11. Arrollando en la noche (1)

Arco II: rEvolution

Capitolo 11: Arrollando en la noche (1)

A Phoenix non pioveva quasi mai.

La posizione geografica della città e dell'Arizona stessa, così vicina all'arido Texas, una serie di fattori longitudinali, latitudinali e altro ancora rendevano possibile che nemmeno una singola goccia di pioggia si riversasse per mesi e mesi; ironicamente, il periodo con la più alta probabilità di precipitazioni era quello estivo.

Ancor più ironicamente, uno di questi rari temporali aveva deciso di abbattersi sulla città proprio in uno dei momenti peggiori della vita di Vincent Black.

«Assurdo...» mormorò Vincent, ma la sua voce fu inghiottita dal suono della pioggia che batteva contro la finestra.

«Hai detto qualcosa?» domandò Shaun, voltandosi a guardarlo, ma non ottenne nessuna risposta.

Il moro sospirò e scrollò le spalle, senza però distogliere lo sguardo da quello stranissimo Vincent, così diverso dall'arrogante e malizioso Hound a cui era abituato.

Non sapeva ancora che questo nuovo, inaspettato Vincent gli piacesse o meno, ma di certo lo incuriosiva.

Shaun lo aveva trovato fuori dal Naughty Sunday, dove si era recato per svagarsi un po'. Per un attimo lo aveva scambiato per un altro e si era preso in giro per aver pensato che quello fosse il suo Hound: solo, sotto la pioggia che batteva violentemente sul gracile corpo, col volto disfatto e impaurito. Una pallida imitazione del ragazzo del giovedì sera.

Quando aveva capito che però la vista non lo ingannava e quella persona era veramente Vincent Black, Shaun aveva temuto che fosse stato minacciato o violentato brutalmente, cosa che non era affatto rara nell'ambiente lavorativo del ragazzo.

Tuttavia, niente di tutto ciò sembrava essere accaduto.

Nonostante lo avesse riportato a casa Black, dove si era cambiato ed asciugato, Vincent continuava ad essere profondamente turbato, a parlare con se stesso sotto voce, neanche stesse ripetendo un mantra, una formula magica o cercando la soluzione a un grattacapo.

In realtà, chi si trovava davanti a un grattacapo era proprio Shaun, ed esso si chiamava Vincent Black, o Hound per un certo tipo di amici.

Si trovavano nella stanza del ragazzo. Era la prima volta che Shaun visitava casa Black, ma sentiva di essere entrato in un mondo in cui ogni finzione sbiadiva, lasciando spazio al vero Vincent: quello che amava i Linkin Park al punto di averne una fila di cd accatastati su una mensola, mischiati a quelli degli Slipknot e dei Disturbed; quello che apprezzava la dinamicità di un computer portatile, poggiato sulla scrivania di mogano contro una parete; quello che tra tutti i colori del mondo prediligeva il rosso, che regnava incontrastato nel suo mondo; quello che, in una grande ed alta libreria, mischiava in modo un po' disordinato libri di diritto e filosofia con sporadici manga giapponesi.

Una volta entrato in quella stanza, Shaun aveva scoperto che in fondo Vincent era ancora un ragazzino, uno di quelli che difficilmente sopravvivono al modo di vivere spietato e frenato che si era imposto.

L'uomo, che aveva abbandonato il suo giubbotto sul letto dal piumino blu, rimanendo con indosso una sobria camicia un po' troppo sbottonata, sedeva pazientemente sul lenzuolo, attendendo un qualche segno di vita dall'altro.

Quest'ultimo, per la prima volta davanti a Shaun con indosso una tuta nera ed arancione che gli stava abbastanza male, stanziava da cinque minuti davanti al finestrone, le mani magre aperte e poggiate sul vetro appannato.

Vagava fuori con lo sguardo, sulla città spenta e più calma del solito; la pioggia sporca, che fino ad una mezz'ora prima gli aveva bagnato la pelle, infangato i vestiti e insozzato i capelli, adesso batteva con intensità a pochi centimetri da lui.

Il cielo era buio, oscurato da pesanti nuvole, la notte resa ancor più tetra. E quella Phoenix che da sempre venerava come la città più bella del mondo, adesso era così lontana e nemica.

All'improvviso però, una mano gli si poggiò sulla spalla destra.

Vincent sobbalzò, prima di sentire la voce di Shaun sussurrare «Allora, si può sapere che succede?»

Istintivamente, il ragazzo sobbalzò e si svincolò in una sola mossa, voltandosi in direzione dell'altro. Shaun rimase stupito da quella reazione, ma attese pazientemente una spiegazione.

Vincent aveva il capo chino, amareggiato; non ce la faceva, soprattutto se pensava che Shaun senza dubbio era infetto e che forse era colpa sua.

Quante altre persone aveva condannato a rimanere intrappolate nella tela di Lacey Smith e del progetto E?

«Scusa...» mormorò, affranto e sincero, ma ancora incapace di sostenere il suo sguardo «Ma non credo di poterlo dire...»

No, Shaun non era affatto convinto e quel modo di comportarsi sembrava confermare la sua supposizione iniziale «Ti hanno fatto del male? Ti hanno minacciato?»

Notò gli occhi di Vincent sbarrarsi e il suo corpo irrigidirsi, chiaro segno che aveva fatto centro; se ne sentì rattristato. Benché non fossero amici e il loro rapporto fosse tutt'altro che normale, l'idea che qualcuno alzasse le mani su quel ragazzo già così distrutto di suo gli faceva prudere le mani.

Vincent andava maneggiato con cura. Si sorprese a rendersi conto che era stato proprio lui a formulare quel pensiero.

«È meglio che tu vada ora.» disse ancora il bruno.

Quelle parole non lo sorpresero. Shaun scosse il capo, ma il giovane ribadì il concetto, sottolineando quanto non fosse il caso di farsi trovare lì dal resto della famiglia: un uomo visibilmente più grande avrebbe attirato troppe domande e creato problemi, perciò Shaun si arrese e si fece accompagnare all'ingresso.

«In ogni caso...» quando fu davanti alla porta, aperta dal ragazzo di fretta, si voltò a guardarlo con la coda dell'occhio, mascherando la sua preoccupazione «Non esagerare.»

Chiedergli una cosa simile era ormai impossibile, dopo quella sera niente sarebbe stato più come prima sotto molti punti di vista, pensò Vincent. Annuì senza molta convinzione, ancora incapace di sostenere a lungo il suo sguardo senza sentire il peso di mille colpe gravargli sulle spalle.

«Sì... e grazie per stasera.» il ringraziamento gli sorse spontaneo, ma dovette risultare così strano in bocca a una persona come lui che Shaun ne fu stranito per un attimo, prima di commentare silenziosamente con un sorriso che lo fece sentire più sicuro.

L'uomo se ne andò senza voltarsi indietro, senza essere perso di vista da Vincent finché non scomparve tra le porte dell'ascensore. A quel punto, rimasto solo, il ragazzo rientrò in casa e chiuse la porta, già perso nei suoi pensieri.

Non aveva più niente in cui credere. Era sempre stato convinto che le storielle su presunti segreti di Stato riguardo realtà inimmaginabili fossero, appunto, solo storielle, trame piuttosto opinabili di film e libri destinati ad essere best seller proprio per la loro assurdità.

Adesso invece cominciava a chiedersi se il governo, oltre all'esistenza del virus H, avesse dimenticato di menzionare ai suoi cittadini anche dell'esistenza di particolari trascurabili come alieni, Atlantide o Big Foot.

L'unica cosa che voleva fare era chiudersi in camera sua e riposarsi, scaricare la paura e superare lo shock; poi avrebbe pensato a far mente locale sulla sua situazione e soprattutto avvertire Neville che stava bene.

"Giusto, ho ancora gli screenshots!"

Ovviamente non sapeva se Lacey aveva o no eseguito dei controlli per scoprire persino chi si era connesso alla sua casella di posta nelle ultime ore, ma dubitava che fosse andata così lontano... o forse sì.

Dopotutto era di Lacey Smith che si parlava, la donna che aveva acconsentito a uccidere una povera ragazza innocente.

«Quella puttana psicopatica...» ringhiò sottovoce, così lieve da essere quasi inudibile.

Avrebbe dato volentieri fuoco ai vestiti indossati quel giorno, ma si sarebbe limitato a buttarli, specialmente quel cappotto con cui aveva inutilmente cercato di riscaldare Marylin. Aveva quasi istericamente controllato ogni centimetro del suo corpo durante la doccia, temendo che gli avessero piazzato addosso qualche cimice o fibra ottica.

Attraversò velocemente il salone e tornò sui suoi passi, in cucina, dove salì le scale per raggiungere il piano di sopra; il tutto, per quanto possibile, in silenzio.

Avrebbe dovuto calcolare con estrema dovizia ogni mossa d'ora in poi, per evitare di destare sospetti che avrebbero potuto metterlo nei guai.

«Vincent?»

La voce di Jonathan lo fece rabbrividire; lo sentì raggiungerlo alle spalle e torse il collo finché non incontrò il suo sguardo evidentemente sollevato. Indossava quell'orribile pigiama a scacchi che Vincent aveva cercato di buttargli di nascosto un paio di anni prima.

«Sono un po' in ritardo, mi dispiace...» biascicò, aspettandosi già di essere sommerso di rimproveri.

Ma questo non accadde, il fratello sembrò perdonarlo di buon grado, dopotutto erano le undici, e considerando che Vincent rincasava spesso sul far dell'alba era già un enorme passo avanti.

«Tutto bene?» si informò subito, senza perdere tempo ad oscurarsi quando lo vide così provato e turbato «Che ti è successo? Come sei tornato?»

Alla fine il turbine di domande era arrivato, sì; ciò fece sentire Vincent un po' più a casa, un po' più leggero. A Jonathan forse importava ancora qualcosa di lui, dopotutto.

«Sì, va tutto bene. Sono solo stanco.» alzò le braccia per avvolgerle intorno al proprio corpo, il capo piegato leggermente di lato ed un sorriso mezzo coperto dalla lunga frangia laterale «Mi ha accompagnato un amico, l'ho incontrato per strada. In realtà sono tornato da dieci minuti, ho già fatto la doccia.»

Tutto in Jonathan sembrava volergli chiedere dov'era stato; la curiosità gliela si leggeva in volto, negli occhi verdi coperti dallo spesso strato delle lenti pulitissime, eppure, sorprendendolo per l'ennesima volta in una sola giornata, tenne il dubbio per sé.

«In cucina c'è ancora della pizza, il cinese era chiuso.» lo informò.

Vincent scosse la testa vigorosamente «Nah, non mi piace la cucina italiana, lo sai...»

Ma l'altro scrollò le spalle, disinteressato «Il cinese era chiuso e a papà piace la pizza. Mangia qualcosa prima di andare a letto, mi raccomando. Sembra che tu stia per svenire da un momento all'altro.»

Si stava davvero preoccupando per lui? Come ai vecchi tempi? Vincent si sentì quasi preso in giro, ma annuì e sogghignò una risposta «Sì, tra un po' mi preparo un panino. Con hamburger e pomodori, wurstel, senape, ketchup, maionese, sottilette, bacon, cetrioli, cipolle e lattuga.»

Già a metà lista l'espressione neutrale di Jonathan si era trasformata in una di disgusto, appunto per questo Vincent amava ricordargli quanto fosse strano non lui, americano che non gradiva il cibo italiano, ma Jonathan, americano col ribrezzo degli hot dog.

L'uomo girò i tacchi e si allontanò verso la propria stanza dopo aver sussurrato un "bleah" che valeva più di mille parole.

«Buonanotte, Vì, ricordati di prendere un gastroprotettore...»

Anche stavolta Vincent non si mosse fin quando il ridicolo pigiama a scacchi non scomparve dietro l'angolo, e solo allora lasciò che un sorriso veramente grato gli invadesse il viso.

«Buonanotte.» gli augurò, completando mentalmente "Grazie per esserti fidato di me."

Si sentiva toccato: in mezzo a tutta l'oscurità di quella notte, era stato in grado di trovare un minuscolo fascio di luce. E proveniva proprio da una delle persone che pensava d'aver perso per sempre. Forse c'era ancora speranza per il suo rapporto con Jonathan.

Infine, veloce e silenzioso, si rintanò nella sua camera, dove accese tutte le luci per paura di ritrovarsi di nuovo quell'orrenda allucinazione alle spalle, e si nascose completamente sotto le coperte fredde, coi ricordi di ciò che era successo nella cella frigorifera del Naughty Sunday che battevano furiosamente contro le finestre, come pioggia...

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