1. Hound 'n' Stargazer (1)

Arco I: Evolution

Capitolo 1: Hound 'n' Stargazer (1)   

- Un anno fa -

La colazione in casa Black non era mai stata un rito importante, quanto piuttosto una formalità da sbrigare più in fretta possibile.

Quando l'orizzonte desertico veniva imporporato dalle luci dell'alba, l'aria della cucina cominciava a farsi rovente; era pertanto tassativo che il primo che scendeva per fare colazione si premurasse di tirare le tende e accendere l'aria condizionata, impostata di default sui diciotto gradi nei mesi estivi.

Bianco e nero si alternavano sulle superfici secondo l'idea che Thomas Black aveva dei concetti di sofisticato e minimalista; stando alle parole dei suoi figli, invece, vivevano in un obitorio zeppo di faretti divoratori di energia elettrica e diottrie.

Tutta quella luce non era mai stata gradita agli occhi sensibili di Vincent, che ormai annoverava le tende e il regolatore di luminosità dei faretti tra i suoi migliori amici.

Anche quel giorno, come ogni giorno, Vincent si era svegliato per primo, aveva trascinato i piedi giù per le scale, ignorato lo stomaco che reclamava i suoi pancake quotidiani e terminato la sua odissea sul divano. Cinque – ma anche dieci - minuti di languida sonnolenza sotto il getto dell'aria condizionata non avrebbero condotto il mondo sull'orlo dell'apocalisse.

Svegliarsi presto per osservare in perfetta solitudine l'alba era una delle sue più radicate abitudini, e di certo l'affatto umile dimora di suo padre, che si articolava su ben tre piani di grattacielo, non era un incentivo a cambiare le sue abitudini. Attraverso le vetrate del salone, che a guardarle bene avevano bisogno di una bella pulita, Vincent poteva godere di una splendida vista su Central City Village.

Quando la luce gli ricordò di avere gli occhi più sensibili del mondo, sbuffò sonoramente e concentrò tutta la sua voglia di vivere in una spinta per mettersi in piedi.

Ricadde miseramente sul divano.

"Beh, a quanto pare morirò qui. Almeno è comodo."

No, non sarebbe affatto morto lì, brontolò il suo stomaco: se proprio doveva morire, che fosse dopo la colazione.

Finalmente si sollevò, come da contratto tirò le tende e tornò sui suoi passi.

Aveva imparato a cucinare a tredici anni, più per necessità che per interesse, ma ormai deteneva il titolo di chef della famiglia Black, dominatore assoluto dei fornelli e signore eterno della pasticceria. Ci teneva che fosse pronunciato per intero ogni volta, un piccolo sacrificio per il padre e il fratello in cambio dei suoi modestamente deliziosi manicaretti.

Pochi minuti più tardi la cucina fu invasa dal profumo di pancake, uova fritte e bacon. Avevano tutti preferenze diverse in quella famiglia, ma i pancake avevano il nome di Vincent scritto con inchiostro simpatico sul bordo. L'unica cosa che univa padre e figli nella comunione dei sensi era il caffè, che con eccezionale puntualità alle sette in punto gorgogliò nella caffettiera.

Il caffè era più puntuale di Vincent.

Prima di sedersi al tavolo sfilò da uno dei ripiani dedicati ai libri di cucina La critica del giudizio di Kant. Era certo che Buddy Valastro sarebbe stato onorato di sapersi vicino a Kant, non sapeva se lo stesso valesse per Kant.

Consumò la sua colazione immerso nella lettura, con gli occhi che vibravano da una riga e all'altra. Pur nutrendo una certa passione per la filosofia, Vincent non aveva alcuna conoscenza pregressa in materia, motivo per cui era spesso costretto a rileggere più volte un concetto o tornare indietro di interi capoversi, quando non accadeva direttamente di non riuscire in alcun modo ad afferrare il messaggio di fondo. A quel punto si irritava, ma anche l'irritazione passava rapidamente, perché arrivava l'ora di un nuovo concetto, magari stavolta più accessibile. Gli piacevano le cose difficili, non c'era da stupirsi che la filosofia fosse pane per i suoi denti.

I primi rumori cominciarono a udirsi intorno alle sette e cinque. Suo padre scendeva rumorosamente le scale, inseguito dalla fretta che gli era compagna di vita molto più della sua famiglia.

Non era mai stato uno di quegli uomini americani tanto cari agli spot pubblicitari e agli stereotipi: Thomas Black non aveva bisogno di una moglie che gli annodasse con cura la cravatta o gli ricordasse di togliersi le ciabatte prima di uscire.

Anche nel Giorno del Giudizio suo padre si sarebbe presentato al Creatore come un uomo che dimostrava dieci anni in meno, coi duri tratti della persona forgiata dall'esperienza, l'aspetto impeccabile, il cellulare in mano e l'auricolare nell'orecchio.

«'Giorno.» lo salutò senza alzare lo sguardo dalle pagine.

Gli bastava il suono dei passi per riconoscerlo, e se così non fosse stato avrebbe supplito quello delle chiavi che tintinnavano in fondo alla tasca ad ogni passo.

«Buongiorno, Vincent.»

Thomas passò oltre il tavolo, tirò fuori dal microonde bacon e uova che Vincent aveva messo da parte e, come di rito, fece la prima telefonata della giornata.

Quando afferrava quel diabolico oggetto non c'era più nulla da fare, ma ciò non toglieva che Vincent avesse qualcosa da dirgli, anche a costo di mettersi in fila per il suo minuto di attenzione.

«Buongiorno, Sharyl. Che impegni abbiamo oggi?»

Sharyl.

Quel nome aveva il potere di imbestialire Vincent, che dardeggiò con lo sguardo sul genitore distratto.

"Ancora quella stronza? Pensavo di averla sbattuta fuori con la storia del furto..."

Sollevò un sopracciglio, scagliandole contro tutte le maledizioni che conosceva. Quanto tempo sarebbe passato prima del cedimento di Thomas alle eccessive attenzioni della sua segretaria? Ma ancor più ardentemente si chiedeva quando avrebbe avuto il piacere di annientare la loro relazione a tempo da record.

Attese pazientemente che la conversazione terminasse, quindi appoggiò il gomito sul tavolo e sventolò per aria una mano «Hey, mister! Mi ascolti?»

«Certo che ti ascolto.»

Peccato che fosse troppo preso dal digitare qualcosa per guardarlo. Vincent roteò gli occhi, sempre più impaziente.

«Oggi faccio un giro in università. Sai, per ambientarmi in vista dell'inizio delle lezioni.»

Thomas finalmente gli regalò un sorriso smagliante. «Ottima idea, Vince. Se vedi Richard, salutamelo.»

Il professor Richard Taylor era un amico di famiglia che lavorava alla facoltà di economia, e a dirla tutta non gli piaceva per niente. Se lo avesse incontrato avrebbe sicuramente cambiato strada, ma ciò non gli impedì di sfoderare un sorriso sornione e annuire.

Sapeva bene quanto Thomas fosse felice di vederlo interessarsi a quella che in pochi mesi sarebbe stata la sua nuova realtà, e lui, a sua volta, era felice di vedere suo padre felice.

Tranne quando parlava con Sharyl, ovviamente.

«Bene, adesso devo andare. Mi raccomando quando usi la moto. Fa' attenzione e rispetta il limite di velocità, la prossima multa te la paghi da solo.»

Suo padre era sempre così, ormai Vincent ci aveva fatto il callo. La sua vita era divisa tra studi televisivi, cene di lavoro e viaggi in lungo e in largo per gli Stati Uniti. Non era un semplice professionista, era il direttore responsabile di una delle testate più acquistate dell'Arizona.

Thomas Black era sinonimo di qualità.

Nessuno però immaginava che dietro i modi accattivanti e la sagacia si celasse una persona cinica, dedita al culto della perfezione: solo bellissimi uffici potevano essere suoi, solo una bellissima casa poteva essere abitata da lui, solo due bellissimi ragazzi come Jonathan e Vincent potevano essere suoi figli.

C'era solo una cosa che gli mancava: una famiglia decente.

Il poco tempo che spendeva in casa era ripartito in venti minuti a colazione con Vincent, trenta a cena con Jonathan e altri quaranta davanti alla televisione per un po' di sano zapping.

«Ah, papà!» provò a chiamarlo Vincent, improvvisamente colto da una fulminazione. Si alzò sulle gambe posteriori della sedia, cercando di richiamare l'attenzione del genitore che però era già uscito.

«Oggi è il compleanno di...»

La porta si chiuse.

«... mamma.»

Tornò coi gomiti sul tavolo, tirando un lungo sospiro: non c'era proprio niente da fare, quell'argomento sarebbe rimasto per sempre un tabù. Come al solito avrebbe dovuto chiamare lui per conto di tutti e tre.

Finì di fare colazione e ripose piatto, bicchiere e tazzina nella lavastoviglie, per poi mettersi al telefono. La solita segreteria gli ricordò che Liza Gloria Diaz sembrava essere fuori casa ventiquattro ore su ventiquattro, ma Vincent non si lasciò abbattere e con tono tranquillo controbatté dopo il segnale acustico «Ma come? E io che fremo da sette ore per fare gli auguri alla mia vecchietta preferita!»

«Chi sarebbe vecchia?»

La voce femminile di Liza sostituì il silenzio ferruginoso e Vincent sogghignò soddisfatto.

«Vecchia ma preferita! Auguri, mamma!»

Tra le risate deliziate di Liza, cominciò a cantarle una stonata Tanti auguri a te. Si fermò davanti alla cucina e frappose il cordless tra la spalla e la guancia mentre rovistava nei cassetti alla ricerca di un coltello per tagliare un po' della torta avanzata il giorno prima.

«Come state?» domandò, brandendo l'utensile come se avesse voluto tagliare la gola a qualcuno, e in effetti gli venne in mente il compagno della madre.

«Molto bene, tesoro! Oggi partiamo per quella crociera di cui ti avevo parlato, ricordi?»

Ci pensò su, ma non gli venne in mente nessuna crociera.

«Ah, sì.» mentì «Allora buon divertimento, e non fare strage di cuori!»

Liza rise, ma entrambi sapevano che ovunque andasse calamitava davvero l'attenzione. Questo perché era una splendida donna e attrice di successo, che sin dagli esordi aveva saputo rubare la scena. La donna perfetta per Thomas Black, peccato che i due avessero perfettamente divorziato dodici anni prima, quando Liza lo aveva tradito con George Wright, regista di film trash conosciuto sul set di un horror che aveva sconvolto le sale e conciliato il sonno a Vincent.

«Che mi dici di Heaven?» aggiunse, ma la realtà era che qualunque cosa avessero potuto dirgli della sua sorellastra non gli sarebbe importata.

La domanda sembrò fare molto piacere alla donna, forse si illudeva ancora che i tre figli potessero andare d'accordo.

«Magnificamente! Si sta preparando al college. Perché non vieni da noi quest'estate? Mi manchi da morire, amore mio.»

"Oh, mi stavo proprio chiedendo dove fosse finito l'elefante nella stanza..."

Vincent socchiuse gli occhi, mentre una smorfia si faceva inevitabilmente largo sul suo viso. Se non fosse stato per George e Heaven sarebbe andato a trovare sua madre molto più di frequente.

«Non è una brutta idea.» mentì per l'ennesima volta.

A quel punto la conversazione perse spessore: gli argomenti divennero l'università, le mille raccomandazioni sul prestare attenzione quando guidava, il tempo, la speranza di un Natale innevato, i progetti per una futura rimpatriata che progettavano da anni senza mai realizzarla. Quando infine chiuse il telefono, Vincent si sentì come se un peso gli fosse stato tolto dalle spalle.

Liza, George e Heaven: una piccola famiglia felice, il solo pensiero gli dava il voltastomaco.

"Non tornerei a Seattle neanche per tutto l'oro del mondo."

Venti minuti più tardi, di nuovo al tavolo in compagnia di Kant, Vincent alzò gli occhi all'orologio appeso sulla porta: le sette e quarantacinque. Sorrise.

«Tre... due... uno...»

Al piano di sopra una sveglia cominciò a squillare ed urlare che sì, era proprio ora di alzarsi. Seguirono altri secondi di silenzio, poi un gran frastuono. Qualcuno si buttò giù dal letto e percorse il corridoio con evidente disperazione.

«È proprio il protagonista di un manga...»

Nonostante fosse più ordinato e diligente, Jonathan era il fratello in perenne ritardo la mattina. Scese le scale a rotta di collo, incespicando e rischiando quasi di scivolare sul terzultimo gradino. Era ancora in pigiama, gli occhi appannati dal sonno e gli occhiali storti.

«Buongiorno, Sleeping Beauty!»

«'Giorno, Vì.» ignorando la provocazione, Jonathan gli passò accanto e scompigliò generosamente i capelli.

«Accidenti, Johnny, adesso per colpa tua mi devo pettinare di nuovo!»

«Come se lo avessi fatto prima di andare a poltrire sul divano, come ogni giorno.»

Con una smorfia altezzosa, Vincent scrollò le spalle «Tu invece non riuscirai nemmeno a darti una singola pettinata, come ogni giorno.»

«Allora è una fortuna che io sia maschio. Pensa se fossi stato una ragazza coi capelli lunghi!» scherzò Jonathan, allegro e sorridente nonostante il poco bacon avanzato ormai freddo.

Vincent sospirò pesantemente «Hai il senso dell'umorismo più triste del pianeta Terra, bro...»

Era sempre così con Jonathan: gli perdonava tutto, veramente tutto. Non passava giorno senza che Vincent lo stuzzicasse, e non passava giorno senza che Jonathan sopportasse stoicamente. Ma non c'era niente al mondo che Vincent avesse più a cuore della famiglia, e Jonathan era l'unico parente che era riuscito a tenersi stretto quando erano andati a pezzi. Quando era con lui il suo sorriso diventava più disteso e spontaneo, le battute velenose diminuivano e i nervi si distendevano.

Ciononostante, quella mattina Vincent era in vena di spiritosaggini.

«Sai che giorno è oggi?» domandò con finto disinteresse.

Jonathan dovette pensarci su, ma poi, dimentico della colazione, sobbalzò e si slanciò verso il telefono.

«L'ho già chiamata io.»

Il fratello tirò un lungo sospiro di sollievo e poggiò le spalle al ripiano della cucina, rasserenandosi in viso.

«Mi ha detto che non ti perdonerà mai se non le farai gli auguri a voce.»

E riecco Jonathan nel panico: si lanciò sulla preda e cominciò a battere i tasti, ma una risata sommessa lo immobilizzò.

«Ops, scherzavo.»

Un altro sospiro da parte di Jonathan, stavolta velato di irritazione. Appoggiò il palmo della mano contro la fronte «A volte ti ucciderei...»

Vincent chiuse lentamente il libro di filosofia e fece un sorriso obliquo «E come fareste senza di me?»

***

- Oggi, 09 Maggio -

Pancake, una fetta di torta al cioccolato e caffè, questa era la sua colazione. Doveva sopravvivere a un'altra giornata, saltare il pranzo e fare una cena abbondante, doveva mantenersi le forze.

Ma Vincent si sentiva stanco.

Il suo volto malinconico gli restituì lo sguardo nel riflesso sul vetro del forno. Ogni cosa sembrava insensibile ai suoi problemi, ogni persona di quel mondo marcio e odioso. Suo padre aveva proprio ragione quando diceva che nei momenti difficili ci si ritrova sempre soli.

Socchiuse piano gli occhi e per qualche minuto sprofondò nel dormiveglia, dimentico del cibo. Sognò di luci che lo accecavano, corpi che lo spingevano e risate che lo infastidivano, finché non ne ebbe abbastanza e si sforzò di aprire le palpebre.

Non aveva fame. A dirla tutta non aveva fame da quando quella storia era cominciata. Nonostante mandasse giù il necessario per sostenere le giornate, lo stomaco era perennemente blindato.

No, decise che quella mattina non avrebbe mangiato, altrimenti era certo che il suo stomaco avrebbe rigettato tutto. Si limitò a bere il caffè e lasciò i pancake e la torta a disposizione di tutti sul tavolo; non avrebbero comunque avuto vita lunga, gli altri li avrebbero scambiati per avanzi.

E così fu.

Accompagnato dal suo tipico incedere incalzante, Thomas scese in cucina col cellulare già incollato all'orecchio. Gli diede il buongiorno, agguantò un paio di pancake con un tovagliolo e si diresse al frigo. Vincent lo osservò sottecchi durante ogni spostamento.

Non era difficile immaginare con chi stesse parlando.

«A che ora ci aspettano?»

Da un mese le conversazioni con Sharyl erano divenute più lunghe e frequenti, ciononostante Thomas pareva un baluardo inespugnabile.

«Bene, allora ci vediamo dopo.»

La chiamata fu chiusa frettolosamente, e quando gli sguardi di padre e figlio si incontrarono, il primo sembrò rimanere per qualche motivo spiazzato. Doveva avere davvero una pessima cera, pensò Vincent.

«Tutto bene, Vince?»

No, non andava affatto tutto bene. Ma piuttosto che ammetterlo avrebbe deviato la sua attenzione sulle fughe tra le mattonelle del pavimento. «Certo. Ero solo sovrappensiero.»

Tra padre e figlio calò un silenzio ostinato. Le parole erano ormai un optional tra loro, Vincent se n'era fatto una ragione. Il suo malessere era palese, ma suo padre non avrebbe mai avuto il tempo di fermarsi e parlare con lui. Erano tutti bravi a dire cose come sei cambiato, ma nessuno gli aveva mai chiesto perché era cambiato. Il pensiero stranamente non lo intristì nemmeno, lo amareggiò e basta.

Dopo un paio di minuti Thomas decise di non cambiare le sue abitudini e lo salutò.

«Adesso vado. Ci vediamo stasera.» disse senza alcuna sfumatura nella voce, avviandosi verso la porta d'ingresso.

Vincent gli augurò mentalmente una buona giornata.

Alle sette e quarantacinque si udirono la sveglia e i primi movimenti al piano di sopra, che coincisero con una fitta allo stomaco di Vincent. In fretta e furia, mentre una sottile fiamma fredda gli percorreva la pelle e l'agitazione aveva il sopravvento sui nervi saldi, chiuse il libro sul tavolo.

Passi, passi lenti che entravano nella sua mente e gli urlavano di scappare, di non farsi vedere, di non lasciare che quegli occhi rassegnati si posassero ancora una volta su di lui.

Doveva uscire da quella stanza prima che essa gli si chiudesse addosso con violenza.

Con un gran fracasso a fare da sottofondo, Vincent si catapultò dentro il bagno e si chiuse dentro. Si lasciò cadere in ginocchio, le mani premute contro le tempie, e in quel piccolo angolo di mondo che si era ritagliato ricominciò a respirare.

Non gli importava se era stato sentito, non gli importava se aveva fatto la figura del codardo. La cosa importante, annaspò stringendo i pugni, era che Jonathan non l'avesse visto. E ancor più importante era che lui non si fosse visto guardare di nuovo in quel modo da Jonathan, da quei suoi occhi accusatori che pur non avendo più parole per lui parlavano comunque.

"Vincent", gli ripetevano sempre, gelandogli il sangue nelle vene "sei cambiato."

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