13. Prospective V, Phoenix (1)
Arco II: rEvolution
Capitolo 13: Prospective V, Phoenix (1)
Vincent non aveva mai avuto il coraggio di fermarsi a pensare a cosa significava veramente per lui vendere il proprio corpo; la sua mente faceva le veci della sua volontà ogni volta che qualcuno gli metteva le mani addosso.
Non era qualcosa che aveva mai creduto di poter apprezzare, neanche quando a toccarlo era una bellissima donna - rare occasioni in realtà, i suoi clienti erano per lo più uomini, e questo non gli piaceva a dirla tutta.
Vincent non reputava di essere omosessuale o bisessuale, ma dopo la sua prima volta con un uomo aveva imparato a non dar peso più del dovuto alle differenze di genere. Spesso faceva male, faceva tantissimo male, ma non aveva realizzato la verità essa non gli si era rivelata davanti agli occhi; allora aveva capito di aver ciecamente seguito l'istinto, proprio come un animale, comandato senza pietà da un parassita che ormai si trovava in chissà quale parte del suo corpo.
Da quel giorno Vincent si era chiesto: chi aveva comandato sin dall'inizio, da quando Lacey lo aveva contagiato? E la risposta era stata molto più facile da trovare di quanto potesse sembrare: il virus. Era sempre stato il virus.
Quando, appena consumato quel desiderio sessuale diventato insopportabile e inopportuno, si ritrovava disteso sulle lenzuola di un letto non suo, col cuore in subbuglio, gli arti vibranti di eccitazione e i capelli bagnati di sudore, se ne rendeva conto: ci era cascato di nuovo, ma lui non voleva quello.
Non voleva condividere qualcosa di privato come il suo corpo con sconosciuti. Non voleva che mani mai sfiorate lo stringessero come con una bambola.
Non voleva essere lo sfogo di nessuno e neanche il fantoccio del virus H o di Lacey Smith!
Voleva tornare ad essere un adolescente il cui problema più grande era l'università, trovarsi una fidanzata che avrebbe sinceramente amato, una persona davanti alla quale si sarebbe spogliato senza sentirsi sopraffare da disperazione: "fermati!" si diceva ogni volta, e ogni volta non ci riusciva.
Era incredibile quanto poco forte fosse la sua forza di volontà.
E non si trattava solo di lui: Dio solo sapeva quanti infetti popolavano le strade di Phoenix e degli Stati Uniti, contribuendo ogni giorno alla creazione di nuovi burattini del progetto E.
E così si era ritrovato ancora in quella situazione, che da mesi era sempre più insopportabile.
Ad abbordarlo era stato l'ennesimo sconosciuto di cui non si premurò neanche di osservare il volto; non lo avrebbe ricordato comunque l'indomani, i suoi clienti erano, salvo rare eccezioni, tutti delle ombre passeggere.
Egli si era professato cercatore di verità interiori, al che Vincent aveva annuito senza interesse e lo aveva seguito, dopotutto in America ogni giorno qualcuno si inventava un nuovo lavoro strano.
L'uomo, uno smilzo più o meno della sua statura, lo guidò al piano superiore del locale come se conoscesse la strada meglio di lui, farfugliando cose prive di utilità riguardo la sua recente separazione con una donna in carriera, quel certo amico che avrebbe dovuto mettere la testa a posto e altri fatti della sua vita giornaliera che a Vincent non importavano affatto.
"Ma non sta mai zitto?" si domandò il bruno, tenendo la testa bassa e il fiato nei polmoni: non si sarebbe arrischiato a dimostrare apertamente la sua irritazione buttandolo fuori, piuttosto avrebbe serrato denti e pugni e continuato ad ascoltare quelle frivolezze.
Arrivati alla stanza dalla porta di legno che tanto ricordava un albergo, il cliente fece un agile passo indietro con una mossa lesta, il ragazzo usò la chiave di servizio e dopo due giri la serratura scattò, aprendo il varco verso l'oscurità.
Questa volta non si sarebbe curato neanche di accendere le luci; e mentre l'altro, entrato di getto, commentava con quella sua voce instancabile questo mobile e quella scelta di tende e abbinamenti di colori, Vincent aprì le persiane quanto bastava per illuminare la stanza il necessario. Si voltò verso l'uomo celato dall'oscurità, che finalmente aveva deciso di stare in silenzio e lo guardava - per quel poco che riusciva a scorgere nella poca luce - con un sogghigno pieno di cattive intenzioni, che lo fece sentire a disagio.
Non era pronto a un remake di Crane.
«Hai detto che sei una specie di... artista di strada?» mugugnò, inghiottendo insicurezza e ansia.
Senza che la sua espressione mutasse, il cliente portò una mano al volto e si tamburellò la guancia destra con l'indice, quasi procace «No. Io sono solo un'ombra. Non pretendere di capire.»
«Un'ombra.» ripeté, quasi sussurrando, Vincent.
Un'ombra. Così come lui era un'ombra di Hound. O era Hound ad essere un'ombra di lui? O entrambi erano un'ombra del virus H? Oppure Hound e il virus coincidevano?
Avrebbe voluto capire di più, adesso che finalmente quell'uomo - o ragazzo? - cominciava a rivelarsi leggermente più interessante, a mostrare una facciata diversa oltre quella dell'idiota dalla parlantina sciolta, ma poco c'era da fare: dopo la criptica sentenza il cliente mutò il suo sorriso beffardo in uno di sfida, invitando Vincent a fare il suo lavoro con un gesto della mano che valeva più di mille parole.
Vincent avrebbe voluto sbuffare, mandarlo al diavolo e andarsene a casa, ma era arrivato il momento di smettere di sognare e vivere nella cruda realtà.
Si chiese se, come molti altri, anche costui avrebbe voluto spogliarlo, ma l'altro sembrò quasi schifato dalla sola idea - Vincent sollevò un sopracciglio: intendeva avere un rapporto sessuale a distanza? Era consapevole che avrebbe comunque dovuto toccarlo dopo?
«Non sono... infetto.» ebbe qualche problema a pronunciare quelle parole, dopotutto stava mentendo in modo spudorato.
L'altro rispose facendo schioccare le labbra. Era un tutto e un niente, solo l'ennesimo nulla di fatto, capace solo di confondere ancora di più le idee del bruno; quest'ultimo fece per sollevarsi il maglione, il primo di quella serie di gesti ormai meccanici, ma venne bloccato da una mano alzata nel buio, le cui dita venivano illuminate solo per metà dalla luce esterna.
«Non ce ne sarà bisogno.» prese l'iniziativa il cliente, sorridendogli in un modo che fece sentire Vincent un bambino preso in giro da un adulto «Saranno sufficienti i pantaloni.»
«... Ah.»
Si sentì un idiota.
Solo un "ah" gli uscì dalla bocca, come se non avesse già avuto clienti che andavano subito al sodo; in genere a fare così erano quelli con una famiglia sulle spalle e desideri proibiti che trovavano imbarazzanti e disgustosi, tanto da volerli appagare il più in fretta possibile e nel modo meno sporco.
Effettivamente, a giudicare dall'ottimo gusto nel vestire e l'aria pulita, il suo cercatore di verità interiori o qualcosa del genere doveva essere qualcuno così. Di certo non era un tizio a caso che aveva fatto una scommessa o aveva scelto di impiegare il suo addio al celibato con un uomo. Era la prima volta che gli capitava un cliente così giovane.
Vincent procedette a sfilarsi i jeans, sentendone la ruvida stoffa sfregare contro le gambe, che in reazione al freddo che pervadeva la stanza s'irrigidirono.
Li abbandonò su una sedia.
Routine.
Non era altro. Probabilmente quel ragazzo era già infetto di suo, ormai a Phoenix forse non c'era neanche più una persona non vergine non infetta, anzi nemmeno loro erano al sicuro, visto che il virus si propagava anche via ematica.
Era routine. Una routine che odiava, e glielo si lesse chiaramente in faccia mentre il cliente, avvicinatosi, gli indicò con un cenno del capo il lato di camera dove si trovava il letto. Ma quando Vincent fece per avvicinarvisi fu ancora una volta corretto.
«Mi riferivo al muro.»
"Cazzo, no! Odio quella posizione!"
Evviva, sarebbe stato incapace di sedersi per la settimana successiva!
Trattenne un sospiro di rassegnazione ed irritazione - e fu davvero difficile considerando quanto il cliente si stesse mettendo d'impegno per fargli perdere la pazienza.
Sì, era davvero il tipo di persona che più odiava: quella che doveva trasformare anche qualcosa di veramente facile in qualcosa di difficile. Esattamente come lui.
Appoggiò i palmi delle mani sulla parete dalla carta da parati a righe, all'altezza del proprio petto, chinò il capo ed inspirò profondamente; l'aria gelida gli invase i polmoni e fu quasi un sollievo. Tuttavia durò poco, morì quando sentì il rumore ben distinguibile di una cintura slacciata e dei pantaloni abbassarsi e poi il lento avvicinarsi di passi ritmici, così lenti da somigliare ad una tortura cinese, atta a farlo impazzire.
«Come ti sei fatto quella cicatrice sul collo?»
La voce dell'uomo proruppe nel silenzio, tagliente e rugginosa, quasi sgradevole, ma al contempo in qualche modo sensuale.
Vincent si tirò il dolcevita del maglione in alto abbastanza da coprire la linea sottile e bianca. Non pensava che in quel buio sarebbe stato in grado di notare una simile sottigliezza!
«Un cliente.» fece, evasivo; uno spiacevole incidente che gli aveva procurato un ricordo permanente. Il colpevole? Shaun Morris. Si era scusato una notte intera per quel graffio fatto con le unghie per errore, ma proprio con quel pretesto avevano iniziato a parlarsi veramente e conoscersi meglio.
Alla fine lo avevano stoicamente definito "il tentativo di mettere un collare a un cane randagio".
«E nonostante tutto continui a prostituirti?»
Era davvero così necessario evidenziarlo? In quell'occasione gli era andata bene e la ferita non aveva quasi per nulla sanguinato, ma i suoi ricordi non poterono che volare all'episodio Crane.
«Sai perché ti ho detto di non spogliarti?»
Il giovane provò a lanciarsi un'occhiata alle spalle, ma una mano avvolta in un guanto gli ghermì la spalla e lo costrinse contro il muro quasi con violenza, mentre un'altra gli abbassava tutto ciò che rimaneva a coprirgli la parte bassa.
La risposta la sentì vicinissima al suo orecchio, assieme al fiato, che gli accarezzò la pelle e lo fece intirizzire bruscamente.
«Perché odio le cose imperfette.»
E una prima spinta, senza alcuna preparazione.
Un mugolio di dolore e la sua testa si appoggiò al muro, come in cerca di sostegno; il corpo era tesissimo e i muscoli dolenti, il fiato gli si ruppe in bocca, tra i denti stretti.
«Odio le maschere.»
Un'altra spinta ed il ragazzo stavolta fu sbattuto con più forza contro la parete, la faccia per metà schiacciata contro di essa. Si lamentò a voce più alta, la sua mente urlò l'urgenza di ribellarsi e scappare, ma il suo corpo, comandato a bacchetta dal virus e dal dolore, rimase fermo lì, benché senza neanche una reazione: iniziava ad avere paura.
«Odio le bugie.»
E un'altra ancora, ancora più forte.
Una gamba gli cedette e si piegò malamente di lato, un crack sordo fu coperto dal suono del corpo del prostituto che veniva scosso senza pietà per la quarta volta, e poi ve ne fu una quinta e alla sesta Vincent perse il conto. Le sue capacità cognitive furono ridotte alla percezione del dolore, che sembrava aprirlo in due, e a quella voce spietata che continuava ad elencare tutto ciò che lui era: imperfezione, maschera, bugia, vergogna, insicurezza, omertà.
«Odio la paura!»
«Basta!» urlò, mordendosi la lingua, ma non servì a niente se non a fargli salire le lacrime agli occhi ed appannargli la vista «Sta' zitto!»
Quando mai si era comportato così? Perché doveva subire tutto quello? Che aveva fatto di male? Ma quella persona crudele non accennò a fermarsi, anzi, calò un'altra volta su di lui, bruciando ogni frammento di orgoglio rimastogli.
Di tutto non restò che un corpo svuotato di forze, freddo fuori ma caldo dentro, tremante e bagnato di sudore freddo.
Non c'era altro in lui: tutto ciò che era, era stato messo a nudo e ridicolizzato.
«... E poi...» ancora lì, vicino e chiaro, quel sibilo gli accarezzò l'orecchio.
Vincent, che senza sapere come si era ritrovato in ginocchio, col fiato corto e gli occhi sbarrati, che riversavano lacrime su lacrime contro la sua volontà, lentamente torse il collo fin quando non incontrò il volto di quella persona, finalmente chiaro nelle tenebre.
«No... !» concitato e isterico, vibrò da capo a piedi, allontanandosi con l'orrore dipinto addosso «Non toccarmi!»
«Più di tutto... odio la mia debolezza.» gli sorrise la sua stessa faccia.
Quello era lui.
«BASTA!» Vincent urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni.
***
E l'urlo gli morì in gola quando si svegliò.
Si ritrovò seduto sul letto in un bagno di sudore, le mani che stringevano il piumone, le labbra socchiuse in una smorfia di paura degna di una maschera greca, le guance fredde e pallide e il respiro affannoso.
Era esterrefatto, impietrito.
Era stato tutto un sogno.
"Un fottutissimo sogno! Vaffanculo, autoanalisi di merda!"
Cacciò un sospiro di sollievo come ne aveva fatti pochi nella vita, non era mai stato così felice di svegliarsi!
Ogni più piccolo dolore era scomparso, ancora un filo sottile di paura permaneva, sebbene il ritorno alla realtà avesse reso ogni immagine fino a poco prima così reale una baggianata dai contorni vagamente inquietanti. Prese un respiro profondo e un altro ancora, scosse poi la testa e si lasciò cadere sul letto: sognare di essere violentati da se stessi, che roba!
Che avesse qualche significato nascosto, quel sogno? Poco gli importava, sinceramente parlando: si era preso un bello spavento e non aveva la minima voglia di ripensare a come i suoi occhi nei buio dovevano sembrare maligni e scrutatori agli altri.
Si passò una mano gelida sulla fronte imperlata di sudore, stupendosi di quanto era bollente.
"Ho la febbre?" si chiese, non era mai stato in grado di capirlo senza l'aiuto di un termometro, ma in casa ne avevano uno solo, che veniva posto nel cassetto del malato di turno.
L'ultima volta che lo aveva visto era in camera di Thomas, luogo che il ragazzo evitava volentieri, dunque ne avrebbe fatto a meno e sarebbe invece andato a bere qualcosa per svuotare la mente dai pensieri negativi.
In ogni caso non avrebbe chiuso occhio per almeno un altro paio di ore, di tornare a dormire non ne voleva sapere per ora. Si diede una spinta verso sinistra, coi muscoli intorpiditi che si lamentavano per l'improvviso movimento.
Fuori dal letto faceva freddo e Vincent odiava il freddo, così una volta in piedi attraversò il buio della stanza, falciato solo dalle luci esterne che penetravano dai finestroni, aprì l'armadio e ne tirò fuori una felpa che un tempo era stata di Jonathan, di un bel verde scuro, colore che normalmente avrebbe guardato con disgusto, ma che ora gli sembrava uguale a qualsiasi altro.
Avvolto nel calore ristoratore della lana e ancora un po' intontito dal sonno, uscì in corridoio, facendo attenzione a non produrre nessun suono se non lo scricchiolio inevitabile dei cardini ossidati della porta.
Ancora una volta nell'oscurità che conosceva bene, si trascinò borbottando sottovoce qualcosa contro la bassa temperatura per tenersi compagnia. Dalla stanza in fondo, il russare di suo padre rimbombava fastidioso, ma anche quel rumore normalmente sgradevole gli servì a sentirsi più sicuro.
Le scale che connettevano i tre piani erano dotate di faretti appena visibili, che di notte segnavano il passaggio, perciò non ebbe bisogno di accendere la luce, che avrebbe probabilmente svegliato Jonathan. E lui non voleva svegliare Jonathan, soprattutto ora che le cose andavano inaspettatamente bene.
Appoggiò la mano sul corrimano per aiutarsi e scese qualche gradino, fu quando arrivò al quinto che uno strano sibilo proveniente dalla sua stanza lo fece sobbalzare.
Che cos'era stato?
Si diede un pizzicotto sulla guancia: era sveglio. Dannazione.
Con i nervi a fior di pelle, lottò con la propria mente per costringersi ad alzare lo sguardo: non voleva vedere, non voleva sapere che cosa stava succedendo. Fece per ignorare l'accaduto e proseguire per la sua strada, ma un altro suono, stavolta di vetri rotti, lo fece sobbalzare e altare lo sguardo.
Sulla porta che aveva lasciato socchiusa poco prima, trovò a fissarlo di rimando proprio l'unica cosa che aveva pregato di non vedere mai più. Nell'unico attimo in cui la fissò, la vide meglio, la sua allucinazione ormai di casa: un'ombra alta più del normale e con lunghe braccia lasciate penzoloni, e un viso del tutto nero.
Sgranò gli occhi e fece un passo indietro, inciampando. Perse l'equilibrio e cadde. La sensazione di vuoto tutt'intorno lo paralizzò e, dopo aver rotolato dolosamente per tutta la rampa, si afflosciò sul pavimento del piano di sotto, svenuto.
Al piano di sopra tutti si svegliarono.
Sulla porta della camera non c'era mai stato niente.
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