11. Arrollando en la noche (3)

Arco II: rEvolution

Capitolo 11: Arrollando en la noche (3)

Dal giorno successivo a quella conversazione, Vincent passò quasi tutte le mattinate in redazione, spostandosi da un ufficio all'altro in base alla disponibilità, finché non si liberò un posto che gli permise di stazionare stabilmente accanto alla stanza del padre.

L'idea piacque molto anche a Jonathan, che positivamente considerò come l'aria professionale avrebbe potuto spingere suo fratello a mettere la testa a posto; Vincent invece non ne era affatto sicuro, soprattutto adesso che si trovava quasi costretto a collaborare con Lacey.

Non era facile star al passo coi nuovi ritmi, ma l'alzarsi con un obiettivo ben fisso in mente lo aiutava a non pensare a quel che doveva fare quasi ogni notte.

Fu ad una settimana dall'inizio della sua nuova routine che fece un incontro particolare.

Suo padre gli comunicò un paio di giorni prima il trasferimento di una giornalista di un certo livello nel suo stesso studio, dunque avrebbe dovuto stare attento a far buona impressione.

Arrivato alla sede, passò come ogni mattina per il bar del piano terra, dove prese un altro caffè - giusto per assicurarsi di riuscire a non crollare miseramente sulla scrivania.

Attraversò la porta dell'ascensore spazioso e posò gli occhi sull'orologio da polso: era in ritardo di dieci minuti.

Era già la seconda volta che accadeva, ma nessuno - a parte suo padre - si era azzardato a rimproverarlo, probabilmente perché era il figlio di un pezzo grosso.

Quell'arma a doppio taglio Vincent sapeva di averla in pugno, e normalmente non si sarebbe fatto problemi ad usarla per ribadire il suo status di privilegiato all'occorrenza, ma l'idea di sfruttare una presunta superiorità gli risultava odiosa da quando aveva assaggiato il sapore amaro della sottomissione forzata.

Non era piacevole dover sottostare a qualcuno: si sentiva confuso da tutti i cambiamenti nella sua etica che la verità sul virus H e Lacey Smith stavano portando.

Aveva un senso d'oppressione al petto che non se ne andava da un mese.

La quiete attorno a lui era rotta solo dai rumori dell'ascensore in salita; quando riaprì gli occhi, che aveva chiuso per un attimo in preda alla stanchezza e un leggero mal di testa, scoprì che il riflesso sullo specchio alle sue spalle era quello di una persona che sicuramente non era lui: troppo spossato, troppo magro, troppo pallido.

Un tintinnio meccanico gli annunciò che era giunto al piano da lui desiderato: il terzo; le porte si aprirono ed il ragazzo si fece avanti, con una mano infilata nella tasca dei pantaloni neri e sottobraccio la ventiquattro ore gentilmente fornita Thomas Black; dopo aver percorso un lungo corridoio dalle pareti beige, raggiunse l'ufficio. Era il penultimo sulla destra, adiacente ad un'ampia e luminosa finestra che dava sulla Jefferson. Spinse la porta e...

"... E quella cosa mi dovrebbe rappresentare?"

Una donna sui trent'anni, dall'aspetto gracile e le spalle piccole, la pelle pallida da impressionare, lunghi capelli biondo platino ed un paio di occhiali grandi, dalla montatura in celluloide nera, stava seduta alla scrivania opposta alla sua.

"Sfigata!" Vincent non si smentiva mai "Chi è questa Henrica Potter?"

Si fermò sulla porta e fece un sorriso arcuato, sforzandosi di sembrare amichevole «Buongiorno! Sei Violet Alraven, giusto?»

Nemmeno un'occhiata di rimando.

La donna era troppo presa dal leggere qualcosa sul monitor del computer per prestargli attenzione. La cosa gli diede fastidio. Era abituato ad essere sempre al centro dell'attenzione - e se non lo era in un modo o nell'altro lo diventava -, essere sempre osservato mentre entrava, non importava se con curiosità, gioia, disprezzo o cosa: gli bastava sentire addosso l'attenzione degli altri. Ma lei non si voltò nemmeno.

Pessimo inizio.

Con quell'espressione attenta e gli occhiali sul naso, gli ricordò per un attimo suo fratello.

Finalmente la bionda sollevò il capo e si concesse qualche secondo di pausa per conoscere il suo nuovo collega.

Vincent sentì, senza esagerare, di essere davvero trapassato dallo sguardo attento e clinico che gli fu rivolto. Gli ricordò il modo in cui i clienti dei Naughty Sunday lo studiavano, classificatori e zelanti.

Violet finalmente si decise a spezzare quel gelido silenzio e rispondere alla sua domanda, con la stessa allegria che poteva avere un condannato a morte che si vede stringere al collo il cappio.

«Salve. Sì, quello è il mio nome.»

Beh, si disse Vincent, non era la prima volta che si trovava ad avere a che fare con persone che non avevano un minimo di entusiasmo, e di solito il suo intramontabile buon umore sembrava bastare per entrambi. Ma non stavolta.

Notò però il formale "salve", come a voler immediatamente frapporre un muro invisibile tra di loro, cosa che a Vincent andava più che bene. Non aveva intenzione di perdere tempo a legare con un'ombra passeggera della sua vita più del dovuto: il suo compito era espandere la sua cerchia di conoscenze per poterne trarre il maggior profitto in futuro, perciò non cambiò espressione e continuò a sorridere affabile.

«Io invece con chi ho l'onore di parlare?» Violet premette platealmente il tasto invio sul computer e la sua attenzione fu del tutto rivolta a lui; il suo viso era una maschera di serietà, privo di qualunque emozione.

Ricordava vagamente quello di una bambola di porcellana.

«Vincent Black, l'onore è tutto mio.» rispose Vincent, con un che di galante che voleva essere una parodia di tutta quella formalità.

Subito dopo si mosse verso la sua postazione - una scrivania piena di pile di fogli un po' in disordine ma tutto sommato ordinata -, diede un leggero colpetto con un dito al pulsante di accensione del computer, per poi sedersi sulla poltrona di pelle nera che tanto gli ricordava un film di James Bond.

«Sentiti libera di darmi del tu, non mi piace la formalità.» disse in direzione dell'altra, occupato a scavare tra i documenti alla ricerca di qualcosa.

«Va bene. Allora se non ti piace la formalità, dammi pure a tua volta del tu, non c'è problema.» con un tono piatto, simile a quello di un robot, la donna annuì e si chiuse in un silenzio ostinato.

"Quanta vitalità..." pensò Vincent con fare annoiato, notando che, quasi come per una reazione a catena, poco dopo che lui si fu seduto lei si alzò per avvicinarsi alla macchinetta del caffè in un angolo dell'ufficio.

Per tutta la settimana era stato da solo in quella stanza, ma capiva il desiderio del padre di fargli fare esperienza anche dal punto di vista sociale. Solo... perché con una persona così esageratamente seria?

Tirò un lungo sospiro tra sé e sé, mentre il computer finiva di caricare.

Decise di ingannare l'attesa in qualche modo, e quando notò Violet che stava prendendo un caffè, sì, si disse, era proprio un caffè che gli serviva.

Ancora una volta, mentre lui si metteva in piedi lei tornava a sedersi. Sembrava la scena di una sit-com muta.

Ogni secondo lo sentiva passare sulla pelle lento, lentissimo. La macchinetta impiegò più del normale per fargli un dannato caffè nero, esasperandolo.

"Stamattina dovevo restarmene a letto, altro che venire qui a tagliarmi le ven-..."

«Lei non capisce!»

Urla.

Delle urla riecheggiarono in corridoio, entrando nella loro stanza senza che però si riuscisse a distinguere chiaramente le frasi; sembrava che qualcuno stesse animatamente litigando. A Vincent in realtà non importava più di tanto, almeno finché non sentì la voce di suo padre rispondere «È mio dovere fare il meglio per questo giornale.»

Che diavolo stava accadendo?

Ignorando ogni possibile reazione che avrebbe potuto avere la sua collega, posò velocemente il caffè ancora intatto sulla propria scrivania e si diresse a grandi falcate verso la porta, con un'espressione seria sul volto.

Non che fosse agitato, ma c'era pur sempre suo padre in mezzo!

Aprì la porta con un gesto veloce, affacciandosi; un impiegato si stava lamentando di qualcosa, di un licenziamento da quel che sembrava, e ovviamente a licenziarlo era stato Thomas. Stava ritto in mezzo al corridoio, a circa sei metri di distanza, strepitando che aveva una famiglia numerosa da mantenere, e a questa frase Thomas rispose con un serio «Mi dispiace, ma la sua famiglia non è affar mio.»

Vincent scosse il capo, pensando tra sé e sé quanto era stata crudele quell'affermazione.

Volendo sottolineare che quei due non erano soli e che c'era un'intera platea pronta a usare la forza se il licenziato avesse alzato le mani su suo padre, il giovane Black fece a voce alta «Papà, va tutto bene?»

Entrambi, sentito il richiamo, spostarono la loro attenzione sul ragazzino; il dirigente con iniziale sorpresa, l'altro, un uomo di almeno una quarantina d'anni con una camicia viola che si abbinava malissimo alla giacca, sentito l'epiteto si accigliò, fraintendendo la situazione.

Sul suo volto furono chiarissimi i suoi pensieri: il suo licenziamento era dovuto alla necessità di un posto di lavoro per il figlio del capo?

Sbagliato, ma Vincent non calcolò questa sottigliezza, anzi non gli passò neanche per la testa, e quando suo padre gli rispose di sì e gli intimò di tornare dentro, con quello sguardo da "chiudi bene la porta" un po' troppo apprensivo per essere da Thomas Black, lui annuì e fece per una volta come gli era stato detto.

Nel silenzio dello studio, che nemmeno Violet sembrava avere intenzione di interrompere tornando a battere i tasti del computer, Vincent rimase qualche secondo con le spalle poggiate contro il legno nero della porta.

Non lo nascondeva, non a se stesso perlomeno: era preoccupato per suo padre. Non era la prima volta che Thomas licenziava qualcuno e non era neanche la prima volta che lo congedava con parole pesanti, ma era anche capitato che dei dipendenti avessero compiuto atti di protesta a dir poco folli.

C'era chi si incatenava sotto l'ufficio, attirando l'attenzione della stampa – ironico, considerando che erano loro la stampa -, c'era chi graffiava le auto dei dirigenti, c'era stato anche chi, in balia della rabbia, era ricorso a minacce pesanti.

Insomma, per quanto le minacce si rivelassero sempre pura retorica, Vincent aveva paura per suo padre.

Quando risollevò gli occhi evitò platealmente quelli di Violet, ancora comoda al suo posto, spettatrice quasi invisibile del mondo intorno a sé. Niente di tutto quel che era successo sembrava averla scalfita.

Udirono dei passi pesanti abbattersi al suolo con un ritmo spezzato, lo stesso che le sue dita cominciarono a battere contro i pantaloni senza accorgersene, mentre le iridi gialle si tingevano di ansia; quando, alla fine, anche il suono dei passi scemò, si concesse un sospiro.

Si diede una lieve spinta con i gomiti e, dopo un primo dolore alla base delle caviglie per la tensione, ritrovò lo sprint per attraversare a grandi falcate l'intera stanza e tornare alla propria postazione.

Si afflosciò pesantemente sulla sedia girevole e risollevò lo sguardo, notando al di sopra dello schermo del pc la figura della ragazza spettrale.

"Sono già due volte che mi dimentico della sua esistenza in meno di tre minuti." considerò, storcendo il naso.

Fu allora che, mentre apriva internet per la prima ricerca della giornata, un'esclamazione attraversò la stanza, rimbombando da una parete all'altra.

«Al nostro radioso e sicuro futuro in questa azienda, dunque... !»

Per un attimo Vincent faticò a sollevare il capo dallo schermo del pc, seriamente convinto che quella che aveva sentito era una semplice illusione delle sue orecchie.

Impossibile che Violet Alraven avesse parlato di sua spontanea iniziativa...

E invece la donna riuscì a stupirlo, tanto che per un attimo, quando i suoi occhi inquadrarono la figura della bella collega, fece un'espressione quasi incredula; ma si riprese subito, contagiato dall'entusiasmo di Violet, ed alzò a sua volta il bicchiere del caffè: il più prezioso tra i calici.

«Amen!» disse.

Sì, probabilmente Violet pensava di trovarsi davanti a un raccomandato, che invece era solo un ragazzino che usava uno dei pochi computer liberi per studiare per l'università e all'occorrenza fare un po' di tirocinio per il futuro, ma a Vincent non importava più di tanto.

«E buon lavoro!» augurò allora a Violet, sicuro che, almeno fino alla fine della mattinata, non avrebbero più avuto scambi di battute.

Per fortuna lo schermo del pc era abbastanza grande per il ragazzo nascondercisi dietro: un'ulteriore barriera tra loro, stavolta voluta da Vincent, che, in tutta la sua presunzione, aveva già etichettato Violet come una persona noiosa.

Si diceva che sarebbe stato uno strazio condividere la stessa stanza, ma ancora non immaginava neanche lontanamente che quell'incontro aveva segnato il suo destino.

E Violet Alraven, coi suoi occhi freddi e inespressivi, intanto lo fissava.


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