12. Crimson fireflies (3)

Arco II: rEvolution

Capitolo 12: Crimson fireflies (3)

Vincent, come quasi ogni adolescente, aveva una minima cultura sul mondo della prostituzione, per lo più dettata dai canoni cinematografici e da sporadici e occasionali incontri con escort che più di una volta avevano cercato di abbordarlo sulla via di casa.

La sua idea di prostituzione e di prostituta si allontanava parecchio dalla visione comune, forse perché, insanamente a pensarci bene, la prima volta che aveva sentito la parola puttana era andata più o meno così...

Aveva otto anni e una strana visione del mondo già a quell'età, ma quella parola gli era del tutto nuova.

Sorpreso, sollevò le sopracciglia e dischiuse le labbra; era uno slang o un dialetto di Seattle? Si sentì imbarazzato quando biascicò «Che... cosa significa?»

«Puttana?» Davis, che era una specie di boss indiscusso nella terza classe della sezione A, distolse lo sguardo dalla pietrificata Patty, che si era sentita affibbiare quel termine che aveva sconvolto mezza classe e aveva scatenato un fiume di lacrime che si mescolava ai riccioli biondi. Davis mise una delle sue grassocce mani sul fianco, guardando Vincent in modo un po' sprezzante.

Non avevano mai avuto brutti rapporti - Vincent aveva una stupida paura dei bambini sovrappeso, pensava che potessero schiacciarlo, quindi ci pensava due volte prima di prenderli a parole -, ma qualcosa nei suoi felini occhi color mare suggerì al piccolo Black che da quel giorno le cose sarebbero cambiate.

Patty e le sue due amiche del cuore, Rosalie e Jane, erano intanto scappate in direzione del bagno con un gesto molto teatrale, che però passò inosservato; l'attenzione della piccola folla di bambini era ormai concentrata su Davis e Vincent.

«Una puttana è una femmina che va con tanti maschi.» Davis vomitò quella spiegazione gonfiando il petto, inorgoglito da quel suo sapere che aveva il gusto del tabù «Come tua mamma, no?»

L'intero corpo minuto di Vincent tremò come se una vetrata gli fosse appena caduta addosso, spezzandosi in mille schegge affilate. Le gambe per poco non cedettero - non ricordava di pesare così tanto, aveva mangiato troppo a colazione? - e il fiato, fino ad allora regolare, gli si mozzò in gola come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco.

Aprì così tanto le palpebre che i suoi compagni pensarono che in breve gli sarebbero usciti gli occhi dalle orbite, poi, senza alcun preavviso, si buttò addosso al compagno sferrando feroci pugni e strillando con voce troppo acuta per un maschietto «Mia mamma non è una puttana!»

La sua reazione selvaggia non solo rovinò per i restanti due anni il suo rapporto con la classe, ma gli valse una sospensione, un dente rotto, una settimana di occhio nero e la convinzione che, sì, i bambini sovrappeso potevano davvero schiacciarlo se decidevano di reagire.

Quando raccontò a Liza che cosa aveva detto David Melton di lei, ella impallidì e lo strinse forte come quando, da piccolissimo, aveva paura dei fulmini.

Per un po' di tempo era davvero stato convinto che sua madre rientrasse nella definizione di puttana, dopotutto aveva tradito suo padre, ma col passare degli anni si era reso conto - con un gran senso di colpa - di quanto fosse ottusa e ingiusta quella definizione.

Alla fine, aveva decretato che Liza aveva solo migliorato la sua condizione, liberandosi di ciò che le tarpava le ali, benché per farlo avesse lasciato indietro Jonathan e, parzialmente, anche lo stesso Vincent.

Tutto ciò lo aveva portato a riflettere parecchio su cosa ne pensava di chi si prostituiva, ed era arrivato alla conclusione che non gli importava. Se c'era chi si avvelenava fumando, chi si danneggiava il cervello bevendo, e tutto ciò era legale, che cosa c'era di sbagliato nel vendersi? Almeno, pensò con una certa convinzione, vendersi procurava degli incassi, mentre altri vizi della società, ben legalizzati e considerati normali, portavano solo a delle spese.

Ognuno poteva fare quel che voleva di se stesso. L'essere umano gode del libero arbitrio.

Ma questo era un espediente che poteva applicare solo a se stesso e a chi si prostituiva per libera scelta.

Su quanto fosse immorale, insensato e inutile il suo tentativo di giustificare qualcosa di cui non comprendeva la gravità, non si era mai voluto soffermare a pensarci troppo. S'illudeva di aver trovato la risposta che cercava e, cocciuto come un bambino, proseguiva per la sua strada, senza sapere che questa lo avrebbe condotto ad un epilogo già scritto.

La cosa più imbarazzante delle poche formalità - ed illegalità - fatte prima di ammettere ufficialmente Vincent nel giro del Naughty Sunday, fu senza dubbio il servizio fotografico.

Lacey lo aveva contattato due giorni prima, spiegandogli sommariamente cosa avrebbero fatto e raccomandandogli di presentarsi nella sua forma migliore, dandogli persino qualche consiglio.

Vincent, che ormai aveva una sorta di rivalità immortale con quella donna, aveva voluto dimostrarle di non aver bisogno del suo aiuto, ed era giunto la mattina prestabilita nel posto prestabilito - uno studio fotografico a Downtown con in vetrina la foto di una sposa bella da mozzare il fiato - con dieci minuti d'anticipo, in modo da essere lì quando Lacey fosse arrivata.

Stava ancora ammirando l'abilità del fotografo, immortalata negli scatti esposti, quando una honda rosso scuro parcheggiò a pochi metri da lui; lo sportello si aprì e, con un movimento che ricordò a Vincent Sex and the City, dei bei tacchi si poggiarono sull'asfalto sporco con la grazia di un predatore.

Lacey scese dall'auto, il suo corpo era avvolto da un abito celeste di cashmere che valorizzava i suoi capelli perfetti e il viso poco truccato; a quella donna bastava uno straccio per far strage di maschi, pensò Vincent con un moto di disgusto. Non poteva negare di essere a sua volta attratto da lei, ma la sua guerra personale era troppo violenta per permettergli di cedere alla tentazione della ex di suo fratello.

E poi una che offre un posto da escort al suo quasi-stupratore non poteva essere a posto col cervello. Oppure doveva avere un diabolico piano di cui lui non era a conoscenza.

Quando lo vide, Lacey sorrise graziosamente e lo raggiunse con un tacchettio rilassato di tacchi. La luce del sole creava magnifici riflessi dorati sulle sue ciocche sciolte e faceva sembrare le sue ciglia nere ancor più lunghe.

«Apprezzo sempre di più la tua puntualità, Vincent.» lo accolse allegramente quando furono vicini.

Nessuno dei due accennò a un saluto un po' meno formale: niente baci sulle guance, niente strette di mano.

Lacey profumava di rose fresche.

Gli scostò delicatamente una lunga ciocca ramata che gli copriva l'occhio destro.

«Apprezzo anche il tuo stile tenebroso da cattivo ragazzo, ma il ciuffo emo lo spostiamo per oggi.»

Vincent arricciò il naso «Non è un ciuffo emo.» lo ripeteva sempre; perché tutti pensavano che fosse emo solo perché portava un occhio un po' coperto?

Lacey si prese un minuto per assicurarsi che il suo nuovo acquisto avesse le carte in regola per apparire come lei voleva: fece i complimenti per l'abbinamento dei colori, ma infine disse solo «Davvero carino. Oggi però ti voglio vedere vestito da cameriere.»

Di nuovo, Vincent fece una smorfia, infilando le mani nelle tasche del cappotto scuro «Io non servo nessuno, al massimo i miei capricci.»

Lacey rise e gli fece cenno d'entrare dopo di lei, accostandosi alla porta di vetro che spinse, proiettando giochi di luci e ombre sul pavimento del negozio «Sono sicura che l'abbigliamento elegante ti dona di più. Mi dispiace, Vincent, ma sei troppo bello per lasciare inusato tanto ben di Dio.»

Vincent non seppe se sentirsi lusingato o preso in giro.

Venti minuti dopo seppe che avrebbe dovuto sentirsi preso in giro.

Si guardava allo specchio e si chiedeva se era davvero lui quella persona, non senza una certa diffidenza; alla fine Lacey aveva vinto e si era cambiato, indossando un completo che avevano preparato apposta per lui.

Forse era colpa del camerino, così stretto che avrebbe fatto venir un attacco di claustrofobia a chiunque, o forse delle luci che allungavano le ombre sul suo viso e sotto gli occhi, ma sembrava molto più alto e adulto del solito, in maniera un po' esagerata.

I pantaloni neri gli fasciavano bene le gambe e lo rendevano più slanciato, la camicia bianca gli dava una purezza a lui del tutto estranea, mentre il gilet dai bottoni dorati e la cravatta, a cui era stato applicato un fermacravatta anch'esso in oro, gli conferivano eleganza e professionalità.

Lacey aveva persino insistito fino alla nausea per truccargli il volto, per nascondere qualche difetto e imperfezione; Vincent non si era mai truccato in vita sua, se non per Halloween e una volta in cui Fanny lo aveva obbligato a fare un cosplay con lei. Era una sensazione fastidiosa, a cui non si sarebbe mai abituato, sembrava di avere addosso una maschera che aderiva alla pelle.

Lui era abituato a un altro genere di maschere, che non necessitavano di niente se non di una buona abilità a modellare a piacere le proprie espressioni.

Come promesso, Lacey gli aveva spianato la fronte e rivelato l'occhio destro. Era così innamorata delle sue iridi giallo vivo che non aveva voluto saperne di coprirle.

«È un colore estremamente raro in natura, sai? La gente crede che gli occhi gialli, viola, rossi e neri non esistano, perciò non devi nasconderli.»

Vincent avvicinò il viso allo specchio, fissando i propri occhi.

Sì, sapeva meglio di chiunque altro che era opinione comune che gli occhi gialli non esistessero, aveva perso il conto di quante volte i professori, a scuola, gli avevano sdegnosamente ordinato di togliere delle lenti a contatto inesistenti.

Non aveva mai pensato di sfoggiare con orgoglio i suoi occhi, ecco perché cercava di nasconderne almeno uno.

Si scoccò un ultimo sguardo prima di uscire dal camerino: non si era mai sentito al contempo così bello e così estraneo. Per tirare le somme: non si piaceva neanche un po'.

***

Lo studio del fotografo Samuel Good era attrezzato, signorile, un vero luogo di classe. La disposizione delle fotografie permetteva di apprezzarle una per una, senza trascurarne nessuna; allo stesso modo, anche l'angolazione delle luci creava giochi di colori e di forme che ingannavano l'occhio e dirigevano l'attenzione dove era più conveniente.

Samuel Good non era meno regale del suo studio: un uomo sulla quarantina dai capelli fulvi e gli occhi dal taglio orientale, i cui angoli erano accentuati da un accenno di eyeliner; indossava un completo giacca, cravatta e pantalone Gucci, ed aveva, proprio come Vincent, i bottoni dei polsini in oro. Il viso era privo di rughe, squadrato e un po' pallido.

Ispirava una raffinatezza antica di secoli, tanto che Vincent lo avrebbe collocato più in un palazzo vittoriano piuttosto che in uno studio fotografico in mezzo alla torrida Phoenix.

Lacey e Vincent furono condotti nella sala adiacente, nella quale il professionista svolgeva i servizi fotografici.

Era ampia, arieggiata, completamente bianca sia nelle pareti che nell'unico mobile che la occupava: un largo divano; alla sinistra di questo, dalle spaziose finestre aperte penetravano fasci di luce naturale e mattutina che inondavano l'ambiente, rendendolo accecante come un diamante. Nel complesso, la sua semplicità aveva un che di maestosità.

«Allora? Non è superiore ad ogni tua aspettativa?» lo provocò Lacey, spronandolo a farsi avanti con una leggera gomitata.

Vincent scrollò le spalle, fingendosi disinteressato «Non sono esperto di questo genere di cose.»

Ah, cosa non avrebbe fatto pur di non darle soddisfazione!

Samuel Good passò accanto a loro e li superò con passo veloce «Possiamo cominciare?»

Lacey aveva già spiegato a Vincent che quell'uomo collaborava con loro da molto tempo: si era occupato dei servizi fotografici di ogni singolo e singola escort del Naughty Sunday, perciò Vincent si era prefigurato nella propria mente una situazione completamente diversa da quella in cui si trovava.

La malavita invece ancora una volta splendeva con la luminosità del sole davanti ai suoi occhi, lontana dall'immagine di sporco e ruggine a cui l'aveva sempre associata.

Lo fecero sedere sul divano e gli diedero semplici istruzioni: scivolare su un dato lato del corpo, accavallare le gambe, modellare determinate espressioni. Il ragazzo, che aveva bellamente dato per scontato che la finzione a cui lo avrebbero sottoposto non sarebbe stata diversa da quella che viveva di solito, si ritrovò invece a fissare spaesato Lacey e il fotografo che gli rigurgitavano addosso pretese e pareri.

Notata la sua inaspettata insicurezza, Lacey gli mise una mano sulla spalla e sorrise «Fai come se noi non ci fossimo. Comportati come quando sei al Naughty Sunday.»

Naturalmente, Vincent non ci riuscì.

Tentò di mettersi a suo agio, ma l'idea di posare rendeva i suoi movimenti rigidi, le espressioni visibilmente false, i sorrisi non maliziosi ma solo ridicoli. Dopo circa quaranta minuti, si buttò con la testa su uno dei braccioli, afflitto.

«Basta, non ne posso più!»

Lacey era conturbata. Stava comodamente seduta su una sedia dai cuscini di velluto nero e aveva le braccia conserte, le sopracciglia calavano sugli occhi imperiosamente.

«Non capisco cosa c'è che non torna.» mugugnò, rivolgendosi al ragazzo «Eppure di solito sei così... così pallone gonfiato senza bisogno di sforzarti.»

«Grazie tante.» borbottò Vincent, affondando la testa nel morbido cuscino.

Samuel Good sollevò allora lo sguardo dall'anteprima delle foto che aveva scattato e appoggiò la reflex su un piccolo tavolino in mezzo alla stanza. Superò i riflettori, avvicinandosi al giovane «Sei uno dei peggiori modelli che mi siano mai capitati tra le mani, ragazzo. Potrei fare uno sforzo eccezionale e renderti vagamente appetibile, ma mi devi venire incontro. Che cosa c'è che non va?»

«Vediamo...» iniziò Vincent con tono acido, sollevando il volto «Non sono mai stato vestito così. Non ho mai fatto un servizio fotografico. Trovo insensato sorridere a una macchina fotografica come se la stessi pregando di sbattermi al muro. Non sopporto questa luce troppo forte. Ah, e poi c'è lei, mi ispira omicidio.»

Indicò Lacey, che gli scoccò un'occhiata a metà tra l'offeso e l'aggressivo.

Il fotografo la guardò in modo eloquente e lei buttò fuori l'aria dai polmoni in un sospiro esasperato.

Alzò le mani, prima di allontanarsi verso la porta «D'accordo, d'accordo.»

Quando al posto della bionda vi fu solo il pulviscolo che nella luce solare si muoveva pigro, Vincent si sentì immediatamente più sereno, e ciò fu visibile.

«Posso ridurre l'illuminazione, nel frattempo rilassati.» continuò allora Good, allontanandosi verso le finestre.

Ogni centimetro di luce in meno era un piacere per gli occhi di Vincent. Amava la luce, ma quella troppo intensa gli faceva lacrimare gli occhi; era nel buio, paradossalmente al contempo minaccioso ma rassicurante, che sentiva di poter essere la persona che Lacey voleva.

Da lì in poi fu più facile, decisamente più facile; Good gli scattò qualche foto di prova, dandogli poi ordini su quanto girarsi o dove guardare, e Vincent scoprì che, proprio come aveva pensato, lontano dalla luce era più facile sentirsi sporchi.

Lo fece poi spostare presso la finestra, togliere la cravatta e aprire il colletto della camicia, e questa volta, sentendosi meno costretto di prima in abiti che non sentiva suoi, riuscì a soddisfare ogni richiesta più o meno bene, stupendo il fotografo.

***

«Questa, questa e questa!»

Lacey era a dir poco estasiata; premeva i pulsanti della reflex con un dito dall'unghia smaltata di rosso, scorrendo la sequenza di foto con entusiasmo. Ne scelse tre: nella prima Vincent era seduto sul divano a gambe accavallate e sembrava invitare qualcuno a accomodarsi accanto a lui; nella seconda era sulla sedia precedentemente occupata da lei, con le gambe ai lati dello schienale e lo sguardo assorto; nell'ultima invece era appoggiato alla finestra, la luce disegnava delle bellissime ombre sotto i suoi occhi ed aveva un dito maliziosamente appoggiato alle labbra, in segno di far silenzio.

Vincent si sentì in imbarazzo, ma fu felice di essersela cavata con foto tutto sommato normali. Sperò di non ripete più un'esperienza simile.

La donna gli rivolse un radioso sorriso: tutta l'indisposizione di prima sembrava essere svanita «Davvero bellissimo. Complimenti, Vincent!»

«Modestamente bellissimo.» replicò il ragazzo, ignorando il complimento.

Good, che nel frattempo era rimasto in disparte, prese parola «Qual è il tuo nome d'arte?»

Nome d'arte? Vincent batté più volte le palpebre: non ne aveva ancora uno. Era stato assoldato da Lacey poche settimane prima e non gli era neanche passato per la testa di doversi cercare un nome d'arte. Di certo non poteva usare il suo, e non poteva usare neanche Stephan.

Lacey sembrò ridestarsi dalla sua estasi e sollevò gli occhi al fotografo «Non lo ha ancora scelto.»

«Il nome da prostituto?» ripeté Vincent.

Good fece segno di no con la testa, quindi lo osservò con molta attenzione; nei suoi occhi blu Vincent non riusciva a leggere niente.

«Tu non sei un prostituto, ragazzo. Quelli che lavorano per Lacey Smith non hanno idea di cosa significhi davvero battere in strada, siete dei privilegiati.»

Vincent aggrottò la fronte e strinse le labbra in una linea sottile, sprizzava disappunto da tutti i pori. Neanche la donna accanto a lui sembrava molto contenta di quel discorso.

«Non guardarmi così, sto dicendo la verità.» l'altro gli si avvicinò, nella penombra sembrava l'avvocato del diavolo «Non vi vendete perché morite di fame o avete otto fratelli da nutrire. La vostra salute è salvaguardata regolarmente. Se qualcuno alza un dito su di voi... ah, è meglio che tu non sappia che guai passano quegli idioti. Insomma, non avete il diritto di chiamarvi escort. Siete dei ragazzini viziati, non dei disperati. Ragazzini che trovano eccitante essere toccati dagli sconosciuti.»

Il pugno partì senza preavviso, dritto e diretto allo zigomo del fotografo; questi perse l'equilibrio e cadde a sedere, tenendosi la guancia colpita con la mano. Tutta l'aria di mistica antichità e raffinatezza sembrò andare in pezzi come uno specchio.

Sia l'uomo che Lacey rimasero senza parole e sgomenti a fissare un Vincent dallo sguardo scuro e furioso, con la mano ancora serrata a mezz'aria, al punto che le nocche erano diventate bianche.

Senza infierire ulteriormente, il ragazzo lasciò la stanza, sentendo alle sue spalle solamente uno schifato «Cane!»

Lacey dovette fare i salti mortali per non mandare a monte l'affare, ma riuscì ad avere le foto che voleva in cambio della promessa di non portare mai più Vincent in quello studio.

Neanche lei sarebbe comunque tornata, adesso che sapeva cosa ne pensava davvero lui dei suoi lavoratori, e a Lacey i suoi lavoratori stavano a cuore.

Non poteva permettere ad un tizio qualunque di insinuare nella mente di Vincent dei dubbi: quei pochi portatori sani che aveva erano preziosi come l'oro.

Trovò Vincent in strada, seduto in sella alla sua moto; aveva di nuovo addosso i suoi vestiti, un'espressione nervosa in faccia - le sopracciglia calavano sugli occhi come a sbarrarli - e il ciuffo immancabilmente sull'occhio destro. Era identico a prima, solo un pochino più arrabbiato.

La donna superò il marciapiede e gli si accostò, mentre accanto a loro parcheggiava un furgone, schermandoli dalla luce del sole molto forte.

«Non ti darò torto!» mise le mani avanti lei, superando con la voce il trambusto fastidioso di un clacson «Su alcuni punti aveva ragione, ma non era quello il modo giusto di dirlo.»

Sì, Vincent per una volta era d'accordo. Sapeva di avere la fortuna di non essere spinto dalla disperazione a prostituirsi, le sue ragioni erano decisamente diverse, ma non accettava che gli si parlasse così, senza nemmeno conoscerlo. Allungò lo sguardo sul pacchetto bianco che la donna aveva con sé.

«Abbiamo le foto, quindi?» chiese, sperando che tutta la sua fatica non fosse andata a farsi friggere per colpa dell'imprevisto.

«Sì, le abbiamo.» confermò lei, il vento le sollevò il caschetto, mettendo in risalto la fronte pulita «Un paio di giorni e sarai sul mercato. Ma mi serve il nome d'arte, ci hai pensato?»

La brezza solleticò la pelle del collo di Vincent, spingendolo a ripararsi con una mano; evase gli occhi indagatori di Lacey e si fermò a contemplare il cielo, annuendo fermamente.

Quell'uomo lo aveva chiamato cane. Senza saperlo, gli aveva suggerito un nome che trovava adeguato: come un cane, avrebbe saputo azzannare qualunque minaccia.

«Hound.» decise. Nel pronunciarlo sentì che gli calzava a pennello.

Lacey ne sembrò deliziata «Mi piace.»

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