15 | Max-Il presente
2021, MCO
And I went through the door and I was expecting the fire
It was me coming home but you just changed your desire
I'm begging you, I'm begging you
Please leave me alone, leave me alone 'cause I'm tryin'
But you won't let me go
Della scuola a Max non era mai importato molto, ad essere sinceri. Se la cavava, la maggior parte delle volte, ma era distratto e poco interessato, e non poteva certo dire di essersi disperato quando aveva smesso di andarci. Non aveva molti ricordi legati alle lezioni private ch'erano venute dopo, ma ce n'era uno in particolare che continuava ciclicamente a tornargli in mente.
Uno dei professori che lo aveva aiutato a studiare per prendere il diploma, una volta, citando Hemingway gli aveva letto una poesia di un certo John Donne.
Nessun uomo è un'isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto.
Poi giù qualcosa sul senso di appartenenza, l'aiuto reciproco e la solidarietà fra gli uomini. Cazzate buoniste, se aveste chiesto a lui.
C'erano parecchie cose che Max aveva studiato e rimosso completamente un istante più tardi, ma anche a distanza di anni avrebbe saputo ripetere quei pochi versi senza batter ciglio. E non perché si fosse ritrovato in quelle parole, tutto il contrario.
Anzi, se avesse dovuto descriversi con una metafora, avrebbe trovato quella dell'isola davvero la più azzeccata, perché ha sempre creduto che a prescindere da quanti legami uno riesca a creare e di quante persone ci si riesca a circondare, ognuno è confinato dai limiti che si è creato. E nelle sue decisioni, è solo.
In linea di massima, Max è sempre stato piuttosto convinto che ci fossero ben più ragioni per considerare un uomo un'isola, che ragioni per non farlo.
Per lui era facile immaginarsi così –solitario, indipendente, distante e difficile da raggiungere.
Almeno finché qualcuno non ha iniziato a costruire dei ponti, un mattoncino alla volta.
*
Quando Max torna a casa, con gli occhi gonfi di pianto e lo stomaco in subbuglio, non c'è la musica dei cartoni animati del venerdì mattina e non c'è Penelope che corre ad abbracciarlo. La mancanza di questo –della quotidianità che ha faticato tanto per ottenere- gli scava un vuoto dentro, come un pugno al centro del petto. Sa di ansia e brutti presentimenti. Davanti alla porta d'ingresso, però, c'è Kelly nel suo bellissimo kimono azzurro con i capelli scompigliati, che gli punta un dito accusatore al petto e piange ed è tanto, tanto arrabbiata. Non l'ha mai vista così.
Gli occhi chiari sono arrossati, iniettati di sangue, le sopracciglia aggrottate e gli angoli delle labbra piegati all'ingiù in una smorfia sofferente. Preoccupazione, frustrazione e paura si avvicendano sul suo volto, si mescolano e si confondono fra loro mentre la bocca articola parole, domande ed accuse crudeli e avvelenate –che fine hai fatto e pensavo fossi morto e non puoi, non puoi farmi una cosa del genere, Max.
Lui batte le palpebre, disorientato, e la guarda come se non la riconoscesse davvero. Immobile, impassibile, senza cuore. Parti di lui confondono ancora la notte precedente –ciò che ricorda e ciò che non ricorda- col sogno, e non riescono ad arrendersi alla realtà dei fatti.
La verità è che, semplicemente, lei sta cercando risposte che Max non ha o che non può darle, quindi tanto vale non dirle niente, chiudere tutto a forza in un cassetto della mente e fare come se non fosse successo. È più facile di quanto sembri, appoggiarle le mani sulle spalle, dolcemente, e spostarla di lato. Imboccare il corridoio e chiudersi la porta del bagno alle spalle, senza una parola.
Lasciare la sua vita che va a rotoli fuori, e lavarsi la coscienza sotto l'acqua della doccia.
Max non è mai stato bravo a gestire i conflitti.
Quando infila di nuovo le chiavi nella toppa, la sera, dopo l'ultimo briefing, non tornano sull'argomento. Si parlano a stento, a dire il vero, e dormono dandosi la schiena ai margini del letto, quasi avessero paura di toccarsi per errore. Il sabato mattina Kelly lo sveglia alla solita ora, con un bacio sulle labbra ed un sorriso che non raggiunge gli occhi, e Max pensa con amarezza che ha rovinato anche lei, alla fine, come tutto quello che tocca.
Ed è una consapevolezza strana, a dire il vero, perché lo stupisce meno di quanto dovrebbe.
Dopo le prove libere, nel garage, conta i minuti che lo separano dalle qualifiche. Salire in macchina, fra le altre cose, lo aiuta a schiarirsi la mente, e premere il piede sull'acceleratore, fino in fondo, gli infonde una scarica di adrenalina senza paragoni. Si sente lucido, finalmente, come non lo era da giorni, e fino a che GP non lo informa della bandiera rossa, Max è abbastanza sicuro che riuscirà a strappare il giro migliore e a partire in pole. A risollevare questo schifo di weekend con una delle sue mosse rocambolesche, a cancellare tutti i casini che ha combinato e a levarsi quell'odore di dosso con una pioggia di champagne.
Ha solo bisogno di questo. Pochi decimi. Una singola cosa che vada nel verso giusto.
A pochi secondi dalla fine, Charles Leclerc –il principe rosso, il suo incubo personale- manda in pezzi tutte le sue speranze, assieme alla sua monoposto.
Max non è mai stato certo quanto in quel momento di odiarlo con ogni fibra del suo corpo.
"Non lo avrebbe mai fatto." dice, però, quando i media gli chiedono se l'altro abbia sbattuto volontariamente contro le barriere, alla Piscine. A prescindere dal fatto che questo inconveniente lo abbia penalizzato –è una ferita ancora fresca e brucia, non può negarlo- la domanda lo coglie alla sprovvista ed è difficile per Max rendersi conto che è stato proprio lui a parlare, guardando dritto in camera, e non uno qualunque degli amichetti di Charles.
Si morde l'interno della guancia fino a sentire in bocca il sapore del sangue, prima di proseguire, ma dall'esterno la sua espressione è tranquilla, quasi annoiata.
"Non è stupido e non è scorretto. A volte esagera, e ne paga le conseguenze. Lo facciamo tutti, no?"
Ed è vero. Monaco è stretta e tortuosa –una pista pensata per auto lunghe la metà e larghe due terzi, che serpeggia nel cuore del Principato accarezzandone le curve e le estremità, come il letto di un fiume di asfalto e bitume. È un circuito vecchia scuola e non è fatto per piloti come lui –come loro- che guidano disegnando traiettorie secche e impossibili, usando ogni mezzo e sfruttando ogni centimetro disponibile pur di portare a casa il risultato.
È uno stile di guida rischioso, non paga sempre, ma loro non hanno mai avuto davvero scelta. Hanno dovuto imparare a fidarsi solo del loro istinto e a spingersi oltre i loro limiti.
Non si batteva Frances Roux guidando pulito e entro le righe dell'asfalto.
Sarebbe ipocrita negare che il pensiero che l'altro pilota avesse barato gli avesse sfiorato la mente, ma riguardando le immagini nello schermo, dopo essere sceso dalla monoposto, Max aveva capito immediatamente cosa avrebbe voluto fare Charles. Aveva riconosciuto la linea con cui aveva preparato la curva tredici, per approcciarsi alla Piscine uscendo appena al ridosso delle barriere per recuperare un decimo e mezzo. Ambiziosa, forse un po' folle.
Era la stessa che aveva fregato lui. Due volte.
Percepisce distintamente la curiosità del giornalista –vorrebbe approfondire, indagare un po' più a fondo, strappargli qualcosa di controverso, probabilmente- ma lui stronca qualsiasi tentativo sul nascere, congedandosi con un sorriso tirato che gli assottiglia gli occhi in due fessure ma non lascia spazio a repliche. Ha già detto troppo.
Fa appena in tempo a girarsi sui tacchi e muovere due passi, prima di vedere l'altro incedere spedito verso di lui, con il cappello rosso calcato in testa e un'espressione corrucciata che non gli appartiene. Di male in peggio.
"Complimenti" gli viene fuori come un colpo di tosse, quando si incrociano. Non suona sarcastico. Solo brusco, sbrigativo, come se la bocca avesse articolato il primo pensiero che gli era venuto in mente, senza rifletterci più di tanto.
Charles lo guarda di sottecchi ed alza le sopracciglia, perplesso. Li separa non più di mezzo metro, e Max riesce a distinguere ogni piega e ogni neo sul viso dell'altro come se fosse il proprio. È la prima volta che fra loro c'è così poca distanza, dopo quello che è successo, e l'aria è carica di tensione, di impliciti e taciti accordi.
"Pensavo saresti venuto a cercare la mia testa."
Deve trattenersi per non alzare gli occhi al cielo.
Certo. Tipico di Charles. Credere di essere il centro dell'universo, il perno attorno a cui stelle e pianeti ruotano e la ragione per cui ogni cosa sulla Terra accade. Tutti lo chiamano destino, per Max sono sempre state solo manie di persecuzione.
"Lewis è settimo, importa poco chi parte in pole." Ribatte, scrollando le spalle. Le parole vengono fuori gracchianti, difficoltose, come se qualcosa gli ostruisse la gola e gli rendesse faticoso respirare.
Meglio te, che chiunque altro. Gli risuona nella testa, ma si guarda bene dal dirlo a voce alta, soffocato dal peso delle implicazioni che quella frase avrebbe.
Charles lo studia attentamente, con i suoi occhi screziati e cangianti, e Max si sente improvvisamente a disagio, esposto, come se l'altro potesse davvero leggergli nella mente.
"Non ci credi nemmeno tu, e lo sai." Dice alla fine, aprendosi in un sorriso costruito, per dissimulare. Tende un pugno in avanti, inclinando appena il busto, in un gesto amichevole che stona vistosamente con le sue parole. "Se fossi stato tu a sbattere-"
"Charles" lo interrompe lui, sbuffando. Per un attimo è pentito di non aver concesso al giornalista un po' più di tempo. "È solo una pole. Chissenefrega, letteralmente."
Poi lo imita, chinandosi leggermente, ma quando il suo pugno sta per scontrarsi con quello di Charles, l'altro gli si fa più vicino e parla con tono concitato, mangiandosi sillabe e finali, ad un volume talmente basso che Max a stento riesce a distinguere le parole.
"Non devi fare così solo per quello che è successo ieri, Max" gli dice, in un soffio, ed il modo in cui gli si rivolge –quasi fosse preoccupato per lui, quasi provasse un po' di pena- lo colpisce con la forza di uno schiaffo in pieno viso e lo fa arrossire fino alla punta delle orecchie.
Avrebbe dovuto aspettarsi che Charles non avrebbe lasciato stare, ma anzi avrebbe cercato di farsi forza delle sue debolezze, ritorcergliele contro. Si è già preso Frances. Non può prendersi anche questo. Non può.
"Ma qual è il tuo cazzo di problema?" gli sbraita in faccia, allontanandosi con una spallata. Non si gira nemmeno per ammirare l'espressione sbigottita che è riuscito a dipingere sul viso dell'altro. "Non ti accontenti mai, eh? Cosa vuoi che ti dica, che spero che tu non parta? Va' al diavolo, Charles. E guardati le spalle, piuttosto che lasciarti vincere Monaco mi schianto nel tuo posteriore."
La sera dopo il Gran Premio, la folla si disperde decongestionando le vie principali ed il bagliore di Monaco si attenua gradualmente, fino a spegnersi quasi del tutto. Da qualche parte –sugli yacht, nei locali e nelle esclusive terrazze sul molo- qualcuno festeggia per la sua vittoria, ma non Max.
Lui si muove nella notte come un'ombra, silenzioso e implacabile, col cappuccio della giacca tirato su per nascondergli il viso e le mani strette convulsamente attorno al pezzo di stoffa che porta in tasca. I suoi passi sono leggeri e sicuri sull'asfalto, conosce la strada.
Una volta arrivato a destinazione, Maurice, il portiere, lo fa entrare senza fare troppe storie anche se sono le due di notte e anche se lui non vive lì. A volte ha i suoi vantaggi avere un viso conosciuto, spinge le persone ad essere riservate, a non fare domande.
Maurice gli fa appena un cenno, invitandolo ad immettersi nell'androne. Nonostante i muscoli indolenziti e la testa pesante, Max non riesce a risolversi di prendere l'ascensore, così imbocca la prima rampa di scale di marmo, e inizia a salire.
Due file di plafoniere di cristallo emanano luce calda e ambrata, illuminando il pianerottolo compostamente e decorando i muri raffinati ed eleganti. Una coppia di targhe dorate indica la porta che stava cercando e Max deve trattenersi con tutte le sue forze per non tracciare con la punta dell'indice i nomi incisi sul metallo con grafia fine e arrotolata.
Qualcosa di profondo e nostalgico gli si agita nel petto, ma non saprebbe dargli un nome.
Non sa per quanto tempo resti in piedi sullo zerbino, di fronte alla porta, indeciso sul da farsi ed incapace di bussare, ma tentenna abbastanza perché la luce nel corridoio si spenga e debba riaccenderla due volte. Si sente un idiota.
Se tornasse a casa in questo stato, però, sarebbe peggio, e questa è l'unica consapevolezza che guida il suo dito sul campanello rotondo.
Max fa le cose sempre e solo quando non ha alcuna scelta.
Il silenzio che avvolge il palazzo è irreale, e viene spezzato solo da un vago rumore di passi che proviene dall'interno, al di là della porta, e dallo scatto veloce del chiavistello.
L'interno dell'appartamento è avvolto dalle tenebre, ed è la luce del pianerottolo ad illuminare il volto di Charles, segnato da ombre violacee e linee dure ed inquiete. Ha gli occhi vitrei e arrossati, lievemente appannati, e Max non ha alcun dubbio. Deve aver bevuto molto.
Un lampo di sorpresa li attraversa, quando vede Max, ma dura appena un istante. Poi il suo viso torna piatto, inespressivo.
"Disturbo?"
L'altro impiega una manciata di secondi a rispondergli e gli riserva un'occhiata gelida, che lo fa sentire ottuso ed indesiderato.
"Frances sta dormendo, domani lavora." Gli dice, telegrafico. La maniera in cui parla, muovendo a malapena la bocca, fa quasi paura. Max trasalisce a sentire il nome di lei –sempre prezioso, quasi un segreto-, pronunciato in quel modo duro e impersonale.
E, soprattutto, gli sembra curioso, quanto mai triste, che dopo più di dieci anni che si conoscono sia solo lei il punto di contatto fra loro due –la sola cosa che li accumuna, che li tenga vicini. La sola ragione per cui lui potrebbe trovarsi lì, fare questo.
"Non sono venuto per Frances, lo sai." Mormora, mordendosi la lingua troppo forte, fino a sentire in bocca il sapore caldo e rugginoso del sangue. Non è venuto nemmeno per Charles, in realtà. È venuto per il senso di colpa, per rimorso, per sé stesso. Perché una vittoria non è davvero una vittoria se non hai dovuto lottare per ottenerla. Se tutte le stelle si sono allineate a tuo favore e i tuoi rivali non hanno avuto chances. Non per lui, per lo meno.
Gli occhi di Charles, attraverso lo specchio, sono sofferenti e tormentati. C'è un'accusa, dentro, un'angoscia celata e ribollente.
"Allora puoi tornartene da dove sei venuto, perché io non ho niente da dirti." Gli risponde, distogliendo lo sguardo. Per un attimo ha il dubbio che stia trattenendo il pianto. "Non riesco nemmeno a guardarti, cazzo."
E Max sa che è per egoismo che lo sta facendo. Che questo serve a lui più di quanto non serva all'altro, ma non riesce a fare a meno di dire: "Io sì, però."
Il dolore sboccia sul viso di Charles come un fiore, violento e improvviso –sembra dirgli come osi?- e Max trova profondamente ingiusto il modo in cui la sofferenza si addica ai suoi lineamenti e lo calzi come un guanto, quasi fosse fatto per null'altro se non per essere ferito.
Gli lascia addosso un senso di irrisolto, gli confonde i pensieri e li intorbidisce. Non si è mai sentito così lontano da un altro essere umano.
"Va' a casa, Max." ripete l'altro, flebilmente, e suona come una preghiera.
Lui risucchia il labbro inferiore fra i denti, come un petalo, quasi per darsi coraggio. Ha lo sguardo basso, il cuore pesante, la testa affollata da tutte le cose che non ha mai avuto il coraggio di dire ad alta voce. Articola qualcosa di simile ad un per favore, e Charles fa una cosa che Max non avrebbe mai fatto –gliene deve dare atto. Scuote piano la testa, rassegnato, e lo fa entrare.
Nel buio perfetto della stanza sono le luci di Monaco a rischiarare l'ambiente e a dare un contorno ed una forma al divano, al tavolino basso e alla libreria. Sembra tutto così diverso dall'ultima volta che è stato lì –molto più cupo, austero. L'imponente vetrata al centro della parete ingloba il Principato come se fosse parte integrante della casa piuttosto che un semplice sfondo, è il suo cuore vivido e pulsante.
Urta il mobiletto all'ingresso con l'anca, e deve soffocare un gemito di dolore perché Charles lo fulmina con uno stt! e gli indica la veranda con un gesto secco del mento. Lo segue senza aggiungere altro, massaggiandosi il fianco. Gli sembra di andare al patibolo con una lista infinita di capi d'imputazione a suo carico.
Finché Charles non si chiude la porta scorrevole alle spalle nessuno dei due apre bocca, ed anche quando lo fa c'è una breve pausa, un istante di incertezza, in cui entrambi si chiedono come sia potuto succedergli di ritrovarsi nel cuore della notte in compagnia dell'altro. Alla fine è Charles a rompere il silenzio.
"Ti ascolto" biascica, incrociando le braccia al petto. Se ne sta appoggiato di schiena al muro, col mento sollevato con aria di sfida e la faccia contratta in un'espressione granitica. Deve essersi accorto del nervosismo di Max, ma non sembra avere la minima intenzione di fare qualcosa per metterlo a suo agio. Perché dovrebbe?
Lui si irrigidisce, di rimando, ma annuisce brevemente ed indietreggia fino a sentire la balaustra di marmo a contatto con la sua schiena. Lo spigolo è freddo, appuntito, e c'è una pausa così lunga che per un bel pezzo sembra che la conversazione si sia già conclusa.
Un refolo di vento gli scompiglia i capelli e disegna una tela di brividi sulla sua pelle.
"Non dovevo dirti quelle cose, Charles" mormora, abbassando lo sguardo. Cerca di mantenere il tono saldo, conciliante, anche se dentro il suo petto le emozioni ribollono impetuose. "Ero frustrato. Io- erano cazzate, lo sai, vero?"
Charles scrolla il capo. C'è qualcosa di sbagliato nel modo in cui la sua voce si crepa nei punti sbagliati, nel luccichio sinistro dei suoi occhi famelici. "Sembrava una cazzo di maledizione."
"Non puoi credere a queste stronzate."
Charles fa schioccare la lingua contro il palato, trattenendo a stento un risolino amaro.
"Ormai non mi stupisco più di niente, Max." dice, e la sua voce è gonfia di risentimento. "Me lo sentivo, per inciso, che non sarei partito. Non era possibile che stesse andando tutto così bene."
Ci risiamo. Pensa Max.
Sono sempre alle solite, con Charles. Lui ed il suo egocentrismo. Lui ed il suo martirio personale. Il suo vittimismo. Il suo autocompiacimento mascherato da dolore. Lo sciacallaggio delle sue stesse sofferenze, messe una in fila all'altra per potercisi nascondere meglio in mezzo. Sempre le stesse vecchie scuse.
Solo quando Charles gli mette le mani addosso, agguantandolo per la maglietta e spingendolo pericolosamente vicino al vuoto, Max si rende conto di aver pensato ad alta voce.
Le sue pupille si dilatano e le labbra le imitano, dischiudendosi in un urlo muto, di sorpresa. Nelle orecchie sente il fruscio del vento ed il rimbombo dei suoi battiti cardiaci. Basterebbe una spinta leggera, appena un colpetto, per finirla una volta per tutte.
Guardati le spalle.
Il petto di Charles si alza e si abbassa velocemente, come se stesse lottando con tutto sé stesso per non perdere il controllo, e le dita si arpionano al tessuto, deformandolo. Il suo volto angelico è trasfigurato dalla collera.
"Io e te siamo uguali, Max." dice. Il tono di voce è basso, ma denso di emozioni oscure e divampanti, così diverso da quello che aveva usato l'ultima volta che glielo aveva detto. "L'unica differenza fra di noi è che io non mi sono mai pentito di averti aiutato, quando ne ho avuto modo. Anche se non siamo mai stati amici non ho mai pensato che avremmo fatto meglio lasciarti lì da solo, quando tuo padre faceva il matto. E credevo davvero che tu meritassi di vincere, in Bahrein." Sta letteralmente tremando di rabbia. E Max trema con lui, con la schiena nel vuoto. "Cristo, chi credi che ti abbia portato a spalla fino a qui, venerdì? Chi credi ti abbia infilato due dita in gola? Io non- "
Nel silenzio, le mani di Max salgono lentamente fino ad avvolgere entrambi i polsi di Charles, e lo fanno dolcemente, senza applicare pressione, quasi come volesse tenerlo insieme, piuttosto che trattenerlo. Non l'ha mai visto così. Distrutto, annichilito, fuori fuoco. Due rivoli di lacrime gli scintillano sulle guance scavate, e non ha paura di farsi guardare dritto negli occhi.
Un'altra cosa di lui che Max non capirà mai.
Stanno l'uno di fronte all'altro, in equilibrio perfetto. Il vinto e il vincitore. I due lati della stessa medaglia, identici e imperfetti. Due sagome nere nella notte colorata da pennellate di luce soffusa.
Il silenzio, adesso, è rotto solo dall'ansare sincronizzato dei loro petti.
"Sono venuto a dirti che avevi ragione" dice Max, in un soffio, e suona come la verità. "Non a scusarmi, non a compatirti."
Con gli occhi gli chiede di fare un passo indietro, di concedergli centimetri preziosi per respirare, e Charles lo tira verso di sé prima di lasciare andare la presa.
"Se fossi partito, avresti vinto." Prosegue, dopo essersi rimesso in piedi, con le ginocchia che vacillano pericolosamente e minacciano di cedere. Osserva lo sguardo del ragazzo di fronte a lui farsi sempre più confuso. Max infila la mano nella tasca della giacca e ne tira fuori un quadrato di stoffa rossa, lisa e spiegazzata. "Sono venuto a darti questo."
Charles allunga le mani, a coppa, ed è un momento quasi liturgico.
Max si passa una mano sul petto, cercando di allisciare le pieghe, e percepisce distintamente la vita scorrere sotto le sue mani. Deve aspettare diversi minuti per smettere di tremare come una foglia nel vento. Poi si fa strada da solo verso l'uscita, senza una parola.
Alle sei e dieci, quando Frances si sveglia, trova Charles ancora sulla veranda, seduto con le ginocchia strette al petto ed un vecchio numero di gara stretto convulsamente fra le dita delle mani.
//Spazio autrice (scusate)
So che aspettavate questo capitolo da giorni, ma non avete idea di quanti dubbio io abbia avuto fino all'ultimo. Ho rimaneggiato quasi 4000 parole per una settimana in ogni istante libero (nel mentre scrivo una tesi di laurea!), cercando di esprimere a parole nel modo migliore una delle scene chiave di Twin Flames.
Spero di aver dato giustizia al confronto Max/Charles che tutte aspettavate da quindici capitoli. Non vedo l'ora di sapere cosa ne pensate. Mai più di oggi, ho bisogno di un feedback sincero: il prossimo capitolo sarà il numero 16.
Abbiamo finalmente un piccolo retroscena nelle debolezze di Max (il suo rapporto con Kelly, Brividi), e in quelle di Charles, sicuramente il personaggio più controverso di questa storia. Fragile e profodamente umano. Per la prima volta c'è poca Frances, ed è voluto.
Come credete che si evolveranno le cose? Riusciranno Charles e Max ad appianare le loro divergenze per prendere il meglio l'uno dall'altro?
Ci sono moltissimi indizi, sparsi qua e là, e riferimenti a cose che abbiamo già visto o che vedremo presto. I numeri tornano sempre.
Mi rimetto a voi, ed approfitto per chiedervi: state seguendo Sanremo? Le vostre canzoni preferite quali sono? (Trovate la playlist ufficiale di Twin Flames su Spotify!) Leggete, votate, commentate se vi va. Grazie come sempre a tutte.
Vostra sempre, T
T.
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