23| Frances-Il futuro

Every September in the front yard
The trees will hold their leaves like cards
You were the hand that I was dealt
You're so good at hurting yourself
We're so good at hurting ourselve
s


2027, MCO

Quando Muriel aveva chiamato per informarla ufficialmente della scissione del contratto e della fine della sua carriera automobilistica, l'estate volgeva già al termine, ed il tempo era più instabile del suo umore –con nuvole sfilacciate ed acquazzoni seguiti da lunghi periodi d'arsura, in cui il caldo si faceva ancora insostenibile e si attaccava alla gola, prepotente.

La chiamata era stata asciutta, telegrafica e senza fronzoli. Non c'erano stati grandi giri di parole, non che servissero. Muriel era andata dritta al punto, come sempre brutale nella sua onestà: soldi non ce n'erano più, un team nelle categorie single seaters non era la casa della carità e tanto valeva che si mettesse l'anima in pace, perché per quanto potesse essere brava, senza una lira non avrebbe corso mai più.

Frances l'aveva presa bene, tutto sommato.

Nonostante si sentisse pericolosamente vicina a traboccare, aveva incassato il colpo –la ferita fatale- con stoicismo, senza protestare.

Aveva detto capisco e assolutamente e grazie per l'opportunità.

Si era fiondata nel capannone come una furia, senza curarsi nemmeno di chiudere la chiamata, e ne aveva trascinato fuori un grosso bidone di latta, di quelli per bruciare la paglia, ed una tanica di lubrificante Vortex piena per metà. Aveva svitato il tappo coi denti, sentendo in bocca il retrogusto acre e familiare dell'olio motore, e lo aveva versato sulle erbacce, fino all'ultima goccia, prima di appiccargli fuoco.

Dapprima timide, poi sempre più vigorose, le fiamme avevano iniziato ad allungarsi, sinuose ed ipnotiche –a guizzare vivaci, a protendersi verso il cielo, quasi in previsione di quello che sarebbe venuto dopo. Frances si era ritrovata a fissarle, ipnotizzata, col petto che si alzava e si abbassava seguendo il ritmo affannoso del suo respiro, sentendo improvvisamente il bisogno viscerale di piangere.

Poi, mentre l'incendio divampava indisturbato nel bel mezzo del cortile, era rientrata in casa a recuperare il borsone che aveva preparato per il weekend e ne aveva svuotato il contenuto–due canotte di Nomex, un paio di guanti e tre di calzini, due tute, un cappello e due scarpe da corsa consumate sui talloni- direttamente in mezzo alle fiamme, senza il minimo tentennamento.

Era tutto quello che aveva, ma non valeva niente.

E, se davvero doveva andare così, a Frances non interessava affatto tenersi niente di quella roba lì.

Non provava rabbia, né tristezza, né delusione. Forse provava tutte quelle cose assieme, al punto ch'erano diventate indistinguibili l'una dall'altra, ed il lutto di non potersi più dedicare all'unica cosa in cui fosse mai stata brava si mischiava al sollievo di non dover più lottare contro numeri e statistiche per dimostrare che ce l'avrebbe fatta comunque, a discapito di tutto.

Le era sempre piaciuto pensarsi intrepida ed impetuosa, ma non lo era mai stata quando contava davvero.

Sul fondo del borsone, piegata con cura come una reliquia sacra, c'era ancora la sua tuta bianca e rossa, la prima che avesse mai posseduto e che figurava in tutte le foto della sua infanzia –quelle dei giorni felici, con Pa' e Maman e Charles a stringerle la mano così forte da farla sbiancare.

Frances l'aveva guardata a lungo, con gli occhi gonfi di nostalgia. Ogni strappo ed ogni cucitura che la percorreva in lungo ed in largo raccontavano una storia, un piccolo frammento del suo sogno inconfessabile –quello che aveva passato tutta la vita a costruire ed a cui aveva appena dovuto arrendersi.

Se l'era stretta al petto, inspirando forte –quasi potesse ancora trattenere un residuo della bambina spaventosa ed inarrestabile ch'era stata e che avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare ad essere - e poi l'aveva fatta a brandelli, tirando e strappando con tutta la disperazione che aveva dentro, fino a farsi sanguinare le mani e a macchiare il tessuto col suo dolore.

Non c'era stato niente di catartico, però. Nessuna pace, nessun conforto.

Anzi, se possibile, il senso di vuoto che la attanagliava dall'interno sembrava essersi allargato a dismisura, fino ad inghiottire tutto il resto.

Mentre il fuoco divorava il suo passato a grossi bocconi, Frances aveva pensato a Charles, al borsone gemello del suo, già caricato sul retro del camper di Hervé, pronto a partire per l'Italia, ed anche a Max, alla sua carriera esplosiva ed alla notizia appena trapelata del suo esordio in Formula uno per l'anno successivo. Aveva pensato a come entrambi avessero sempre voluto essere come lei –essere lei-, e al modo in cui, in definitiva, l'avessero raggiunta e superata e lasciata indietro, come una cosa vecchia ed inutile ed accartocciata.

Le era sembrato talmente ingiusto da essere quasi intollerabile.

Era stato allora che aveva avuto l'idea.

Era stato un lampo improvviso di consapevolezza, l'ultimo ruggito del suo orgoglio morente. Un pensiero irragionevole ed egoista, di quelli che capitano a tutti ma che nessuno sano di mente asseconderebbe mai.

Ancora oggi non saprebbe dire perché l'avesse fatto, né tanto meno cosa avesse sperato di ricavarne.

A volte, nei giorni peggiori, si convince di averli voluti mettere l'uno contro l'altro deliberatamente, per rovinarli. Perché nessuno di loro potesse avere quello che a lei era stato precluso, perché entrambi si distruggessero nel tentativo di ottenerlo. La verità, però, è che non avrebbe mai potuto prevedere le conseguenze che quell'azione avrebbe avuto sul resto delle loro vite, la parabola fatale che le loro strade avrebbero preso per colpa di quella piccola deviazione.

A quel tempo Frances era solo una ragazzina abbandonata a sé stessa, senza più niente da perdere, e si sarebbe aggrappata a qualsiasi cosa pur di rimanere con loro –pur di non lasciarsi il passato alle spalle. Come cambiano le cose.

In un ultimo gesto disperato, aveva messo le mani direttamente fra le fiamme e ne aveva recuperato un angolino della vecchia tuta –appena un quadrato, di non più di dieci centimetri-, già lievemente brunito ma ancora perfettamente intatto. Sarebbe stata una sfida, un cimelio da contendersi all'ultimo sangue per dimostrare di essere il degno erede della ragazza in fiamme.

Aveva sorriso, stringendo la toppa fra le dita scottate ed annerite dalla cenere, e quello era stato il primo sorriso che si concedeva da molto tempo.

Che vinca il migliore, aveva pensato. Dopo di me.

A volte, nei giorni buoni, cerca di essere un po' più indulgente con sé stessa e di convincersi che, in fin dei conti, quel gesto di ribellione personale fosse riuscito laddove ogni altra cosa aveva fallito e avesse creato un legame tanto profondo da sopravvivere a tutto, perfino alla morte.

Nel triste spettacolo della sua miseria, aveva trovato una ragione per andare avanti.

Forse il mondo non avrebbe mai ricordato Frances Roux, ma due persone –loro sì.

Loro non l'avrebbero dimenticata mai.


*


Tredici anni dopo, pensa che è tristemente vero.

Nessuno ricorda più il nome della più giovane campionessa di Francia e la leggenda della fille en feu non è che uno spettro sbiadito dal tempo che aleggia fra i kartodromi, senza volto né memoria. La maggior parte delle persone che l'ha conosciuta non è più in vita o l'ha dimenticata, eppure il due volte campione del mondo di Formula uno che le siede di fronte, dopo aver lottato e conquistato e vinto, vinto, vinto schifosamente finché non c'è più stato niente da vincere, non lo ha mai fatto.

Neppure quando tutto quello che lei avrebbe voluto era disintegrarsi come cenere nel vento.

Svanire completamente.

Non essere mai esistita.

Anzi, da come la guarda –dal modo febbrile in cui i suoi occhi si spostano lungo il viso di lei, fino al collo, alle spalle e alle clavicole sporgenti- sembra che Max stia facendo tutto quello che è in suo potere per imprimersela a fuoco nella memoria, così com'è ora. Con una ciocca di capelli bianchi che si intravede dietro la nuca, e una coppia di rughe sottili ai lati della bocca, e quella strana espressione assente su volto di chi si limita ad occupare lo spazio perché non ha più nulla per cui valga la pena vivere.

Come se la dovesse vedere per l'ultima volta.

Frances vorrebbe biasimarlo, ma in fondo sanno entrambi che nel momento in cui lei si alzerà da quella sedia e gli volterà le spalle, non avranno più niente da dirsi e torneranno alle loro vite ormai irrimediabilmente separate, ognuno cercando di rimettere a posto i pezzi come meglio può. Magari accettando il passato, magari prendendosi le sue responsabilità. Magari andando avanti.

Non dimenticando, però. Quello mai.

Max si sporge verso di lei senza interrompere il contatto visivo, con cautela, trascinando a fatica sul tavolino ingombro il gomito piegato in un angolo tutto sbagliato ed offrendole mani tremanti, fredde ed incerte, quasi cercasse di avvicinare un animale impaurito.

Ma lui dovrebbe conoscerla meglio di così.

Dovrebbe sapere meglio di chiunque altro che le bestie rognose e diffidenti come lei non si fanno mettere con le spalle al muro e hanno imparato a sopravvivere non fidandosi di nessuno, mai ed in nessun caso.

Soprattutto delle facce amiche che le hanno già tradite.

Prima che riesca a toccarla, infatti, lei si ritrae, incassando il mento nelle spalle ed infilando nuovamente i pugni chiusi nelle tasche del cappotto.

È il momento, lo sente. È ora.

La sensazione di imminenza e ineluttabilità che aveva iniziato a covare quella mattina, quando si era messa in macchina ed aveva guidato per la prima volta dopo anni verso il Principato, e che non aveva fatto altro che crescere ed ingigantirsi dal momento in cui aveva varcato la soglia del Café de Paris, scoppia improvvisamente, lasciandola disarmata e vagamente stordita.

Il confronto con l'altro si sta rivelando più duro del previsto, ma per ragioni del tutto inattese.

Lo sguardo che lui le riserva ha dentro qualcosa di infelice e qualcosa di consapevole, e Frances non saprebbe dire quale delle due cose le spezzi di più il cuore. Forse è la percezione chiara e distinta che non sono più i ragazzini di un tempo –non sono gli stessi che ballavano alla luce della luna nella campagna provenzale, né quelli che si stringevano le mani in cima ai tetti più alti del mondo, né quelli che condividevano silenzi sussurrati sul molo di Fontvieille.

Forse è la certezza che non lo saranno mai più.

La verità è che ero solo innamorato. Innamorato perso, Fran.

E Frances sa che non dovrebbero discutere di questo, che è un terreno inesplorato ed insidioso e che addentrarvisi non sarebbe giusto nei confronti di nessuno. Questo –qualsiasi fosse la piega che il suo rapporto con Max avesse preso, col tempo, e quanto lei ne fosse intimamente consapevole–è ancora troppo vicino e troppo reale e curiosamente difficile da accettare.

Eppure, non può che sorprendersi dalla facilità con cui le parole le affiorano dalle labbra – dalla precisione con cui scoccano, risuonano e si conficcano in profondità. Affilate, crudeli, oneste.

"Ti sei innamorato di un'idea, non di una persona, Max." dice, mantenendo gli occhi bassi e concentrandosi sul pezzo di stoffa sdrucito che tiene nel pugno. Ne accarezza coi polpastrelli l'orlo sottile e sfilacciato, indugia sulla trama lisciata dall'usura, infila la punta dell'indice in un piccolo strappo vicino al bordo, come ad allargarlo. La voce, invece, resta salda, risoluta. Suona come una condanna. "Non di me, di sicuro."

Se c'è una cosa che la vita le ha insegnato –l'unica lezione davvero utile che tutta la sofferenza che ha subito è riuscita ad impartirle- è che amare Frances si è sempre rivelata essere una scelta estremamente irresponsabile.

Irresponsabile e pericolosa.

Nonostante la severità delle sue parole però, l'espressione sul volto di lui non si indurisce. È quasi infantile, anzi. Capricciosa nella posa della bocca e nel cipiglio.

"Lo abbiamo fatto entrambi." Ribatte, con altrettanta semplicità e, per quanto si sforzi, Frances non riesce a capire a chi di loro Max si stia riferendo.

C'era stato un tempo –sebbene spesso faccia fatica a ricordarlo- in cui loro tre erano esistiti come entità separate, ma con il passare degli anni i confini si erano fatti talmente labili ch'era diventato impossibile distinguere dove cominciasse l'uno e finisse l'altro. Quanto ci fosse di lei in Max e di Max in Charles e di Charles in Frances. E viceversa.

Si erano cresciuti attorno, e addosso, mal tollerandosi e desiderandosi ed ergendosi a reciproco metro di paragone. Si erano resi indispensabili gli uni agli altri, e questa era stata la loro rovina.

"Charles mi conosceva intimamente." aggiunge lei, dopo un breve istante di esitazione. La vista le si appanna e Frances è costretta a battere le palpebre più volte per mettere di nuovo a fuoco il bordo lucido della tovaglia. La voce le si fa sottile, quasi un sussurro: "A volte avevo l'impressione che mi conoscesse perfino meglio di quanto io conoscessi me stessa."

Ha fatto del suo meglio per impedire alle emozioni di travolgerla completamente, ma non farsi sopraffare diventa sempre più difficile quando ogni parola che pronuncia è un sassolino che affonda e smuove il fondo sabbioso, facendo riaffiorare ricordi che pensava sepolti definitivamente.

Gli alamari lucidi del cappotto che lui portava il giorno del funerale di Maman, la ruga di espressione che gli tagliava in due la fronte una notte in cui era tornata a casa completamente persa, la pressione gentile dei pollici sulle sue guance rigate dalle lacrime quando si erano baciati per la prima volta.

Più di tutto –prima che amore, casa, famiglia- Charles era stato per lei uno specchio: l'unica persona al mondo che fosse riuscita a vederla esattamente per quella che era –angoli oscuri, e spigoli, ed incolmabili buchi di rabbia compresi- e che fosse rimasta al suo fianco. L'unico a cui non avesse mai dovuto spiegare niente di sé, l'unico con cui non avesse mai dovuto giustificarsi per quel modo istintivo e violento che aveva di vivere.

Fra le altre cose, perdere Charles aveva significato soprattutto dover rinunciare alla sicurezza di essere intimamente compresi, capiti, visti. Ed era anche per questo che niente era stato più lo stesso, dopo.

Quando Frances si sente abbastanza sicura da alzare nuovamente lo sguardo, nota che Max non si è mosso di un millimetro. È ancora lì, proteso verso di lei, coi palmi delle mani rivolti verso l'alto.

Un invito, una preghiera.

"Ho sempre saputo che era una battaglia persa, ma mi sono sempre illuso che prima o poi lo avresti capito." Mormora, mesto, scuotendo piano la testa per allontanarsi i capelli troppo lunghi dagli occhi. Il rifiuto gli tinteggia di scuro gli zigomi, gli scava le guance.

"Se solo fossi andato un po' più in là, ancora un passo oltre. Se solo avessi dimostrato ch'ero più bravo di lui. Più giusto per te."

Lei schiude le labbra –vorrebbe dirgli che non avrebbe cambiato le cose, che non sarebbe servito a niente, che lei era sempre stata troppo rotta per essere giusta per chiunque- ma non ne viene fuori neanche un suono. Sente la lingua pesante e la bocca arida, impastata.

"Sono stato così arrogante." Ammette Max, in segno di resa. "Avrei dovuto ascoltarli, quando mi dicevano che non sarebbe mai finita, ch'eravate fatti l'uno per l'altra."

Ed è improvvisamente troppo.

"Non ho mai sentito così tante cazzate" lo interrompe Frances, brusca. "Eravamo una coppia come ogni altra. Umani, fallaci. Avevamo i nostri problemi, ci siamo fatti del male." Incalza, velenosa, stringendo gli occhi in due fessure. "Vuoi sapere quanto?"

Da qualche parte, dentro al petto, il dolore sordo che la accompagna quotidianamente sembra essere attutito da una rabbia molto più familiare, –la stessa che le ha fatto ignorare ogni tentativo di contatto da parte di Max e che le è quasi costata una denuncia da più di qualche reporter.

Eccola, pensa, rinvigorita. Finalmente un'emozione che conosce e che può domare a suo piacimento. Finalmente un'emozione di cui non ha paura.

"Ti ricordi Monza, nel 2021? Durante le libere Charles si dovette fermare. Dissero che non stava molto bene, lo mandarono perfino al centro medico."

Max si acciglia, attonito, come se la conversazione avesse perso una svolta inattesa e gli avesse tolto tutti i punti di riferimento, rendendogli impossibile orientarsi.

"Non ti seguo."

Deve sembrargli completamente impazzita.

E, invece, per la prima volta in cinque anni Frances è di nuovo Frances, spudorata, ostinata ed irrefrenabile. Le parole vengono fuori una dopo l'altra –una più crudele dell'altra- e non c'è verso di fermarle.

"Aveva avuto un attacco di panico mentre guidava." Dice. "Era un periodo strano. Litigavamo spesso, e sentiva addosso la pressione più che altre volte. Era anche e soprattutto colpa mia, devo ammettere. Del modo che avevo, come diceva sempre, di entrargli nella testa."

Mettere a nudo la parte più fragile di Charles davanti a qualcun altro –anche sé è Max, anche se lei tiene per sé più di quanto non condivida- suona sbagliato, un tradimento.

Spero che potrai perdonarmi, pensa, trattenendo il respiro.

Come io ho perdonato te.

"Non era il primo attacco di panico che aveva quel weekend. Ricordo che mi aveva svegliata, la notte del giovedì, terrorizzato e zuppo di sudore. Erano sempre più frequenti e sempre più intensi. Ma era diverso, averne uno alla guida. Hai idea di quanto possa essere pericoloso?"

Il modo in cui lui la guarda è la conferma che stava cercando.

"Ne abbiamo parlato, dopo. A lungo. Penso che il nostro segreto fosse questo." Conclude. Il tono della voce le si addolcisce appena, sul finale. "Non eravamo in grado di ignorare la sofferenza che ci causavamo."

"E, nonostante questo, sei rimasta con lui fino alla fine."

Suona come un'accusa.

Sembra quasi che stia per aggiungere qualcosa, quando lo schermo del suo telefono si illumina, rivelando una vecchia fotografia un po' sgranata, ed inizia a vibrare insistentemente sul tavolino. La bocca di Max si piega in una smorfia scontenta, ma lui lo rovescia prontamente, prima che Frances riesca a leggere il mittente della chiamata.

Per un attimo si illude che quella breve interruzione basti a far cadere l'argomento e che le consenta di andare oltre, ma ovviamente non è così. Max è sempre stato così cocciuto.

"Pensi che se non ci fosse stato Charles noi saremmo stati insieme?"

Frances lo guarda di traverso, piegando la testa di lato e socchiudendo le palpebre.

"È una domanda impossibile, Max" gli risponde, onesta. "Anche quando non stavamo insieme, Charles c'è sempre stato. Penso di essergli appartenuta dal primo momento in cui l'ho visto."

Se questa affermazione ferisce Max, Frances non se ne rende conto. I suoi occhi sono scuri ed illeggibili, catturano la luce soffusa delle lampade che li circondano e la intrappolano fra le ciglia chiare. Sembra di nuovo improvvisamente giovane, ottuso e pedante nei suoi ragionamenti per assurdo.

"Dico se Charles non fosse mai esistito" rimarca. "Se non fosse mai stato nella tua vita. Mi avresti amato? Pensi che avresti potuto?"

Anticipa l'obiezione prima ancora che lei possa aprire la bocca.

"Intendo in quel senso."

Frances resta a lungo in silenzio, sembra soppesare la domanda –i pro ed i contro di essere finalmente del tutto sincera. Ma l'onestà, si dice, è tutto quello che è rimasto loro. Glielo deve, in fondo.

"Credo di sì" dice, sospirando. "Penso che ci saremmo amati entrambi, anche se in modo diverso. Penso che non sarebbe durata, però. Ci saremmo consumati."

Max non lo dice, ma doveva averlo pensato anche lui.

Un vago odore di burro inizia a farsi strada nell'ambiente, dalle cucine. Le riempie le narici, le morde lo stomaco. Frances allunga il collo per dare un'occhiata fugace appena dietro al separé, e studia il fermento composto della sala principale. Devono star iniziando a servire la cena. Ormai è troppo tardi. Ha aspettato troppo.

Non avrà tempo di andare da Charles.

E questa volta è lei a cercare le mani di Max, a stringerle. Calde e irrigidite e callose. Mani che si sono spaccate per il freddo e spellate per il troppo calore e riempite di vesciche e intorpidite a furia di stringere il volante troppo forte. Mani che hanno lavorato e lottato e sofferto. Mani che hanno stretto altre mani, incluse le sue.

La sua presa è salda, accogliente. Parla una lingua intima ed ancestrale che conoscono ancora entrambi e che sa di riparo, riposo, conforto.

Max è incredulo.

Ci mette un po' a rendersi conto che non è un gesto fine a sé stesso, ma che lei gli sta passando un pezzo di stoffa.

Quando apre il pugno e realizza cosa sta guardando, emette un suono strozzato, quasi di pianto.

Sette.

Sette come le lettere che componevano il suo nome.

Sette come luglio, il mese in cui era nata Maman.

Sette come i passi dal suo portone di casa a quello della rimessa dove teneva il suo kart.

Sette come i giorni che Dio aveva impiegato a creare l'Universo e sette come gli anni che aveva quando aveva incontrato per la prima volta Charles Marc-Hervé Perceval Leclerc.

Sette come gli anni in cui si sono amati, prima che finisse tutto com'era iniziato.

Fra le fiamme.


//Spazio autrice (viva e vegeta)

Lo so, lo so. Ci son cascata di nuovo.

Questa volta, quanto meno, eravate stati avvisati che gli aggiornamenti si sarebbero diradati nel tempo e siete anche stati ricompensati con un giga capitolo di 3500 parole, che spero sia valso la lunghiiiissima attesa.

Come alcuni di voi sapranno, sei mesi fa ho iniziato un dottorato di ricerca in Germania, e il mio tempo libero al momento è talmente risicato da poter essere considerato pressoché inesistente! Non disperate, però, perché sto continuando a scrivere, se non giornalmente, di sicuro almeno qualche ora a settimana, dunque la storia non è in pausa, né quanto meno a rischio di rimanere incompiuta. Siamo ormai ben oltre la metà ed ho tutte le intenzioni di finirla, costi quel che costi.

So che TF è "soltanto" una fan fiction, ma per me è anche una sfida personale e dietro ognuno di questi capitoli ci sono ore ed ore di lavoro, ristesure, riscritture ed editaggi massicci. Ci metto tanto di mio, e spero che si riesca a percepire! 

FINALMENTE una delle big revelescio della storia è arrivata, uno dei fil rouge che unisce presente-passato-futuro. La toppa col numero 7. Alcune risposte, molte nuove domande: come sempre, dunque.

Detto questo, volevo ringraziarvi personalmente ancora una volta per aver aspettato pazientemente e per tutti i messaggi di supporto che mi sono arrivati in queste settimane. Siete davvero una community speciale e non vi merito assolutamente!

Leggete, votate, commentate se vi va. Qui o su instagram, dove mi trovate come @/itstods_wattpad. Il vostro feedback è più necessario che mai, anche perché niente mi fa scrivere più in fretta delle vostre teorie strampalate! 

Baci esagerati, 

Vostra T.

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