14. Prospective V, Seattle (8)
Arco II: rEvolution
Capitolo 14: Prospective V, Seattle (8)
- Il giorno della partenza -
Quelle due settimane erano davvero volate; non le aveva sentite scorrere addosso come invece ogni giorno a Phoenix faceva, strofinandogli la pelle con la forza di una spazzola dai denti di metallo. Thomas aveva in parte ragione: si sentiva meno stressato rispetto a quando era arrivato, probabilmente anche perché si era sforzato di accettare la presenza di George e Heaven una volta per tutte.
Sebbene sapesse che non sarebbe mai riuscito a perdonare loro colpe che in realtà non erano colpe, non riusciva a fare a meno di sentirsi tradito ogni volta che ridevano, giocavano, si stringevano le mani, si abbracciavano.
Lui aveva dimenticato che cosa significasse essere stretti in un abbraccio dolce e affettuoso, per troppo tempo era stato accolto tra braccia sconosciute e senza nome. In quelle due settimane Liza invece lo aveva abbracciato moltissime volte, facendolo addirittura quasi addormentare come un bambino, si era sentito al sicuro come poche volte nella sua vita; anche Marika qualche mese prima lo aveva abbracciato, ma la sensazione era completamente diversa, in un certo modo nuova ma vecchia, riscoperta e apprezzata come mai prima.
E adesso sarebbe tornato a Phoenix, la sua amata città che lo terrorizzava.
«Voglio che mi chiami almeno due volte a settimana.»
Sì, lo sapeva: Liza lo diceva sempre quando si salutavano all'aeroporto; l'atmosfera era nettamente diversa da quella di neanche quindici giorni prima, la bella donna era avvolta in un cappotto più pesante e portava i capelli raccolti in una lunga coda di cavallo. Aveva in mano una busta di un negozio di vestiti che si portava dietro da quella mattina, ma aveva insistito per mantenere il segreto sul suo contenuto. Il viso era triste e spento, come quello di una bambina a cui è stato negato un regalo, gli occhi verdi annacquati e in procinto di versare lacrime.
Al contrario Vincent, che le stava in piedi davanti e con le mani nelle sue mani, sorrideva in maniera più rilassata, il volto affondato nella sciarpa bianca, i cui lembi gli raggiungevano la vita «Lo farò. E farò telefonare anche Jonathan.»
Questo sembrò farle piacere ed incoraggiarla a lasciarlo finalmente andare, pur con riluttanza: se avesse potuto lo avrebbe incatenato a sé per sempre; gli sorrise amorevolmente e gli accarezzò con lentezza una guancia, incurante degli sguardi attorno a loro del luogo pubblico pieno già di prima mattina.
Qualcuno la riconobbe ancora, ma sembrava chiaro che il momento felice tra madre e figlio non andava interrotto; si abbracciarono un'altra volta, ma prima che Vincent potesse darle le spalle lei lo fermò.
«Aspetta, ancora una cosa!» esclamò con le gote improvvisamente piene di vita, infilò una mano dentro la busta e la visuale di Vincent fu invasa da un rosso bellissimo, caldo come i capelli di lei e potente come il fuoco: una tonalità un po' appariscente, ma eccezionale.
Lo avvolse veloce, senza nemmeno dargli il tempo di realizzare di cosa si trattasse; se lo ritrovò addosso, col suo calore istantaneo e il profumo di Liza che lo pervadeva, ricordandogli quella sottile fragranza che per mesi era inspiegabilmente rimasta sul suo cuscino dopo la partenza per Seattle. Papà piangeva spesso quando la riconosceva, gli aveva raccontato Jonathan.
Strabuzzò gli occhi e corse con le mani a sfiorare il tessuto appoggiato sulle sue spalle e il cappuccio che gli aveva malamente coperto la testa «Ma questo è...»
Un cappotto. Era un cappotto rosso provvisto di cappuccio, elegante ma al contempo semplice: Vincent se ne innamorò subito.
«È un regalo!» dopo averglielo buttato addosso per scherzo, Liza si avvicinò e gli sfilò la vecchia giacca che indossava, per coprirlo al primo brivido di freddo con quel nuovo indumento che in futuro sarebbe stato molto caro al ragazzo «È il mio regalo di Natale in anticipo. Ero sicura che ti sarebbe stato bene, sei meraviglioso.»
Gli sorrise con tutta la bontà del mondo.
Vincent non si era mai sentito così amato, tanto che inconsapevolmente arrossì e chinò lo sguardo, a corto di parole «Grazie... grazie, mamma.»
La voce robotica agli altoparlanti annunciò che il suo volo sarebbe partito a breve.
***
Che roba.
Era l'unica cosa che Vincent riusciva a ripetersi in testa, come un loop. La sua mente era così ricca di pensieri, così satura di cose su cui riflettere che non sapeva da dove cominciare per tirare le somme del suo viaggio a Seattle. Era cambiato qualcosa in lui? Non credeva, si sentiva lo stesso di sempre, né riusciva a comprendere se gli avesse fatto davvero piacere allontanarsi da Phoenix.
Era così difficile scavare dentro se stesso, addirittura solo comprendere che cosa provava davvero in quel momento, che cosa sentiva di aver guadagnato o perso.
Inarcò la schiena e poi rilassò le spalle, con le mani appoggiate sulle gambe e lo sguardo rivolto verso il finestrino, dal quale poteva osservare Seattle diventare man a mano più piccola, una sottile striscia di terra costruita su una penisola quasi del tutto circondata dal mare. Stavano correndo tra le nuvole, la pressione era tale da fargli dolere i timpani.
Chiuse gli occhi lentamente, deciso ad approfittare di quelle ultime ore lontano dalla sua città per riposare davvero: nessuna Liza lo avrebbe svegliato per andare a fare compere, nessuna musica alta dalla stanza di Heaven lo avrebbe disturbato. Non poteva fare a mano di ripensare a quanto casa Wright fosse così ricca di movimento e vitalità, tutto il contrario di casa Black.
Eppure lui amava casa Black, nonostante i mille problemi che quel cognome portava con sé. Non poteva far altro che essere felice della sua mutila e incompleta famiglia, fatta di un padre incapace di comunicare e di un fratello incapace di perdonare.
Forse perché tutti e tre erano ugualmente difettosi, ben lontani dall'aura di perfezione che li avvolgeva.
Espirò tutta l'aria che poteva, nel freddo della cabina che neanche il suo maglione di lana nero sapeva combattere; lente e timorose, le dita affondarono nel regalo di Liza, che aveva appoggiato sulle gambe: ne avrebbe avuto grande cura, senza dubbio.
Si addormentò prima di aver tempo di formulare altri pensieri, come se il suo corpo avesse già saputo in anticipo che quella sarebbe stata la sua ultima occasione di dormire sonni tranquilli, prima che la sua brillante capacità di mandare tutto al diavolo mandasse, appunto, tutto di nuovo al diavolo.
Fu svegliato diverse ore dopo da un brusio irritante e fastidioso di sottofondo, che gli perforava le orecchie insistentemente; già di malumore, con una specie di verso gutturale poco umano stirò le braccia - incontrando il sedile davanti, che fastidio avere così poco spazio! - e socchiuse gli occhi, rimanendo un attimo abbagliato dalle luci artificiali dell'aereo.
Che caos, che diavolo stava succedendo ora?
«Signori, restate calmi!»
Ah no, quella non era mai una bella frase da sentire, soprattutto durante una traversata in aereo. Vincent si tirò su a sedere composto, cercando risposte nell'ambiente intorno a sé: tutto era esattamente come lo aveva lasciato, dai bagagli dell'uomo seduto accanto a lui, infilati sotto i suoi piedi, alle due universitarie della fila dietro che parlavano ad alta voce, dalle hostess che si muovevano avanti e indietro in uno svolazzare di professionali gonne azzurre all'immancabile lattante in lacrime.
Niente sembrava fuori posto o né avvertiva alcun segnale di pericolo, il volo sembrava procedere magnificamente. E allora che accidenti...?
«Ci scusiamo dell'imprevisto, la nostra compagnia provvederà a risarcire tutti all'atterraggio.» una hostess attraversò la corsia e si mise in un punto in cui era ben visibile da tutti, davanti alla cabina di pilotaggio.
Era un'afroamericana molto affascinante, ma sembrava parecchio in difficoltà, probabilmente a causa dei mormorii di sottofondo, che rendevano pessima l'acustica.
«Che succede?» domandò a quel punto il ragazzo al suo vicino, un nerd occhialuto con tanto di camicia a quadri e computer alla mano.
Da dietro le spesse lenti degli occhiali, egli gli rispose con poca certezza «Sembra che scenderemo a Los Angeles. Non possono portarci a Phoenix.»
«A Los Angeles?! Ma perché?» Vincent strabuzzò gli occhi, incredulo: possibile che fosse tutto un sogno? Los Angeles e Phoenix non erano poi così drammaticamente lontane, la seconda si trovava solo un po' più a sudest, una deviazione del genere non aveva il minimo senso!
Ma l'altro non gli seppe rispondere, scrollò le spalle con l'aria di chi non aveva problemi ad essere sballottato da una città all'altra senza criterio «Non l'hanno ancora detto. Ma a me non fa tanta differenza.»
Beh, per lui non era così: non aveva la minima intenzione di passare la notte accampato in un aeroporto o davanti alla grande Hollywood; così spostò con il piede i bagagli dello sconosciuto, innervosito, e si tirò su per quanto la cintura di sicurezza lo permettesse, sollevando una mano per attirare l'attenzione.
«Mi scusi!» chiamò ad alta voce un paio di volte, finché la donna, intenta a scambiare fugaci parole con uno stuart, non si voltò nella sua direzione per fargli capire che lo ascoltava.
Sembrava ansiosa, lo si notava anche da lontano.
Ma a Vincent non importava delle sue difficoltà: lui voleva risposte e le voleva subito, il suo tono di voce sembrava dirlo chiaramente «Per quale motivo non potete portarci a Phoenix?»
Si accorarono altre voci di vario tipo: femminili e maschili, giovani e anziane, irritate e calme, tanto che temette di aver dato inizio a una rivoluzione su quell'aereo.
La povera giovane lavoratrice dovette faticare parecchio per zittirne il più possibile, aiutata da delle colleghe che ripetevano che avrebbero dato informazioni appena possibile; ma solo quando lo stuart di poco prima tornò e comunicò con un cenno affermativo del capo, l'interpellata cercò Vincent con gli occhi e lo trovò trepidante.
Era successo qualcosa di grave a Phoenix?
«Si tratta di un ordine del governo degli Stati Uniti.» fece lei, seria e grave, con una goccia di sudore che le attraversava il volto scarno «Non è possibile entrare né uscire dalla città. L'intera area urbana di Phoenix è appena stata dichiarata zona di quarantena a causa di un'epidemia.»
Calò il silenzio, e assieme ad esso Vincent sentì un macigno cadergli addosso.
Quarantena. Epidemia.
"Lo hanno scoperto... ?" sgranò gli occhi e gli cedettero le gambe; senza sapere come si ritrovò seduto al suo posto, con la testa stretta tra le mani "Lo hanno scoperto veramente... ? Il virus H..."
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