14. Prospective V, Seattle (6)
Arco II: rEvolution
Capitolo 14: Prospective V, Seattle (6)
- Undici anni prima -
L'allegra famigliola allargata era bloccata nel traffico del centro città, ferma in un ingorgo da circa trenta minuti, tanto che George aveva desistito e spento il motore, lasciando accesa solo l'autoradio, sulle frequenze di Billboard Hot 100, la quale stava passando una recente hit che Vincent sentiva molto spesso in giro da qualche mese.
La pompa di calore aveva reso l'auto un inferno, ma la mamma non voleva che si aprissero i finestrini: la piccola Heaven, seduta accanto a lui sul seggiolino ed imbacuccata da capo a piedi, si era da poco rimessa dall'influenza.
Ma Vincent stava veramente morendo di caldo, si era tolto di dosso il cappottino, la sciarpa e anche la giacca, rimanendo con solo la camicia e, in testa, il suo cappellino con le orecchie di panda.
«Mamma... ho caldo...» mugugnò con voce lamentosa, addossandosi contro il finestrino appannato e gelido per cercare un po' di refrigerio.
«Non essere esagerato, Vince. Non c'è tutto questo caldo.» Liza gli scoccò un'occhiata con l'ausilio dello specchietto alla sua destra.
«Sì, inveceee...» dondolata un po' la testa, il bambino usò la sua voce più penosa per supplicarla «Posso aprire solo un pochino?»
La donna sospirò, come se fosse stato difficile sopportare i capricci del figlio, si scambiò uno sguardo con George e infine alzò una mano - Vincent non lo notò a causa del sedile che li separava - ed acconsentì «Va bene, ma solo un pochino.»
Che bella notizia gli aveva dato! Non se lo fece ripetere due volte e abbassò di un paio di centimetri il vetro, quanto bastava per far entrare un po' d'aria fredda: che meraviglia! Fu come rinascere, ogni centimetro del suo piccolo corpo stava finalmente meglio.
Come facevano loro a non sentire caldo? Forse perché per loro era normale tenere il riscaldamento così forte, proprio perché abituati al freddo; al contrario Vincent, tornato da poco più di una settimana da Phoenix, dove aveva passato il Capodanno con papà e Jonathan, non riusciva a sopportare quel calore artificiale e soffocante, così diverso da quello della sua città natale.
Mentre cercava di mettere insieme pezzi di un ragionamento contorto, ecco che Heaven starnutì all'improvviso, attirando immediatamente le premure di entrambi gli adulti.
Come previsto, Liza sbottò subito «Ecco, lo sapevo. Adesso le tornerà la febbre! Avanti, Vince, chiudi.»
«Ma fa ancora caldo!» si lagnò lui «Ti prego, ti prego, ti prego!»
«Non fa caldo. È una tua convinzione, se non ci pensi vedrai che non lo sentirai.» calcando su ogni parola come se fosse un ordine o una massima, la madre si fece valere ed ebbe la meglio sul figlio, che di controvoglia fece come gli era stato detto, salvo poi mettere le braccia conserte ed iniziare a respirare forte, arrabbiato.
George odiava quando Vincent faceva i capricci in quel modo, in generale c'erano davvero poche cose che apprezzava in quel bambino, ma non poteva farlo presente a sua moglie: lei amava quel moccioso viziato in modo esagerato, se la sarebbe presa troppo.
Quando però, dopo qualche secondo, i suoi nervi minacciarono di cedere, si voltò con il busto verso i sedili posteriori e fece prima una smorfia a Heaven per farla ridere un po', poi sorrise all'altro «Hey, Arizona, cos'è questa lagna? Non sei un ometto? Gli ometti non si lamentano come femminucce.»
«Smettila di trattarmi come un bambino, ho otto anni!» fece presente lui, come se i suoi otto anni di vita fossero un traguardo rimarcabile.
«Heaven femminuccia...» balbettò invece Heaven, e Vincent non capì chi dei due fu l'artefice delle risate a cui gli adulti cedettero.
Si convinse che era stata Heaven a farli ridere: Heaven era sempre più importante di lui, dopotutto; si imbronciò ancora di più e voltò la testa verso l'esterno.
Colto da un sottile mal di schiena, George tornò a sedersi composto, non senza provare a far ragionare ancora una volta il figliastro «Dai, Vincent, cerca di capire: non possiamo permettere che Heaven passi un'altra settimana malata. Nemmeno tu lo vuoi, no?»
Quella fu la prima volta che i due videro il bambino fare un sorriso veramente cattivo.
«E se non mi importasse?»
«Vincent!» Liza quasi non lo fece finire di parlare, scattò all'indietro con il busto e con una certa fatica riuscì a stampargli cinque dita in faccia «Non dire mai più una cosa simile! Heaven è tua sorella!»
Vincent scivolò nel sedile, spaventato da quella reazione violenta, ma la rabbia e l'umiliazione ebbero il sopravvento sulla paura e urlò «No! Jonathan è mio fratello! Heaven, Heaven, Heaven, pensate solo a lei!»
La donna rimase senza parole, sgomenta davanti al risentimento tanto aggressivo nella voce del figlio, che sembrava sputare su quel nome ogni volta che lo pronunciava; riuscì solo a fulminarlo con lo sguardo, che poi fece scorrere sulla bambina, la quale stava evidentemente capendo che la discussione verteva su di lei.
George non aveva la minima intenzione di sopportare attacchi a sua figlia, perciò alzò la voce con Vincent per la prima volta da quando si conoscevano «Qui non ci sono Thomas e Jonathan, Vincent, questa è Seattle, non Phoenix, e qui ci siamo solo io e Heaven. Quindi smetti di fare i capricci e accettalo.» infine, voltandosi anche lui per fissarlo in tralice, eruppe con la nuda e cruda verità «Tu metti a dura prova la mia buona volontà di farti da padre, e adesso mi chiedi di metterti sullo stesso livello di mia figlia senza far niente per meritartelo? Pensa a tua madre, a quel che sta sopp-...»
«Tu non sei mio padre!» strillò fuori di sé il bambino, come una belva che ruggisce per uscire dalla gabbia, strinse i denti e parò con forza il secondo schiaffo che la madre stava per lanciargli, mentre Heaven iniziava a piangere.
«Non voglio che tu sia mio padre! Rivoglio il mio vero padre e la mia vera famiglia, che TU hai distrutto!» non fu ben chiaro a chi si stesse riferendo, se alla madre o al patrigno «Non sono io che faccio i capricci, siete voi che per fare i capricci avete fatto piangere me, Johnny e papà! Siete voi gli egoisti, e io vi odio! Vi odio! Vi odio!»
Detto ciò, senza dare il tempo a Liza, bianca d'orrore, di afferrarlo per un braccio, aprì lo sportello e si lanciò fuori dalla macchina, scappando via.
«Vincent!» la voce di Liza si perse nell'aria gelida che invase l'auto, ma nei pochi secondi impiegati da lei e il marito per liberarsi delle cinture e scendere, il bambino era già scomparso in mezzo al traffico e Heaven si disperava.
George si buttò alla ricerca del piccolo «Tu resta con Heaven!» urlò alla donna, mentre ella, pallida a morte, scorreva istericamente con gli occhi ogni angolo visibile, tremando da capo a piedi.
«Oh, mio Dio... oh, mio Dio... Vincent...»
Ma Vincent era già lontano.
Facendo forza sulle sue piccole gambe, aveva battuto ogni suo record personale nella corsa per attraversare la strada, invasa da macchine fortunatamente ferme, e sparire al di là del marciapiede, imboccando un vicolo a caso; i suoi spostamenti avevano attirato l'attenzione di alcune persone, scese dalle proprie vetture per chiamarlo o cercare di fermarlo, intuito che stava scappando da qualcosa o aveva bisogno di aiuto. Ma nessuno fu abbastanza veloce da evitare che sparisse nel buio delle strade secondarie.
Corse senza sosta, combattendo contro il dolore che ben presto gli aggredì il fianco destro e gli mozzò il fiato: si sentiva sudato, stanco e infreddolito, ma si non si fermò; passò pericolosamente accanto a barboni che rovistavano nell'immondizia, poi evitò per un pelo di pestare la coda di un gatto che gli soffiò contro, avventurandosi sempre più in quel dedalo a lui del tutto sconosciuto, dove ogni muro sembrava uguale al precedente, la sporcizia invadeva i marciapiedi e il vento, implacabile e impietoso, sferzava la sua pelle liscia come una lama.
Senza sapere come si ritrovò finalmente in una strada più trafficata e pulita, dove le macchine sfrecciavano inconsapevoli dell'ingorgo qualche metro più in là e le vetrine erano addobbate e luminose.
Si fermò a riprendere fiato e pensare a mente lucida a cosa aveva fatto: era scappato, incapace di rimanere ancora in compagnia di quella famiglia; aveva detto cose molto cattive, che ripensandoci non credeva poi così vere: aveva fatto piangere la mamma? Com'era stato crudele!
Con le braccia coperte solo dalla camicia, cercò di riscaldarsi: adesso sì che faceva freddo, tanto freddo, gli mancava il caldo soffocante dell'auto di George!
"E adesso cosa faccio?" quella domanda gli invase con prepotenza la mente, scacciando ogni altro pensiero: era solo, in una parte di città che conosceva poco e male, senza uno straccio di giacca e tremava come una foglia.
Non avrebbe mai più rivisto la mamma?
Le persone gli passavano davanti guardandolo, ma nessuno si fermò a chiedergli se aveva bisogno d'aiuto; e se anche fosse accaduto, cosa avrebbe detto? Se George lo avesse trovato lo avrebbe sicuramente picchiato, perché era stato un bimbo cattivo e aveva parlato male di Heaven. Non poteva tornare più indietro, vero?
Arrivò a quella conclusione con le lacrime agli occhi, pur senza lasciarle andare, e un lamento discontinuo gli risalì dalla gola.
Aveva davanti una lunghissima strada innevata, a destra sembrava non finire mai, a sinistra invece terminava in una svolta; c'erano tante case e tanti negozi, ma non ne riconosceva neanche uno e intorno camminavano solo persone dalla faccia brutta, coperte di vecchi vestiti, o studenti che andavano di corsa, mangiando hotdog caldi che il bambino fissò intensamente, oppure adulti al telefono o indaffarati.
Ma certo: un telefono! Avrebbe telefonato a papà e si sarebbe fatto venire a prendere! Papà lo avrebbe capito, perché anche lui odiava George.
Ora doveva solo trovare un modo per chiamarlo, perché non aveva con sé i soldi per usare i telefoni pubblici e non era neanche abbastanza alto per arrivarci! Forse avrebbe potuto chiedere a qualcuno...
Cominciò a camminare senza una meta, errando come un vagabondo, con le guance arrossate e le mani fredde: l'unica parte di lui che stava al caldo era la testa, riscaldata dal cappello con le orecchie di panda.
Non aveva mai notato quanto fosse grande quella città, con edifici così alti - a Phoenix erano tutti bassi, gli aveva spiegato Jonathan, perché l'aeroporto era molto vicino al centro abitato -, la maggior parte erano case, le cui finestre illuminate davano l'idea di un gran calore interno. Passò davanti a un cinema, con locandine tre volte più alte di lui messe ben in mostra.
"Uh, c'è Harry Potter! Voglio vederlo anch'io!" un leggero sorriso si formò sulle labbra screpolate e un po' violacee, ma morì subito quando si ricordò di non avere nessuno con cui andare a vederlo.
Riprese la sua marcia lungo la via, illuminata da una serie infinita di lampioni neri, sotto cui i pedoni aspettavano il momento giusto per attraversare la strada; Vincent non aveva mai notato quante strisce pedonali ci fossero ad un incrocio.
"Sono tantissime!" pensò, non capendo bene quali dovesse usare, così si unì al primo, eterogeneo gruppo di persone che passava: non aveva un luogo in cui tornare, poteva andare ovunque voleva! La cosa forse lo avrebbe emozionato di più se non avesse avuto così freddo.
E cosa avrebbe mangiato per cena?
Beh, si sarebbe inventato qualcosa, dopotutto aveva otto anni, lui!
- Un'ora dopo... -
«Maaaaaammaaaaa! Waaaaah!»
Alla fine non aveva concluso niente. Dopo aver tentato senza successo di chiedere aiuto in due negozi e a qualche passante, ma essere stato ignorato o vinto dalla propria timidezza, Vincent si era accasciato sui gradini di un sottopassaggio per ripararsi.
C'era tanto buio, tanto freddo e lui aveva tanta fame.
Si appoggiò al muro, il contatto gli trasmise un brivido lungo la schiena, continuò a singhiozzare e sperare che la mamma lo trovasse, ma sapeva che non sarebbe successo perché si era allontanato troppo. Anzi, forse mamma stava festeggiando con George e Heaven di essersi liberata finalmente di lui, dopotutto era un bambino cattivo...
Il ritmico incedere di passi leggeri ed un'ombra che si allungava alla sua sinistra lo ridestarono: si era mezzo addormentato senza rendersene conto.
«Hm? Bimbo, che fai qui? Dov'è la tua mamma?»
Finalmente qualcuno gli parlava! Era ciò che aspettava, la sua occasione d'oro, ma si sentiva troppo stanco e gelido, riuscì a stento ad alzare la testa e tirare su col naso «N-non lo so... ho freddo...»
Nella sua visuale comparve il viso di una donna magrissima, bionda e pallida, molto diversa da sua madre, ma sembrava sinceramente preoccupata e questo portò il bambino a fidarsi senza remore.
«Ecco, aspetta.» la signora gentile si sfilò la giacca nera che indossava e gliela poggiò sulle spalle: il tepore lo invase e lo rinvigorì, tanto che ritrovò la forza per stringere le mani sulla stoffa per cercare di scaldarsi ancora di più.
«Vivi per strada?» gli domandò lei.
Lo aiutò a riscaldarsi le mani sfregandole con le proprie, Vincent intanto scosse il capo «No... vivo in una casa, ma sono scappato... e ora ho tanto freddo e fame.»
La sconosciuta sembrò sorpresa, batté le palpebre e alzò una mano, così da accarezzargli con delicatezza i capelli arruffati «Ho capito. Come ti chiami?»
La mamma aveva detto di non parlare con gli sconosciuti, si ricordò solo allora il bambino, ma non gli importava più di disubbidire: si sarebbe scusato se mai l'avesse rivista - la possibilità di non vederla più gli faceva paura. Biascicò un timido «... Vincent.»
«Vincent? È un nome potente.» non era proprio ciò che si sarebbe aspettato, in genere dicevano "è proprio un bel nome", ma questa signora era diversa, lo capiva dal modo in cui lo guardava; gli sorrise ancora una volta «Io sono Rose. Avanti, alzati, vieni con me. Ti darò da mangiare e poi ti aiuterò a trovare la tua mamma, d'accordo?»
Alla parola 'mangiare' Vincent aveva già smesso di ascoltare ed annuito freneticamente.
Rose mantenne la parola e lo portò a casa sua, un appartamento al terzo piano di un palazzo poco distante dall'uscita della metropolitana dove si erano incontrati. Mentre la donna rovistava con le chiavi, incontrarono una vecchia signora, la vicina della porta accanto, un'anziana con la gobba ed un discutibile grembiule a fiori rosa.
«Rose, ma questo bambino...» scioccata, sembrava chiederle spiegazioni con lo sguardo.
La giovane e cortese bionda le fece semplicemente un sorriso «Un trovatello che implorava per un po' di cibo. Guardi com'è spaventato, domani mattina lo porterò a chi di dovere.»
Come spesso fanno gli anziani quando dispensano sani consigli e ammonimenti, l'altra alzò un dito per indicare il piccolo, che si nascose immediatamente dietro le gambe della sua nuova amica «Dovresti farlo ora, sai!»
«Suvvia, signora Sullivan, non vede quant'è infreddolito e affamato? Ha bisogno di riposare, chiamerò la centrale direttamente da casa. E ora rientri anche lei, fa più freddo del solito stasera.»
Finalmente riuscirono a congedarsi, ma da sotto il suo cappellino particolare Vincent notò con la coda dell'occhio che la vecchia li fissò finché la porta non fu chiusa.
«Questa casa è della signora Sullivan, in realtà; sono un po' in ritardo con l'affitto, ma purtroppo il lavoro di commessa non rende bene. Vieni con me, ho qualcosa della tua misura nell'armadio.»
Aveva vestiti per bambini? Trotterellando un po' più speditamente, adesso che finalmente si sentiva più caldo e soprattutto non era più solo, Vincent le chiese «Anche tu hai un figlio?»
Si muovevano attraverso un lungo corridoio bianco, illuminato da un paio di lampade che pendevano dal muro. Rose si fermò davanti a una delle porte sulla loro sinistra e l'osservò con occhi tristi «L'avevo. Era un po' più piccolo di te, ma hai più o meno le sue stesse dimensioni. I vestiti ti entreranno, tranquillo.»
Avrebbe voluto indagare, Vincent, ma non aveva il cuore di fare altre domande se questo significava rendere triste Rose: lei era stata così buona con lui, gli stava pure dando i vestiti del suo bambino che ora non c'era più - forse anche lei aveva divorziato, e suo marito si era portato il figlio, proprio com'era successo coi suoi genitori?
La stanza in cui entrarono era chiaramente pensata per un bambino, con gli stessi muri spogli del corridoio precedente ma un grande tappeto colorato per terra, una piccola televisione a cui era attaccata una PlayStation, un tavolino con su tante matite colorate; il tempo sembrava essersi fermato, l'unica cosa che cambiava era la luce, che in quel momento entrava tenue dall'unica finestra, dando un aspetto sinistro alla scena di Rose che apriva il grande armadio e ne tirava fuori una felpa blu un po' impolverata.
Con un grande sorriso la porse al suo piccolo ospite «Ecco a te, mettila sulla camicia.»
Vincent fece come gli era stato detto e gli scappò anche un sorriso quando si accorse del disegno coi Power Rangers sul davanti «Anche io guardo i Power Rangers!» esclamò tutto contento.
Anche Rose fu felice «Davvero? Tim amava i Power Rangers, sono sicura che sareste stati ottimi amici. Adesso andiamo di là, su, ti preparo qualcosa di caldo.»
Mentre andavano in cucina, Vincent la prese per mano: era fredda.
- Il giorno dopo -
Rose era una persona molto sola e mesta, Vincent lo aveva capito pian piano standole accanto; in quella grande casa bianca non viveva nessuno oltre lei, lavorava durante la settimana in un market e i weekend li passava chiusa in casa, a leggere o pensare, gli disse, restando molto vaga. Aveva solo trentacinque anni, ma doveva averne passate molte.
Suo marito se n'era andato da un anno, subito dopo Tim, e ora viveva in Pennsylvania.
Sdraiato sul letto, Vincent pensò che sarebbe stato bello se Rose fosse diventata la sua baby-sitter - non la sua nuova mamma, perché nonostante tutto lui voleva bene a Liza e gli mancava tantissimo -, ma lei era così buona e dolce che gli dispiaceva l'idea di lasciarla di nuovo da sola.
Gli aveva promesso che avrebbe ritrovato la sua famiglia, ma nessuno era ancora venuto a prenderlo: che la mamma avesse davvero deciso di cogliere la palla al balzo e liberarsi di lui una volta per tutte? Il suo cuoricino fece crack e una lacrima provò a scappargli, ma la fermò in tempo e scosse la testa, la guancia schiacciata contro il piumone.
Era di nuovo sera, avevano passato tutto il giorno chiusi in casa, con la tv accesa ma il volume basso; il campanello aveva suonato circa due volte, alla seconda si era sentita anche la voce grottesca della signora Sullivan chiamare il nome di Rose, ma nessuno aveva aperto. Vincent si chiedeva perché: forse Rose aveva paura della vecchia donna?
Era stato mandato a dormire presto, troppo presto per i suoi gusti, era appena iniziata l'edizione serale delle news e dalla stanza accanto poteva sentire la voce elettronica dello speaker parlare di politica.
Vincent non capiva bene tutte quelle cose da adulti, ma capiva che la sua gola era secca e aveva bisogno di un bicchiere d'acqua; lamentandosi un po' contro quel tedioso fastidio, scivolò silenzioso da sopra il letto e, con le sole calze a tenergli al caldo i piedi, si avventurò fuori dalla stanza.
Preso com'era dal sonno e dalla sete, non si preoccupò di ascoltare il giornalista.
«... di piccole dimensioni, con un cappello bianco con delle orecchie nere, simile a un panda.»
La testolina del bambino sbucò dalla porta «Posso avere un bicchier d'acqua?»
Rose era seduta al tavolo, con le mani strette a pugno sul grembo e lo sguardo leggermente innervosito rivolto alla televisione; quando il bambino apparve dal nulla sobbalzò sorpresa, a Vincent sembrò di vederle per un attimo in volto un'espressione impaurita, che però subito si trasformò in una sorridente, anche se un po' forzata. Spense subito il televisore.
«C-certo!» celere e rigida, la donna si affrettò a raggiungere la vecchia cucina di legno scuro, mentre il piccolo faceva il suo ingresso, indeciso se sedersi vicino alla finestra o alla televisione: c'erano solo quattro sedie, ma una era completamente coperta di vestiti da stirare.
«Non guardi più la tv?» si informò lui, ricevette il bicchiere e un cenno di diniego, al che, con un certo imbarazzo, chiese «... Posso guardare i cartoni animati?»
Avrebbe voluto informarsi su quando lo avrebbe riportato a casa o la mamma sarebbe venuta a prenderlo, ma si sentiva a disagio; qualcosa gli suggeriva che era meglio tenere per sé questi pensieri. Rose gli fece una carezza sui capelli e di nuovo negò.
«Mi dispiace, Vincent, ma adesso ho bisogno che ti prepari.» gli spiegò, nonostante il suo volto fosse attraversato da un lungo sorriso c'era qualcosa che non andava; era... strana, diversa da com'era stata fino a quel momento.
«E dove andiamo?» Vincent ebbe appena il tempo di finire di bere, prima che lei gli prendesse la mano e quasi lo trascinasse di corsa nella stanza accanto. Gli faceva un po' paura.
«Andiamo da mia sorella.» gli spiegò frettolosamente.
«Eh? Ma perché?» non lo capiva, non ci capiva più niente! Non voleva andare dalla sorella di Rose, voleva solo tornare a casa dalla mamma! E se la donna non avesse avuto nessuna intenzione di riportarlo da Liza fin dall'inizio? Considerò quest'idea, ma gli fece troppa paura: Rose era una persona così gentile, perché mai avrebbe dovuto rompere una promessa?
Entrati nella stanza fredda e buia, lei si fermò e gli lasciò la mano, puntandogli addosso i suoi occhi chiari che improvvisamente sembravano gelidi, tanto da far venire la pelle d'oca al bambino, ma lei, imperterrita, lo guardava intensamente «Te lo spiegherò una volta arrivati lì. Non preoccuparti, Vincent, ci penserò io a te.»
"E la mia mamma?" no, non avrebbe avuto il coraggio di pronunciare quelle parole, ma non riuscì neanche ad annuire o rendersi complice di quel piano inaspettato.
Rifugiatosi nella luce della lampada da tavolo, assistette alla preparazione dei bagagli: una valigia con dentro ricambi e cibo, nessun libro, nessun gioco. Sembrava che si stesse preparando più per una fuga che un viaggio.
Circa dieci minuti dopo il campanello della casa suonò vigorosamente, facendo sobbalzare entrambi; la povera Rose sembrò terrorizzata: qualche persona cattiva era venuta a far loro del male? Vincent aveva paura, così tanta paura da sentire i piccoli piedi inchiodati per terra e la gola di nuovo secca, nonostante avesse appena bevuto.
Rose si diresse verso il corridoio, in mano aveva la sua valigia ancora mezza vuota «Andiamo!» lo spronò, ma Vincent non mosse un passo finché non fu lei a strattonarlo con la forza.
Dalla porta d'ingresso sentì provenire delle voci minacciose e maschili, ma loro stavano andando dalla parte opposta, verso la stanza di Tim; una volta dentro Rose chiuse a chiave, nel momento stesso in cui un gran rumore dall'altro capo della casa fece guaire Vincent come un cagnolino. Che avrebbero fatto, adesso?
La cameretta era avvolta nel buio, ad eccezione della luce lunare che entrava dalla solita finestra; dopo essersi freneticamente guardata attorno, come alla ricerca di qualcosa, Rose si fiondò verso di essa e la aprì, gettando un'occhiata sotto: era un bel salto, ma i cassonetti della spazzatura riducevano la distanza.
Le si allungò un sorriso orribile sul volto e distese una mano verso Vincent, schiacciato contro il muro e tremante dalla testa ai piedi: non voleva saltare, non voleva!
«Andiamo, dai!» cercò di convincerlo lei «Ti terrò stretto, così non ti farai male, promesso.»
Ma il bambino scosse vigorosamente la testa «No... voglio la mia mamma...»
Come aveva previsto, quelle parole la fecero arrabbiare, la fecero arrabbiare tantissimo. Furono le tenebre a mascherare parzialmente il viso della donna, su cui il sorriso si disfò in un batter d'occhio, tramutandosi in un'espressione di rabbia che gli suonò come un allarme.
«Non l'hai ancora capito, Vincent?» articolò quelle poche parole sottovoce, mentre il bambino scivolava per terra e con le mani premute contro il petto, gli occhi sgranati «La tua mamma non ci sarà mai per te.»
La porta fu buttata giù, i poliziotti entrarono e si scagliarono contro Rose prima che potesse muovere ancora un passo verso il bambino.
La ammanettarono e dichiararono in arresto per sequestro di minore; sulla porta, Vincent poté vedere la vecchia signora Sullivan con gli occhi sgranati. Liza però non era con loro.
***
«Ho saputo che Rose Cline si è suicidata, in prigione.»
La forchetta si bloccò a mezz'aria, a pochi centimetri dalla bocca di Vincent e con un pezzo di carne ancora infilzato e fumante; dopo qualche attimo d'immobilità lo mangiò e mandò giù, stavolta senza preoccuparsi di bruciarsi.
«Quando?» si informò, fingendosi poco o per nulla toccato dalla rivelazione.
«Circa due mesi fa.» George si era parecchio interessato alla faccenda di Rose Cline, di come avesse cercato di fare del suo figliastro il sostituto per il suo bambino, morto in un incidente stradale.
«George!» Liza piantò un pugno sul tavolo, sorprendendo i due uomini; aveva gli occhi verdi pieni di frustrazione, un'espressione che si avvicinava parecchio a quella di un felino «Sai che non voglio sentire quel nome!»
Non era mai riuscita a superarlo, quello shock, sebbene all'epoca Vincent fosse stato ritrovato fortunatamente a neanche ventiquattro ore dalla scomparsa grazie all'ottimo occhio di Renée Sullivan, che aveva riconosciuto Vincent grazie al particolare berretto con le orecchie da panda.
Quando lo avevano portato in commissariato, dove Liza aveva passato praticamente tutta la giornata, lo aveva abbracciato forte come mai e pianto così tanto che Vincent si era sentito un mostro per essere scappato.
«Capisco.» il ragazzo non alzò più gli occhi dal suo piatto per il resto del pranzo. Non sapeva sinceramente cosa pensare. Non sentiva niente, non provava niente.
Liza gli si avvicinò e lo cinse in un abbraccio più possessivo del solito.
Il bruno ricordava bene Rose, sapeva che non l'avrebbe mai dimenticata, né avrebbe dimenticato la facilità con cui si era fatto ingannare e quasi rapire; se Renée Sullivan non avesse ascoltato l'edizione serale delle news e non lo avesse riconosciuto, che cosa ne sarebbe stato di lui? Dove sarebbe stato in quel momento, a pranzo al tavolo di quale casa, con quali persone, con quale nome? Forse lo avrebbero comunque trovato, o forse no.
Aveva rischiato di non rivedere mai più sua madre e quella lezione era bastata a calmarlo per il resto degli anni passati in casa Wright, durante i quali era stato il più distante possibile dalla famigliola, il più impassibile possibile con George e Heaven, il più gentile possibile con Liza.
L'esperienza lo aveva cambiato per sempre, ma soprattutto aveva spinto sua madre a dargli finalmente la possibilità di decidere con chi vivere compiuti i quattordici anni, età a cui Vincent aveva fatto i bagagli ed era definitivamente tornato a Phoenix.
Odiava quella città, così piena di brutti ricordi...
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