16| Charles- Il passato
2012, FRA
Haven't had a dream in a long time
See, the life I've had
Can make a good man badSo for once in my life
Let me get what I want
Lord knows, it would be the first time
La prima volta che volta che Charles prova pena per qualcuno, è un sentimento così sconosciuto che fa fatica a riconoscerlo e dargli un nome, lì per lì. Lo travolge, impetuoso ed opprimente, come una mareggiata inghiotte la spiaggia e porta con sé tutto quello che trova lungo la sua strada. Lo lascia ammutolito. Gli aggroviglia le budella dall'interno e gli fa venire voglia di coprirsi la bocca e distogliere lo sguardo, come per proteggersi da una scena violenta e dolorosa.
E, in un certo senso, quella che gli si dipana davanti è entrambe le cose.
In futuro si chiederà spesso se quello che è successo in quella piovosissima domenica di maggio –il momento in cui ne ha visto il riflesso frantumato nella vetrina della stazione di servizio, fradicio e indifeso, nascosto dietro alle mani- non si sia fatto strada subdolamente dentro di lui e non abbia cambiato irrimediabilmente l'immagine granitica e detestabile che si era costruito del suo rivale.
La memoria sensoriale funziona in modo bizzarro, si dice, non segue le regole del tempo e della logica. Un sapore può portarti indietro di anni ed un odore può catapultarti dall'altro capo del mondo. Una singola nota può risvegliare ricordi sopiti e ricostruire da zero un'intera melodia dimenticata nella tua testa ed un semplice tocco può creare un contatto e riportare alla luce fantasmi del passato.
La pioggia, per Charles, da quel giorno ha sempre avuto il nome di Max Verstappen.
Nei momenti peggiori della sua vita, a migliaia di chilometri di distanza, mentre gocce gelate si abbattevano senza pietà contro la sua testa, nonostante tutto, non aveva mai pensato alla morte in senso stretto. Non aveva pensato nemmeno alle persone a cui voleva bene e a quelle che aveva amato. L'unica immagine che aveva in mente era quella di un ragazzino gracile e spaventato che lo guardava con occhi blu notte pieni di una paura che non gli avrebbe visto in faccia mai più.
*
Se qualcuno potesse vedere la sua espressione, sotto al casco, vedrebbe un sorriso. Contro ogni aspettativa, è stato un weekend glorioso per Charles Leclerc –probabilmente il migliore da quando ha memoria. È stato primo in ogni manche, ha accumulato una montagna di punti e tutto quello che gli manca è portare a casa la vittoria.
Sa che può farcela, questa volta. È la sua occasione.
Anche se non ha dormito nemmeno un'ora, rannicchiato sul materassino sottile nel retro del camper che suo padre ha noleggiato, mentre lo sentiva russare e ne contava i respiri col cellulare stretto fra le mani.
Anche se Frances non ha mai risposto a nessuno dei suoi messaggi, neppure a quelli in cui le chiedeva se stesse bene, e non ha richiamato.
Anche se il sabato ha piovuto tutto il giorno e tutta la notte, ingrossando i due fiumi che serpeggiano attraverso la campagna, ed inzuppando il terreno fangoso fino a trasformarlo in un pantano.
Anche se il circuito è a malapena praticabile e Max Verstappen –proprio lui, fra tutti- è partito benissimo e guida la testa del gruppo.
È come se un interruttore gli fosse scattato dentro, all'improvviso, illuminando le zone oscure e annichilendo le sue insicurezze. Tutte le cose che di solito lo manderebbero nel pallone –tutte le variabili incontrollabili, le svolte inattese, la fortuna avversa- gli danno la lucidità per premere di forza sull'acceleratore e schivare le grosse pozze nell'asfalto, a caccia del pesce più grosso dello stagno.
Non sa se Nicholas ha trovato il set up perfetto per la gara o se in queste condizioni disperate il suo talento sia finalmente riuscito a sbocciare con cieca determinazione, ma per quanto Max provi ad inventarsi nuove traiettorie per allontanarsi ed allungare su di lui, Charles è sempre alle sue calcagna, così vicino da riuscire a sentire l'odore pungente della sua frustrazione.
Che è dolcissimo, per inciso.
Darebbe qualsiasi cosa, pur di vedere l'espressione stampata sul suo viso quando lo supera, all'inizio dell'ottavo giro. Lo tocca appena, quel tanto che basta per farlo sbandare e allargarsi di un paio di metri. Uno spiraglio si apre, e Charles gli è davanti. Le mani quasi gli tremano per l'adrenalina, e il sangue gli pompa nel petto rumoroso e bollente. Con la coda dell'occhio lo guarda accodarsi e per un istante, uno soltanto, capisce come deve sentirsi Frances, nei brutali duelli con il giovane pilota olandese da cui lui è spesse volte escluso. Capisce cosa si prova a schiacciare Max Verstappen.
Finché non è lui ad essere schiacciato.
La sensazione è quella di uno strappo –improvvisa, frastornante. Poi il mondo attorno a lui inizia a girare vorticosamente e Charles ci mette un paio di secondi a rendersi conto di quanto è successo. E si odia, per aver gongolato, per non averlo visto arrivare.
Mentre continua a piroettare su sé stesso, gonfio di rabbia e umiliazione, una fila di kart gli sfilano accanto uno dopo l'altro, sollevando schizzi d'acqua sporca e grumosa. Non gli serve aver visto il contatto, per sapere chi lo ha causato. Una mossa del genere –vile, sconsiderata- potrebbe averla fatta una persona ed una soltanto.
In altre circostanze la sua gara sarebbe finita –non sarebbe la prima volta che Charles si ritira per un incidente che non ha causato lui. Alza i piedi dai pedali e pensa che sì, potrebbe mollare. Nessuno lo biasimerebbe se zoppicasse fuori dal kart e lo mettesse in sicurezza. Probabilmente perfino Frances riuscirebbe a trovare parole di conforto per non farlo sentire un fallito e prenderebbe le sue difese.
Charles può quasi vederla –i capelli indomabili, la piega della bocca dura ed impietosa, lo sguardo selvatico e le sopracciglia arcuate in una smorfia severa. Se si concentra, riesce perfino a percepire la ruvidezza delle sue dita sulle sue guance morbide. È a malapena una frazione di secondo, quella che gli serve per addrizzare il volante e dare un colpetto leggero col piede all'acceleratore.
Certo, si dice, probabilmente se gettasse la spugna adesso perfino Frances lo capirebbe, perfino lei prenderebbe le sue difese. Ma Frances non si arrenderebbe mai così.
Quel pensiero, d'un tratto, gli infonde un senso di profondissima calma che gli è del tutto estraneo, e fa chiarezza come un soffio di vento che allontana le nuvole dopo una tempesta.
Inspira. Espira.
La rimonta che viene dopo ha qualcosa di miracoloso.
Giro dopo giro, Charles recupera ogni posizione persa con destrezza e abilità, virando e spingendo e sgusciando in mezzo agli avversari come se nemmeno fossero lì, ed in men che non si dica è di nuovo dov'era all'inizio. Ad un palmo di naso dal peggiore dei suoi incubi.
Ed è come decine di altre volte, quasi da copione. Solo che questa volta Charles non ha alcuna intenzione di piegare la testa. Se deve andare a fondo, Max ci andrà con lui.
Tagliano il traguardo affiancati, nello sgomento generale, con il piede a tavoletta e le scarpette in tessuto inzuppate d'acqua sporca.
"Cosa cazzo cercavi di dimostrare, eh!?" urla, per sovrastare il ronzio scoppiettante dei motori e il fruscio feroce del vento.
A differenza della sua migliore amica, Charles non è un attaccabrighe. Questo tipo di reazioni non sono da lui. È secondo e secondo non è un brutto risultato. Meglio, secondo è qualcosa a cui è abituato, qualcosa che conosce come conosce i palmi delle sue mani. Qualcosa che ha accettato di essere, quando di mezzo c'è Frances, ma non oggi. Non quando la vittoria era sua e-
Non sa, sinceramente, che cosa lo spinga a farlo. Anche dopo, sotto lo sguardo severo di suo padre e dei commissari, Charles non riesce a trovare una giustificazione logica o razionale. Semplicemente, lo fa.
Appena dopo la linea del traguardo, quando Max Verstappen risponde alla sua domanda con una grassa risata gracchiante, lui colpisce il suo kart con la ruota anteriore. È a malapena un colpetto, e se la pista non fosse scivolosa per la troppa pioggia non lo avrebbe fatto nemmeno sbandare. Ma piove da giorni a Le Breuil-sous-Argenton.
Così, Max manca la traiettoria asciutta e finiscedritto in una buca gonfia d'acqua. E tutto cola a picco.
Si rivedono dai commissari di gara, una mezz'ora dopo.
Uno accanto all'altro, a poco più di un palmo di distanza, ancora nelle loro tute fradice e macchiate.
Alla destra di Charles c'è Hervé, con gli occhiali scivolati lungo la punta del naso e le sopracciglia aggrottate e pensierose, che ascolta attentamente e annuisce di tanto in tanto. Alla sinistra di Max, invece, c'è Jos, con la mascella serrata ed il volto stretto nella sua consueta espressione indecifrabile. Tiene la mano destra arpionata alla spalla del figlio, le nocche bianche e minacciose contro la tuta nera.
Dopo pochi preamboli, la commissione giudica la condotta del pilota olandese pericolosa e antisportiva. La sentenza è unanime e non ha possibilità di appello. Squalifica.
La situazione di Charles, invece, sembra essere più complessa. Il contatto che ha causato è avvenuto dopo il taglio del traguardo ed è stato considerato una fatalità. La pista era molto scivolosa, dopotutto. Sarebbe potuto succedere a chiunque.
Il direttore di gara –un uomo calvo, bonario, con una pancia tonda e prominente- si rivolge direttamente a lui, in francese, e gli chiede: "È stato un incidente, vero?"
Il respiro gli si spegne in gola e, istintivamente, cerca l'altro ragazzo.
Le palpebre di Max sono chiuse e bianche come quelle di un morto. Tremano lievi, prima di aprirsi, ma nei suoi occhi azzurri c'è talmente tanto odio che Charles non riesce a mantenere il suo sguardo per più di qualche istante.
Nel suo petto adesso non c'è più spazio per la frenesia del momento, né per la rabbia divampante. Un rancore sordo, che gli fa eco nella cassa toracica, inizia a crescergli dentro e gli appesantisce il cuore. La consapevolezza di quello che sta accadendo gli piove addosso come una secchiata d'acqua gelida.
Ha fatto un casino e, se volesse, potrebbe farla franca. Volta la testa, verso suo padre, alla ricerca di conforto, sicurezza, risposte.
Non lo ha mai visto così arrabbiato, imbarazzato. Deluso.
Charles si passa una mano fra i capelli lunghi per allontanarli dal viso, poi apre la bocca come per parlare, ma non ne esce alcun suono. Tutti gli occhi dei presenti nella stanza sono puntati verso di lui. Quelli accondiscendenti dei commissari, quelli severi di suo padre. Quelli ostili ed intimidatori del padre di Max. Lui è l'unico che non lo guarda.
E pensa: Guardami. Abbi il coraggio di guardarmi.
"Allora?"
Charles si schiarisce la voce, sposta il peso da un piede all'altro facendo un rumore fastidioso con le suole, soppesa tutte le sue possibilità in una manciata di secondi che sembrano durare un'infinità. Vincere con l'inganno. Pagare per i suoi errori. Mentire. Dire la verità.
Max sta già scuotendo la testa con un'espressione disgustata dipinta sul viso. Bisbiglia tra i denti qualcosa in una lingua che lui non capisce, ma suona come un insulto. La cosa peggiore è che non è certo di non meritarlo.
Si chiede cosa farebbe Frances, al suo posto, ed è una risposta sorprendentemente semplice.
"No, non è stato un incidente." Ammette, a voce alta, e non lascia nessuna opzione alla commissione, se non quella di squalificarlo.
Charles non sarebbe in grado di dire una bugia nemmeno se lo volesse.
Il viaggio di ritorno è parecchio silenzioso.
Charles se ne sta seduto dal lato del passeggero, con la fronte appoggiata al finestrino freddo mentre suo padre guida attraverso la campagna francese, per ritornare a casa. Ha ricominciato a piovere.
Uno strano senso di malessere gli stringe lo stomaco e gli pesa addosso come una cappa.
Nonostante sappia in cuor suo di aver fatto la scelta giusta, per qualche ragione non si sente meglio con sé stesso. Anzi, se possibile si sente addirittura peggio. Che cosa diavolo gli è preso? Se avesse avuto il senno di evitare quella mossa folle e sconsiderata, Max sarebbe stato l'unico ad essere squalificato e lui avrebbe avuto la vittoria in tasca. E se avesse avuto il fegato di mentire, di guardare dritto negli occhi il direttore di gara e giurargli che non era sua intenzione spingerlo fuori pista, avrebbe vinto comunque. Ma non ha avuto né l'uno né l'altro. Ed ora ha sulle spalle solo un viaggio a vuoto, ed un weekend da dimenticare.
Appena imboccata l'autostrada si fermano in una piccola stazione di servizio per fare carburante e, prima di scendere dal camper, Hervé gli chiede se ha voglia di qualcosa –una Coca cola, un pacchetto di patatine. Per quanto deluso dal suo comportamento, resta pur sempre suo padre. Deve volergli bene.
Charles scuote la testa, piano, facendo scattare la portiera per far entrare un filo d'aria fresca. Malgrado si sia cambiato, si sente ancora addosso l'odore del fango e della gomma bruciata, quello aspro e penetrante della vergogna.
Mentre guarda con la coda dell'occhio la figura imponente di suo padre avvicinarsi alla pompa di benzina, il telefono gli vibra nella tasca. Ed è una sorpresa, per certi versi.
Fanny
P1?
È il primo messaggio che Frances gli invia da molti giorni. Quello di Val d'Argenton è uno dei suoi circuiti preferiti –non hanno fatto che parlare di questa gara dall'inizio del campionato KF2- ma sua madre all'inizio della settimana ha avuto un malore e lei ha dovuto rinunciare a partecipare al secondo round. Giusto per precauzione. Per evitare di essere a seicento chilometri da casa, nel caso in cui sua madre, be', insomma- Nel caso in cui fosse successo.
Charles non riesce a reprimere un sorriso, al pensiero che in un momento del genere lei si sia interessata ad una cosa futile come la sua gara. Si sente quasi sollevato. Le dita schiacciano veloci una risposta sui tasti, poi torna a rivolgere lo sguardo all'esterno.
Charles
DSQ
La stazione di servizio è semideserta a quell'ora, fatta eccezione per un paio di auto parcheggiate e qualche camion in sosta. Sembra un posto dimenticato da Dio, con le cassette di legno ammonticchiate accanto all'ingresso, frammenti di vecchie notizie sugli espositori e l'insegna scolorita e mangiata dal tempo. Gocce di pioggia striano il parabrezza.
Il telefono vibra di nuovo, contro la sua coscia.
Fanny
Mi dispiace.
Poi, subito dopo: Max?
Charles
Anche
Il cuore gli sprofonda nel petto, pesante come un sasso in un sacchetto vuoto. Un sentimento oscuro, con cui ha imparato a fare i conti di recente, gli corrode le viscere e gli fa sentire in bocca il sapore acre della bile. Non è gelosia, né delusione. È entrambe le cose e molto di più. È tradimento, assenza, abbandono. Charles spalanca la portiera socchiusa con un calcio.
"Vado in bagno" dice ad Hervé, scendendo dal camper e dirigendosi verso l'area di servizio col cappuccio calcato in testa, i pugni stretti nelle tasche della felpa. Le lacrime gli pungono gli occhi, ma non ha intenzione di piangere. È così frustrato. Nulla è andato come avrebbe voluto e la sua migliore amica, lei nemmeno-
Qualcosa gli si agita dentro al petto, smaniosa di liberarsi, e deve fermarsi e fare dei respiri molto profondi per cercare di calmare il battito accelerato del suo cuore. È in quel momento che qualcosa cattura la sua attenzione. Lo sente, prima di vederlo. Un rumore lieve, un lamento quieto e sommesso, come di pianto. È a malapena udibile, soffocato dal tessuto.
Charles resta in ascolto per qualche istante, appoggiandosi al muro sdrucciolevole con una mano, indeciso sul da farsi. Dà una rapida occhiata alle sue spalle dove Hervé, chino sulla pompa di benzina, armeggia col portafoglio con una sigaretta appoggiata mollemente fra le labbra. Poi si volta ed aggira l'edificio a passi lenti, attento a non far rumore, con il cuore che gli rimbomba nella cassa toracica e la sensazione di aver compiuto una scelta inconsapevolmente pericolosa.
"Tutto bene?" chiede, piano, con la voce che gli trema appena. In tutta risposta, il lamento si placa del tutto e la pioggia è l'unica cosa che sente.
Quello che si trova davanti quando gira l'angolo, però, è talmente inatteso da disegnargli una ruga perplessa sulla fronte.
Un ragazzo della sua corporatura, appena più alto di lui, gli dà le spalle. Se ne sta appoggiato alla vetrina spaccata dell'edificio, con il capo chino e il viso nascosto tra le mani. Indossa una maglietta a maniche corte con il collo strappato come se fosse stato tirato a forza. Non ha niente con sé, nemmeno una giacca.
"Tutto bene?" ripete Charles, riparandosi dalla pioggia con un braccio e rivolgendosi verso la sagoma rannicchiata. Ha la gola ostruita, le membra stranamente intorpidite.
Il ragazzo non dà alcun segno di averlo sentito. La sua schiena è scossa da singhiozzi violenti, ma ora non produce alcun suono, come se stesse cercando di imbottigliare un grande dolore senza farsene scappare neppure una goccia.
Charles non riesce a scacciare la sensazione che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato, in tutto questo. Si guarda attorno alla ricerca di indizi –risposte- ma sono soli.
"Hai bisogno di aiuto?" prova ancora. Nella sua voce c'è una forte urgenza, che nemmeno lui sa spiegarsi.
Il ragazzo fa un suono strozzato, a metà fra uno sbuffo ed un colpo di tosse, poi alza la testa, e Charles spalanca la bocca per la sorpresa. Nella vetrina della stazione di servizio si riflette un volto che ha imparato a conoscere molto bene, anche se adesso gli sembra del tutto estraneo.
Max tira su con il naso, prendendo un respiro profondo.
"Vai via" dice, voltandosi verso di lui. La voce è arrocchita e graffiante, fa il rumore delle cose che vanno in pezzi. La sua tempia è attraversata da un brutto taglio slabbrato, che gli serpeggia al lato della fronte fino all'attaccatura dei capelli biondo cenere. Sangue e lacrime gli si mescolano sulle sue guance, brillanti e ramificati come scie di comete, ma i suoi occhi sono affilati e ostili esattamente come poche ore prima.
Non è un bello spettacolo a cui assistere, eppure Charles non riesce a smettere di fissarlo. Nessuno dei suoi muscoli sembra voler collaborare. Deve lottare con tutto sé stesso per ignorare la stretta violenta che prova allo stomaco.
"Cosa è-?" farfuglia, scuotendo leggermente la testa e indicandolo con un cenno del mento.
"Niente"
"Sei ferito." Insiste, incredulo. Muove un passo in direzione dell'altro, ma Max indietreggia, istintivamente. Se non fosse assolutamente certo che l'altro sia incapace di provare emozioni che non siano rabbia o disprezzo, Charles direbbe che Max ha paura. "Vuoi che chiami tuo padre? È dentro?"
A quella parola, padre, Max stringe gli occhi.
"Vattene."
C'è così tanta emozione, nella sua voce. Un livore assoluto, ustionante.
"Voglio solo aiutarti." Mormora lui, di rimando. La pioggia si è intensificata, adesso, e per quanto cerchino riparo i due sono completamente esposti alle grosse gocce gelate che cadono dal cielo fuligginoso. Il suo cappuccio è ormai zuppo e Charles inizia a sentire i capelli lunghi appiccicarglisi sulla fronte.
Max si avvolge il corpo con le braccia, magre e bianchissime, nel tentativo di trattenere un po' di calore, ma sta tremando come una foglia nei suoi vestiti fradici.
"E perché dovresti?" grida, quasi. Il suo volto è completamente trasfigurato. "Cosa accidenti te ne frega di me?"
Charles abbassa lo sguardo, colpevole. Odia quanto sia facile per Max disarmarlo e pungerlo nel vivo, dove fa più male. Una risposta implicita aleggia nello spazio fra di loro. Perché Frances non mi perdonerebbe mai, altrimenti.
Parti di lui avevano sperato che quello che Frances gli aveva detto l'estate precedente –che lei e Max si sarebbero allontanati, prima o poi- si rivelasse vero, ed invece Charles aveva la netta sensazione che i due fossero diventati sempre più intimi, col passare del tempo. Questo aveva creato una tensione sottile fra lui e Frances, che pur essendosi affievolita non si era mai estinta del tutto.
Charles aveva imparato ad accettare che Max fosse importante per lei. Aveva iniziato, lentamente, ad arrendersi all'idea di dover condividere la persona più straordinaria sulla Terra –l'altra metà di sé- con la peggiore che conoscesse.
Eppure. Eppure adesso, sul retro di una stazione di servizio nel cuore della Francia, ferito e infreddolito ed inzuppato fino all'osso, Max Verstappen non sembra più così facile da detestare.
Charles gli mostra i palmi callosi, in segno di resa, ed è la cosa più simile alla verità che riesce a cavarsi da dentro.
L'altro annuisce, lentamente, -come se avesse capito qualcosa che a lui ancora sfugge- e si strofina le guance con le dita per cancellare le tracce della sua debolezza. Quando parla, la voce è vuota e quasi assente. Vecchia cent'anni.
"Posso fare una telefonata?"
Quando suo padre li vede arrivare verso il parcheggio, taciturni e grondanti, non può che pensare al peggio. Charles non ha mai dato un pugno in tutta la sua vita, ma nemmeno Hervé sembra del tutto persuaso che non lo darebbe a Max Verstappen, se proprio dovesse.
"Gli serve il telefono" spiega lui, indicando l'altro ragazzo con il pollice. Vede gli occhi di suo padre spostarsi alle sue spalle, fissarsi su un punto preciso e farsi improvvisamente cupi, dietro alle lenti degli occhiali.
"Dov'è tuo padre?" gli chiede, dopo poco. La sua voce è gentile, sembra una carezza, eppure Max fa di nuovo quella cosa inspiegabile. Sussulta.
"Il telefono" risponde lui, in francese questa volta.
Charles volta appena la testa e rimane ancora una volta sorpreso dall'espressione sul volto dell'altro –rassegnata, implorante, disperata quasi. Vi prego, vi prego, vi prego. Non chiedete niente.
Hervé annuisce, brevemente, poi apre il portellone del camper per farli salire.
"Venite su."
Max punta i piedi nel terreno fangoso, peggiorando la condizione delle sue scarpe. Quando si gira per incitarlo a seguirlo, lui scuote la testa, vigorosamente. "Non c'è bisogno, signore. Non-" farfuglia "Ho solo bisogno di fare una telefonata."
E Charles è quasi tentato di dire a suo padre di lasciar perdere, di non fare la persona per bene per una volta. Ma sa che sarebbe sbagliato –si rende conto, nel profondo, che anche se non ne hanno parlato, è successo qualcosa di molto brutto. Qualcosa che va oltre a qualsiasi tipo di rancore o rivalità.
È lui a dire a Max di salire.
La telefonata si rivela essere molto rapida, fatta tutta in una lingua aggressiva e gutturale che Charles non capisce. Lui se ne sta seduto su una delle poltrone attorno al tavolino aperto, ad osservare l'altro camminare avanti e indietro nello stretto corridoio, con le scarpe di tela gonfie di acqua che fanno un rumore appiccicaticcio sul pavimento. Per la maggior parte del tempo Max ha sul viso un'espressione contrita, non sa quanto per il dolore alla testa e quanto per il contenuto della conversazione. Quando la conclude ha di nuovo gli occhi lucidi e sembra molto più adulto dei suoi quattordici anni.
"Sta arrivando." dice, con una smorfia che vorrebbe somigliare ad un mezzo sorriso, e fa per aprire di nuovo il portellone. Sembra voler togliere il disturbo il prima possibile. "Grazie per il telefono."
Suo padre scuote la testa –le sopracciglia brizzolate si incontrano al centro della fronte.
"Non dire sciocchezze, Max" dice. "Aspettiamo con te."
"Non serve-"
"Non ti lascio qui da solo." Ribatte, ed il tono che usa è fermo e non ammette repliche. A volte Charles dimentica quanto suo padre sappia essere perentorio. "Charlot, perché non gli dai qualcosa di asciutto da mettersi addosso?" prosegue. "Il kit di primo soccorso è sotto al lavandino."
Non ha portato molte cose, nel suo borsone. C'è solo una maglietta pulita che non ha indossato –una bianca e rossa dell'AC Monaco che gli piace particolarmente- e non ha molta voglia di separarsene. Era stato un regalo di Jules, di una delle ultime volte che lui ed Enzo erano andati allo stadio e lui li aveva letteralmente pregati in ginocchio di portarlo con loro. Non l'aveva mai prestata a nessuno, nemmeno a Frances.
Rimane a fissarla per una ventina di secondi buona, prima di tirarla fuori e porgerla a Max, che se ne sta avvolto in un asciugamano di spugna, in piedi vicino all'uscita, come se stesse cercando di sparire.
"Puoi sederti" gli dice, in tono asciutto, più brusco di quanto avrebbe voluto. L'altro lo guarda con gli occhi sgranati, come se avesse detto un'assurdità.
"Sta arrivando mio padre."
Per come lo dice, sembra una spiegazione plausibile.
Charles scuote le spalle –come ti pare. Lo guarda sfilarsi la maglietta consunta, ed esporre il petto bianchissimo, quasi fosforescente. L'ombra violacea di un livido, sulla clavicola e alla base del collo, dal lato opposto a quello in cui la maglietta doveva essere stata tirata. Molte domande si affollano nella sua mente, ma ogni possibilità di risposta sparisce in fretta, nascosta dal tessuto morbido della sua maglietta, che calza su Max come un guanto.
Mentre si tampona i capelli umidi con l'asciugamano, Charles traffica con i cassetti sotto al lavandino alla ricerca della cassetta con alcol e garze, e quando le dita ne tastano il profilo rettangolare fa cenno all'altro di mettersi seduto. Questa volta Max fa come dice, senza replicare.
Non si parlano, mentre gli disinfetta la ferita sulla tempia con un batuffolo di cotone imbevuto d'alcol. Cerca di pulirla meglio che può, strofinando la cute tesa e abrasa con gesti circolari, e forse applica un po' più di pressione del necessario, ma Max tiene gli occhi chiusi, non sobbalza nemmeno. Charles è abbastanza certo che lo faccia per non dargli la soddisfazione di farsi vedere debole, per preservare quel seppur piccolo frammento di dignità che ha ancora intatto.
Gli alza il mento con due dita, per osservare il taglio sotto la luce delle lampadine –una volta ripulito dai grumi, appare piuttosto superficiale seppur doloroso. Il suono di un clacson lo distrae, per un attimo, e gli occhi di Max si spalancano, inquieti, quasi grigi. È qui, mima con la bocca. Salta su così in fretta che batte la testa contro il tetto basso.
"Aspettatemi qui." Dice Hervé, calcandosi il cappello in testa ed affacciandosi sul piccolo salottino. Dietro gli occhialetti rettangolari il suo sguardo è tremendamente serio, ed anche la sua voce è grave. "Devo fare quattro chiacchiere in privato con tuo padre, Max."
Un pensiero –troppo oscuro per essere vero, troppo calzante per non esserlo- inizia a farsi strada in Charles, a strisciargli dentro ed avviluppargli il cuore in una morsa crudele e dolorosa. E quando l'altro prova a divincolarsi per scendere dal camper, lo trattiene per un braccio, istintivamente.
No, no, no, no.
"Dov'è mio figlio, Leclerc? Dove si è andato a nascondere quel piccolo bugiardo?"
Le voci provengono dall'esterno attutite dal rumore scrosciante del temporale, ma i toni sono così accesi che la conversazione non è difficile da intuire. Hervé invita il padre di Max a calmarsi, ma anche lui sembra piuttosto alterato.
Il ragazzo era sconvolto. Un tonfo. Poi, un mormorio indistinto, poi: avrei dovuto chiamare la polizia.
Charles tiene la mano stretta sull'avambraccio di Max, bianco come un cencio, completamente assorto, ed ha la bizzarra sensazione di essere l'unica cosa che lo trattenga su questa Terra. Si porta un dito alle labbra, e lo trascina con sé in corrispondenza dei sedili anteriori, dove suo padre ha lasciato la portiera aperta. Ci si appoggiano direttamente con la schiena, per ascoltare la conversazione fra i due uomini senza essere visti.
"Cosa stai insinuando?" Chiede una voce.
"Non sto insinuando niente, Jos." Risponde l'altra. Charles risucchia il labbro inferiore fra i denti. Si possono contare sulle dita di una mano le volte che ha sentito suo padre usare un tono del genere. "Ha una ferita alla testa, era da solo in una stazione di servizio, sotto la pioggia, senza cellulare. Ha quattordici anni, per l'amor del cielo."
"Non sta a te decidere come devo educare mio figlio, Hervé. Chiaro?" commenta Jos. Dietro la sua voce composta e granitica, c'è una collera malcelata, qualcosa che ribolle. Max ha di nuovo la faccia nascosta dietro alle mani, Charles non deve nemmeno guardarlo per sapere che sta piangendo di nuovo.
C'è una breve pausa, carica di tensione.
"Non mi interessa dei tuoi metodi. Tu toccalo di nuovo con una mano, e ti prometto che non te lo faranno vedere mai più." Risponde suo padre, e poi c'è un suono secco, come lo schiocco di qualcosa che cade e si spezza.
Non ricorda molto di quello che succede dopo.
Certe volte Charles pensa a quel pomeriggio come ad un sogno. Uno di quelli oscuri e tortuosi come i sentieri di montagna, in cui è impossibile discernere cosa sia vero e cosa no, e che al mattino ti lasciano una patina difficile da scollarti di dosso.
Ricorda il volto tirato di suo padre, il modo strano in cui si reggeva la spalla sinistra con la mano. Ricorda lo sguardo vitreo di Jos, i suoi capelli biondi appiccicati dalla pioggia. Ricorda il ritmo strano con cui gli batteva il cuore nel petto. Tum-tu tum.
Ricorda la pioggia.
Ricorda, più di tutto, le ultime parole che Max gli aveva sussurrato all'orecchio, a volume appena udibile, prima di andare via, senza nemmeno fermarsi a sentire la sua risposta.
Non dirlo a Frances.
E, soprattutto, ricorda di aver pensato che, a prescindere dalla richiesta di Max, non sarebbe mai stato in grado di raccontare questa cosa a nessuno. Charles sa, dentro di sé, che questo segreto se lo porterà nella tomba. Che questa faccenda riguarda Max e Max soltanto, e che non spetta a lui mettere in mostra la sua parte più vulnerabile.
Quella notte, nella sua cameretta, fissa la pioggia battere a vento contro il vetro della finestra e pensa che le persone che a cui Frances vuole bene dovrebbero smettere di chiedergli di tenerla all'oscuro da tutte le cose che potrebbero ferirla. Poi si chiede se anche lui non vorrebbe proteggerla, ma non conosce la risposta, e cade in un sonno disturbato e senza sogni.
//Spazio autrice (sul serio questa volta)
Ecco qui. Il capitolo più lungo della storia, tutto insieme, uncut. Un po' mi tremano le mani.
Come ci eravamo detti all'inizio, purtroppo la struttura di Twin Flames non mi permette di tagliare i capitoli a mio piacimento, perciò ora vi beccate questo capitolo infinito che spero vi ripagherà per la lunga attesa.
Il capitolo sedici è uno dei tre capitoli fondamentali di questa storia e, com'era stato per il capitolo sette, ci dà modo di conoscere i nostri protagonisti più da vicino, nel profondo. Il capitolo sedici è Charles, ma è anche Max. E Frances. C'è un po' di ognuno di loro, in queste cinquemila parole. E c'è anche qualcosa di Hervé, che oggi avrebbe compiuto gli anni.
Sono talmente legata a questa canzone e a questa parte della storia, nello specifico, che se potessi continuerei a rimaneggiarla all'infinito pur di renderla perfetta. Ora la pubblico, però, così che sia anche vostra d'ora in poi.
Come sempre, grazie per aver letto, votato, commentato. Continuate a farlo, se vi va. Grazie per il supporto costante e per le vostre teorie strampalate. Sono tutta orecchie per i vostri feedback e scleri, anche su instagram dove mi trovate come @itstods_wattpad. Vi voglio bene, tanto tanto.
Vostra, T.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top