non aveva mai mantenuto.
"LA non è tanto lontana, sembrerà assurdo ma non sono mai stato in California" sì, poteva sembrare incredibile, ma non era mai stato né in California né in Texas, praticamente a due passi da casa; Marika gli aveva sorriso e proposto di visitare entrambi i luoghi insieme, poi non ne avevano più parlato.
Ed ora eccolo lì, in piedi in mezzo a una folla che non sembrava accorgersi di lui, con il suo borsone in spalla e assolutamente sperduto pur essendo ancora tra le bianche ed alte mura del LAX, il Los Angeles International Airport, a pochi chilometri dall'oceano Pacifico. I passeggeri del volo Seattle/Tacoma-Phoenix erano stati sbarcati al terminal 3 da meno di dieci minuti, ma già il nervosismo generale era quasi palpabile nell'aria.
Nonostante non fossero poi così numerosi, sembravano occupare la maggior parte dello spazio della sala d'attesa, di forma ovale e dalle pareti chiare che si alternavano ad altissimi finestroni, attraverso cui si poteva godere della vista del cielo pomeridiano e della pista; faceva freddo, ma non era paragonabile a ciò che aveva provato durante le due settimane a Seattle o a quel che sentiva dentro di sé al momento.
Incurante dei poveri membri dello staff, accerchiati dalla calca, e di chi gli passava accanto spesso urtandolo, andò a sedersi su una delle sedie di plastica, tra un uomo alto e prestante col pizzetto e uno sguardo torvo in viso e, guarda caso, le due teenager che in aereo avevano occupato i posti dietro di lui, ancora impegnate a far gossip, come se fosse la loro unica ragione di vita.
Accomodatosi, tirò un lungo sospiro e curvò la schiena, andando ad appoggiarsi con le braccia sulle gambe e tenne la testa bassa; non si accorse dello sguardo rapido e curioso che una delle due ragazze gli rivolse.
L'ansia lo stava divorando al punto da rendergli difficile persino decidere che cosa fare nell'immediato; avrebbe voluto telefonare a casa e comunicare la sua situazione, ma per qualche assurdo motivo aveva paura di farlo. E se l'epidemia in questione non fosse stata legata in alcun modo al virus H? La verità era che si sentiva spaventato a morte, ma al contempo l'urgenza impellente di sapere se i suoi cari stavano bene cresceva d'intensità di minuto in minuto.
"Al diavolo!" imprecò silenziosamente a denti stretti, scavò nelle tasche del cappotto finché non trovò il cellulare, sul quale erano già apparse tre chiamate senza risposta di Jonathan. Senza perdere altro tempo, richiamò.
Tre squilli segnarono il lento scorrere del tempo, in netto contrasto col battere indiavolato del suo cuore; al quarto, proprio quando i suoi nervi iniziarono a cedere, finalmente la voce del fratello spezzò l'attesa.
«Vincent!» sembrava agitato, non era certo un buon segno.
«He-hey...» si ritrovò con la voce spezzata ed un'inconsapevole espressione di preoccupazione sul volto «Sono al LAX, ci hanno scaricati qui. Che sta succedendo là? State bene?»
Sentì Jonathan sospirare di sollievo «Ho provato a chiamarti, ma eri sull'aereo, grazie a Dio stai bene... comunque qui non c'è nessun problema, a parte che qualche ora fa è stata dichiarata la quarantena, poi ci hanno spediti a casa. Non ho idea di cosa stia succedendo, non ci dicono niente, solo di non lasciare la città, fare dei controlli medici che sta organizzando il governo e vivere come se niente fosse.»
«Controlli medici, hai detto?» ripeté, sgomento «Di che tipo?»
«Prelievi per ora.» la risposta immediata, poi un silenzio spiacevole «Non dirmelo, ho capito. Io... no anzi, ascoltami, Vincent. So a cosa stai pensando, ma la risposta è no. Non pensarci nemmeno. Torna dalla mamma.»
«Sei fuori?! Non posso tornare a Seattle mentre voi siete praticamente prigionieri!» su quell'esclamazione alzò un po' troppo la voce, attirando così l'attenzione dell'uomo nerboruto accanto a lui «Io devo tornare a Phoenix! Non ci siete solo voi, anche Fanny sarà spaventata a morte.»
«No, Vincent, io e papà ce la sappiamo cavare; Fanny ha la sua famiglia e tu...» in sottofondo si sentì uno squillo che, nonostante la linea disturbata, Vincent distinse facilmente: il campanello di casa; Jonathan gli ordinò «Aspetta un attimo.»
Avrebbe voluto dirgli di non lasciarlo così, di punto in bianco, perché voleva al più presto chiamare gli altri per accertarsi delle loro condizioni, ma si ritrovò a parlare senza ricevere risposta, perciò non gli rimase che attendere.
Alzò gli occhi, accorgendosi che l'atmosfera sembrava finalmente essersi fatta meno concitata: lo staff se n'era andato e le persone si erano sparse, c'era chi telefonava, chi cercava soluzioni a dove e come passare la notte, alcuni si erano persino riuniti per lamentarsi del cattivo servizio.
Una sola cosa accomunava tutti: la preoccupazione. Ovunque si voltasse l'argomento era sempre lo stesso, l'epidemia. Di cosa si trattava? Perché nessuno rivelava niente? Quanto era pericolosa? Anche loro erano malati?
«Non mi importa, può esserci pure un'esplosione nucleare! Io andrò a Phoenix, lì c'è mio figlio!»
Una voce femminile parecchio alterata fece sobbalzare Vincent; ad urlare era stata una bruna dagli occhi spiritati, al limitare di un gruppo che stanziava vicino alla reception vuota, sullo sfondo in quel momento si innalzò un aereo, pronto a sfrecciare tra i cieli.
Un rumore indistinto alla cornetta avvertì del ritorno di Jonathan «Vincent.» lo chiamò, stavolta improvvisamente trafelato «Erano i federali.»
Il giovane credé di non aver sentito bene; batté più volte le palpebre, incerto su come dover accogliere la notizia. Si sarebbe aspettato gli agenti della LIFE, ma certo non i federali.
Cauto e a voce bassa, così da non essere sentito da nessuno, domandò senza nascondere la sua preoccupazione «L'FBI? Ma... perché?»
«Ti stanno cercando.» la sentì bene, la paura, nonostante il tentativo di Jonathan di mascherarla «Mi hanno chiesto dov'eri, io ho detto a Seattle. Hanno voluto l'indirizzo di mamma. Quando ho insistito per sapere che volevano, hanno detto solo che stanno cercando anche i cittadini momentaneamente fuori città.»
«Quale onore!» stavolta Vincent non poté evitare di alzarsi e mettersi a camminare, con la speranza di scrollarsi di dosso un po' della tensione che gli percorreva ogni muscolo: non badava neanche a dove andava o se urtava qualcuno, la sua mente era rigida e respirava pesantemente, in allerta «Quindi adesso ho pure i federali alle calcagna!»
"Lo sapevo, lo sapevo! Quel fottuto prelievo del mese scorso! Dio, sono morto se mi trovano; altro che controllare anche i cittadini fuori sede, quelli vorranno usarmi come topo da laboratorio!"
E continuò senza fermarsi, del tutto soggiogato dall'agitazione e dalla confusione: se cercavano proprio lui non c'era dubbio che avessero scoperto il virus H, chissà che cosa gli avrebbero fatto se gli avessero messo le mani addosso!
Alla fine fu Jonathan a doverlo calmare, richiamandolo ad alta voce «Vincent, basta! Ora calmati e ascoltami bene!» riuscito a zittire il fratello minore, che aveva lo sguardo perso in un punto indistinto davanti a sé, quindi riprese «Non lo so se queste sono le loro vere intenzioni, ma non mi hanno convinto. Comunque non possiamo opporci all'FBI. Ci vorrà poco prima che scoprano che aereo hai preso e dove ti trovi ora.»
No, non era questa la cosa giusta da fare, Vincent ne era consapevole; non poteva farsi catturare, non ora! Eppure, sotto sotto, era quel che voleva, giusto? L'occasione di portare tutto alla luce, di smascherare Lacey Smith e il suo assurdo progetto Evoluzione, doveva approfittarne! Scappare equivaleva a provare la propria colpevolezza, a renderlo sospetto agli occhi dei federali, a metterlo in una posizione ancor più scomoda.
Se invece avesse collaborato con loro forse avrebbe avuto la possibilità di difendersi, di accusare chi era l'artefice di tutto, anche se questo significava mettersi contro persone invisibili ma potenti: in quel caso Lacey l'avrebbe ucciso? Lo avrebbe fatto mettere a tacere da sicari, oppure con la sua influenza mentale lo avrebbe spinto a suicidarsi? Poteva veramente fare qualcosa del genere, poi?
E quanto sapeva il governo? Da quando? Possibile che avessero scatenato quell'apocalisse solo per scovarli? No, assurdo, soprattutto dal momento che era stata usata la parola epidemia: il governo sapeva del virus H e che Phoenix era il cuore di tutto, il luogo da cui il contagio era partito. Probabilmente lui era stato ciò che aveva fatto scattare un piano già preparato da tempo, accelerato nel momento in cui era stato trovata una persona con un virus diverso dall'ordinario: un portatore sano.
E allora Lone, Sonia, Owl e Chevalier? Che fine avevano fatto, quei quattro? Anche loro avevano avuto rapporti con Lacey ed erano portatori sani. Chevalier era partito per Washington diverse settimane prima, probabilmente era l'unico al sicuro, ma gli altri tre si trovavano ancora a Phoenix, intrappolati nella zona di quarantena.
Anche loro erano in pericolo, come tutti. Perché i federali non avevano puntato direttamente il Naughty Sunday?
Cosa diavolo doveva fare?!
«Io...» cominciò, la voce tremante e gli angoli della bocca piegati verso il basso, sembrava sul punto di crollare quando un tono d'avviso elettronico che ben conosceva lo avvisò di una chiamata in arrivo; controllò il display, illuminato da una freccia e da un nome che gli gelò il sangue: casa Wright.
E adesso?
«Aspetta, ho una chiamata in arrivo.» avvertì Jonathan, prima di schiacciare il pulsante per rispondere; fece del suo meglio per nascondere la paura che gli stava accartocciando lo stomaco e scandì bene la parola «Pronto?»
Inaspettatamente, all'altro capo della linea a rispondere non fu la voce entusiasta di Liza, ma quella alquanto nervosa e cupa di Heaven «Hey.»
«... Heaven?» mugugnò, incredulo: per quale motivo Heaven lo stava chiamando? Mosse qualche passo verso le pareti di vetro antisfondamento, da cui poté notare un certo scompiglio del padiglione accanto, il terminal 2 «Che succede?»
La ragazza borbottò qualcosa di confuso, come indecisa «Senti, sono sola a casa e sono appena venuti i federali... a chiedere di te.»
Un lungo ed intenso brivido lo scosse sul posto, provocandogli un attimo di sconcerto: i federali avevano lasciato casa Black da neanche cinque minuti ed erano non solo già riusciti a localizzare dove abitava Liza, ma addirittura a chiedere di lui?
"Tutto questo è surreale!" era rimasto letteralmente con la bocca aperta e gli occhi persi nel vuoto; come se di cose surreali non gliene fossero accadute già abbastanza!
«E tu che hai detto?» faticò qualche secondo per ritrovare le parole, che sembravano sfuggirgli come fili sottili dalle mani.
«Che oggi sei ripartito per Phoenix, hanno voluto sapere il volo, ma io non lo sapevo.»
Vincent notò una punta di apprensione nella voce della sorellastra, ma quello non era il momento di concentrarsi su questi piccoli particolari.
«Che hai combinato?» chiese Heaven.
La cosa divertente era che non aveva combinato proprio niente! Per un assurdo motivo che ricollegò allo stress, che lo stava divorando dalla testa ai piedi, Vincent sorrise istericamente e portò la mano a coprire la parte sinistra del volto «Non ho combinato niente, non è come sembra! Cioè...»
«E com'è?» la sottile premura nella voce dell'altra scomparve, sostituita da un'inflessibilità stentata «Senti, io non intendo coprirti con mamma, se hai fatto casini-...»
«Non ho fatto nessun casino!» quasi strillò lui, ma accortosi di aver attirato l'attenzione - con la coda dell'occhio dispensò sguardi velenosi a chiunque si fosse girato a guardarlo -, abbassò cautamente la voce e la testa «Ascolta, Heaven: non devi dire niente alla mamma per nessun motivo. Adesso non sono a Phoenix, la città è in quarantena.»
Immaginò Heaven alzare un sopracciglio sottile e fare una smorfia contrariata «Quarantena?»
«Sì, pare ci sia un'epidemia. È per questo che mi cercano: stanno radunando tutti quelli che si sono allontanati da Phoenix e che potrebbero essere infetti.» spiegò frettoloso, ma immaginando che la ragazza, all'oscuro della vera natura del virus H, potesse essere assalita dalla paura che lui avesse portato tra loro la malattia, si affrettò ad aggiungere «È una malattia a trasmissione ematica, non c'è rischio che vi abbia contagiato.»
Un sospiro di sollievo leggero gli fece realizzare di essersi per la prima volta comportato da fratello maggiore con lei, rassicurandola. Certo, per farlo aveva nascosto una piccola parte di verità, ma...
Pensandoci bene, e se anche loro fossero stati infetti senza saperlo? Dubitava fortemente di Heaven, ma Liza e George? Un brivido gli fece scacciare il sospetto e scuotere il capo.
E poi, di nuovo quel tono scettico che conosceva bene gli perforò le orecchie «Ma sei serio o mi stai prendendo in giro?»
Un'altra persona che lo credeva pazzo, ottimo. Vincent emise un suono gutturale che sembrava essere poco propenso alla collaborazione «Sono serio, Heaven.» barbugliò, deciso a tagliar corto «Senti, io devo andare. Tieni a mente quel che ti ho detto e la bocca chiusa, voglio fidarmi di te.»
Senza attendere ulteriore risposta, la quale probabilmente non sarebbe stata positiva, considerando che la tensione con sua sorella era ancora forte, chiuse la chiamata e tornò a Jonathan, che aveva lasciato in attesa troppo a lungo.
«Finalmente! Cominciavo a preoccuparmi!» sospirò di sollievo il fratello «Tutto bene?»
«Heaven ha detto che i federali hanno appena suonato al campanello di casa Wright. Mi sembra di essere dentro un film.»
«Peccato che tu non abbia neanche un briciolo di fortuna o furbizia per scappargli.» puntualizzò Jonathan, Vincent alzò gli occhi con rassegnazione «Ho alcune conoscenze che abitano a LA, farò un giro di telefonate per vedere chi può ospitarti. È meglio evitare gli hotel finché sei da solo.»
«Sì, guarda, è l'occasione perfetta per quel tour dei serbatoi dell'acqua del Cecil* che volevo fare! Non farlo, Jonathan, sarebbe uno spreco di tempo visto che sto tornando a Phoenix.» Vincent scrollò le spalle, ma come immaginava l'altro non perse tempo ad alzare la voce e riempirlo di direttive che non aveva intenzione di seguire: sarebbe tornato a casa da solo, in un modo o nell'altro.
Nel farlo doveva stare molto attento a non farsi beccare da FBI e compagnia. Non poteva rischiare, non prima di aver parlato con Lacey.
"Scappare ai servizi segreti e penetrare una quarantena, cose che chiunque fa tutti i giorni in pratica!"
E intanto il fratello «Vuoi starmi a sentire per una volta nella tua vita?! Questo non è un gioco, Vincent! Opporre resistenza è stupido, non metterti nei guai!»
"Mi sembra davvero di essere dentro un film..." Vincent era esasperato, compresso tra l'ansia che gli scorreva lungo il corpo, la paura di essere catturato da un momento all'altro e la ridondante insistenza di Jonathan che gli tartassava la testa.
«Ti ho detto che sto tornando a casa. Guarda, mi sto pure muovendo.» stanco di quel fiume di parole lo interruppe, iniziò la sua marcia verso l'esterno del terminal «Siccome non so un cazzo di LA, cercherò una fermata della metro, la prenderò e arriverò dove possibile, poi troverò un taxi o mi infiltrerò come posso. Ah, papà sa che sono ancora sull'aereo, non diciamogli niente per ora o gli verranno i capelli bianchi dalla preoccupazione.»
«Vincent!» quel povero disperato di Jonathan tentò un'ultima volta.
«Ti tengo aggiornato!» esclamò il ragazzo, quindi chiuse la chiamata.
La situazione era davvero complicata, sembrava di essere in un labirinto: da qualsiasi lato guardava la strada era contorta, infinita e rischiosa.
Borsone in spalla e telefono in mano, Vincent aveva lasciato il terminal e raggiunto il parcheggio. L'aeroporto era articolato come un semicerchio, attorno al quale si diramavano i terminal; l'ampia corsia era invasa da automobili, soprattutto taxi dai conducenti annoiati, il rumore dei motori in azione faceva da sottofondo inopportuno a sdolcinate scene di abbracci e riunioni felici tra i passeggeri e chi li aspettava. Provò una fitta d'invidia per quelle persone così spensierate, avrebbe voluto essere anche lui tra le braccia di qualcuno che amava. Anche se, ripensandoci, le uniche che lo avrebbero accolto con tanto entusiasmo erano Liza e Fanny.
"Dunque... un taxi o la metro..."
Per una volta si dispiacque di non essere pedinato da Replica.
Doveva trovare un qualsiasi mezzo per spostarsi da lì, non intendeva rimanerci un minuto di più; avvertiva quella brutta sensazione tipica di quando ci si sente fuori posto, senza neanche una vaga idea di dove andare o cosa fare, così presto finì per entrare in confusione.
Mentre i suoi occhi vagavano sperduti, entrò nel suo campo visivo un'automobile nera, da cui scesero tre uomini in giacca e cravatta, uno aveva anche gli occhiali da sole. Se fosse stato un credente, l'avrebbe definito un atto della provvidenza. Nemmeno lui seppe come fece a riconoscere in loro dei federali, forse perché corrispondevano troppo bene allo stereotipo propinato dai telefilm polizieschi, forse perché si guardarono velocemente intorno con sguardo da predatore, fin quando uno dei tre non lo inquadrò, avvisando sottovoce poi i due restanti.
Si sentì squadrare da cima a piedi da quegli occhi estranei, e la paura si impossessò di lui in maniera così potente che quando uno dei tre fece per avvicinarglisi chiamandolo per nome...
«Stephan Black?»
"Dannazione!" non perse neanche un secondo, fece dietro front e se la diede a gambe il più velocemente possibile. Alle sue spalle sentì immediatamente il suono di passi veloci: lo stavano inseguendo!
Senza prestare attenzione a chi urtava - diverse volte gli urlarono addosso o sentì un gomito, una spalla o una gamba sbattere - si affrettò per la galleria senza una minima idea di dove andare: non conosceva il posto, i volti intorno erano tutti ugualmente alieni, freddi e distratti, mentre i suoi inseguitori cercavano di non perderlo tra la folla in continuo movimento. Si dibatté tra di essa, fu tentato dall'abbandonare il borsone che gli rallentava la fuga, quando però si accorse di una galleria secondaria alla propria sinistra, illuminata dalle lampade artificiali.
Fu fulminato da un pensiero: il centro del LAX, in cui si trovava, era circolare, non poteva correre in cerchio o lo avrebbero catturato in pochi minuti. Così pensando si imbucò nella galleria a tutta velocità.
La via era libera e circa venti metri più avanti si biforcava: dove diavolo stava andando?
«Fermo!»
La voce maschile, così potente e rabbiosa, gli gelò il sangue nelle vene, ma Vincent continuò a correre per il tunnel dalle pareti bianche e prego della puzza di detersivo.
Tutto fin quando, all'improvviso e a tradimento, non sentì un pizzicore sul collo; ebbe solo il tempo di portarvi istintivamente una mano sopra, tastare un qualcosa di duro, stretto e lungo che gli trapassava la pelle, prima che un improvviso senso di stanchezza e sonno gli facesse perdere l'equilibrio e il controllo del suo corpo.
Cadde come un peso morto sul pavimento, le sue orecchie sentirono i passi farsi sempre più vicini, ma la mente era già addormentata, a differenza degli occhi, spalancati e spaventati.
Catturato.
Note:
#1: Il Cecil è un hotel di Los Angeles famoso per essere legato a diversi casi di cronaca nera rimasti classificati come inspiegabili; Vincent fa (indelicatamente) riferimento al caso della misteriosa morte di Elisa Lam, verificatasi nel 2013.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top