13| Frances- Il futuro
2027, MCO
Understand what I've become
It wasn't my design
And people everywhere think
Something better than I am
Nei primi anni della sua adolescenza, mentre i suoi coetanei pensavano alle loro prime cotte e alle partite a calcio con gli amici, l'unica cosa che Frances Roux aveva in mente era la vittoria.
Di giorno, con il casco calcato sulle trecce, e di notte, con gli occhi puntati al soffitto –che avesse gli occhi aperti o chiusi- sognava l'alloro e le coppe ed i fuochi d'artificio. Sognava le monoposto, le loro scocche scintillanti e le ruote scoperte, la bandiera a scacchi sventolata al suo passaggio, il suo corpo avvolto dal tricolore durante la Marsigliese, il suo sorriso bagnato dal sapore dolce e setoso dello Champagne.
Con impegno, dedizione, ed una spintarella dall'alto, lei –la figlia di nessuno, venuta dal niente, senza i mezzi e con a malapena i soldi per iscriversi alle competizioni-, avrebbe scalato le vette del Motorsport, sarebbe approdata in Formula Uno e sarebbe stata ricordata per sempre come la pilota più vincente di tutti i tempi.
Ed era un sogno quanto mai ambizioso, se ne rendeva conto, eppure era così lucido e dettagliato, nella sua mente, che aveva iniziato a somigliare sempre di più ad un progetto, così tanto che era arrivata perfino a credere l'impossibile possibile.
Lei stava di certo facendo tutto quello che era in suo potere per realizzarlo. E anche oltre.
Nell'anta interna del suo armadio –a proteggere il suo sogno da occhi indiscreti- c'era un vecchio poster sdrucito che aveva trovato all'officina di Pa' Roux, al quale si rivolgeva spesso, con timore quasi religioso, per chiedere consiglio. In quegli anni Gilles Villeneuve, giovanissimo e vestito di rosso, somigliava incredibilmente a Gesù Cristo, ai suoi occhi.
S'era convinta che riuscisse perfino a compiere dei miracoli.
O forse era solo lei a voler credere che ne fosse capace –perché un miracolo era l'unica cosa che avrebbe potuto aiutarla, anche se lei ignorava la realtà dei fatti con cieca ostinazione, e perseverava nella sua illusione, sognando sempre più in grande.
A quattordici o quindici anni, poco prima che tutta la sua vita iniziasse a cadere a pezzi, Frances sapeva benissimo a cosa avrebbe dovuto rinunciare per diventare chi voleva essere, ma l'idea di avere davanti una strada impervia, lunga e solitaria, non la spaventava. Era stata ingenua, ma lo aveva fatto per le ragioni giuste. Voleva arrivare in cima per sé stessa, in minima parte, e per la sua famiglia, soprattutto. Per le persone che le volevano bene.
C'è un episodio specifico che negli ultimi tempi continua a tornarle in mente, quasi la tormenta. È settembre. La notte prima di una gara importante, lei e Charles se ne stanno stesi su due brandine affiancate, nella casa in campagna di un amico di famiglia, nel cuore delle Ardenne. Fa molto caldo e le reti scricchiolano e non si respira. Hanno da poco fatto pace dopo un brutto litigio, e Frances vuole far capire all'altro che ha davvero seppellito l'ascia di guerra, così si lascia andare ad una confidenza.
Lì per lì lo fa con leggerezza –non perché non sia una cosa importante, ma perché non è consapevole delle ripercussioni che questa cosa avrà su di lei, su entrambi. Nell'oscurità della notte, incrocia gli occhi vispi di Charles che la scrutano aperti e curiosi, ed ha l'ulteriore conferma di potersi fidare di lui. Così, per la prima volta, dice a voce alta quello che ha per anni coltivato unicamente nel suo cuore. Condivide il sogno. Lo fa un po' più grande, per fargli spazio.
Gli dice un giorno sarò una pilota di Formula Uno, e non dovremo mai più elemosinare un posto in cui dormire. Un giorno guadagnerò così tanti soldi che potremo permetterci le migliori suite d'albergo e il servizio in camera e perfino una signora che ci rifà i bagagli prima di andare via.
Anche io sarò un pilota. Le risponde lui. Saremo compagni di squadra. E la Ferrari non avrà mai visto una coppia migliore di noi.
E tutti si ricorderanno il nostro nome. Aggiunge lei, allora, sistemandosi meglio sotto al lenzuolo leggero.
Anche a distanza di anni, ricorda benissimo la sensazione di sollievo che aveva provato in quel momento, come se le parole di lui avessero dato corpo ad un'idea fino ad allora troppo lontana, quasi impalpabile. Ora che l'avevano condivisa, sembrava davvero reale.
Il Charles nella sua testa ha i capelli lunghissimi e il sorriso innocente, ma ha sempre gli stessi occhi.
Gialli come quelli dei gatti, fra le ombre della sera.
E tutti si ricorderanno il nostro nome. Concorda.
Almeno uno dei due ci era riuscito.
*
Dopo poco, inizia a piovere.
È una pioggia leggera, però, inutile. Una di quelle piogge silenziose, che bagna senza fare rumore e lascia tracce umide sul pavimento anche se non si vede.
Ha un odore inconfondibile. Somiglia alla nostalgia che la infesta dall'interno dal giorno in cui ha perso tutto.
Mentre gli ombrelli si aprono, fuori dal Cafè de Paris, Frances rimesta col cucchiaino nel suo thè già freddo e guarda l'acqua torbida formare mulinelli, facendo riemergere silenziosamente piccoli frammenti di scorza di limone. Le viene in mente un pensiero cupo e rassicurante al tempo stesso. Pensa che per quanto uno sia bravo a nascondere e nascondersi, tutto torna a galla, prima o poi. Anche questo. Anche loro.
"Vuoi fare una pausa?" le chiede Max. La sua voce è tesa, ma senza inflessione.
Effettivamente sono diversi minuti che non dice assolutamente niente. Non si era resa conto di essersi addentrata tanto a lungo nel labirinto dei suoi pensieri.
Frances scuote la testa.
"No" dice, cauta. Tiene lo sguardo basso, ma si sente in dovere di riempire il silenzio con parole di scuse, vuote e mutevoli come i suoi occhi. "Mi dispiace" aggiunge "è che mi perdo spesso, quando ripenso a quel periodo. Non riesco sempre a mettere tutto a fuoco chiaramente. Certe volte è come se fosse la vita di qualcun altro, hai presente?"
Max alza un angolo delle labbra, ma non è davvero un sorriso.
"Sì."
Frances non accenna a muoversi, prima di ricominciare a parlare, e lascia che lo sciabordio dell'acqua nella tazza faccia da sottofondo alla registrazione. Un po' le ricorda le onde Golfo di Monaco, coi suoi riflessi verdi e azzurri, un po' la pioggia scrosciante di Suzuka, e le sue gocce acuminate e taglienti.
Il passato e il futuro. L'inizio e la fine, mescolati in un ciclo infinito.
"Quando eravamo piccoli, io e Charles eravamo inseparabili. Anche quando competevamo l'uno contro l'altra, fuori dalla pista ero sempre dalla sua parte. Non sopportavo di saperlo triste o deluso da sé stesso." Sulle labbra le si tratteggia l'ombra di un sorriso, al solo pensiero. "Ci eravamo stretti le mani, una volta, all'inizio di tutto. Credo che per me significasse qualcosa di vero, di importante. Come se gli avessi promesso che avrei avuto le sue spalle, fino alla fine."
Quando alza gli occhi, Frances percepisce distintamente che Max vorrebbe dire qualcosa ma si sta trattenendo, come se avesse paura di scoperchiare un dolore troppo grande da sopportare. Ma, in fondo, sono lì per quello. Per cavarsi il male da dentro e ricominciare a vivere.
E lei vorrebbe dirglielo. Vorrebbe dirgli che ormai, dopo tutto questo tempo –dopo tutte le cose orribili che sono successe, che si sono fatti- non serve a niente fare attenzione, maneggiarsi con i guanti. Non c'è più niente da salvare.
Ma non sono più gli stessi di un tempo –sono cambiati, e tanto.
Max ha paura, adesso.
E Frances è senza sogni.
Proprio lei, che ne aveva custodito per anni uno così grande che faceva paura solo a dirlo ad alta voce.
Lascia cadere il cucchiaino nella tazza e percepisce l'impulso improvviso e violento di infilare la mano nella tasca del cappotto e tirare fuori il cimelio spiegazzato che ha recuperato dal suo vecchio appartamento, ma si costringe a ricacciarlo indietro.
Non è il momento, si dice. Non è ancora il momento.
Sono giorni –mesi- che pianifica questo incontro. Ha passato in rassegna ogni avvenimento degli ultimi venticinque anni per prepararsi, per essere pronta ad ogni evenienza. Eppure guardando negli occhi impossibilmente blu di Max, vede il riflesso della persona che era e per la prima volta non sente odio, né rancore. Solo una strana tristezza di fondo, la mancanza di ciò che avevano e ciò che hanno perso.
Così, esce dal tracciato e dice una cosa che nessuno dei due, evidentemente, si aspetta.
"Te lo ricordi?" sussurra, a bruciapelo. "Il giorno in cui ci siamo conosciuti?"
E prima che lui apra bocca, conosce già la risposta.
"Non potrei dimenticarlo nemmeno se lo volessi" dice Max, senza fermarsi a pensare neppure un istante. "E non sai quante volte ho provato a farlo."
Il labbro superiore gli trema leggermente, e la mano buona va a coprire l'altra, istintivamente.
C'è stato un tempo in cui Frances riusciva a leggere Max senza alcuna difficoltà, senza bisogno di spiegazioni, mentre adesso le sue cicatrici –le sue rughe, i suoi silenzi- le sono estranei, come se lui pensasse, vivesse e soffrisse in una lingua che lei non conosce.
Alcune cose non sono cambiate, però. Non è ancora sceso a patti con le sue debolezze.
"Mi sarei buttata in mezzo ai lupi, per lui." Prosegue, senza interrompere il contatto visivo. "In un certo senso, l'ho fatto."
La tensione che ne scaturisce è palpabile. Si diffonde nel locale come una nebbiolina sottile e si fa sempre più densa, corposa, quasi soffocante. È nell'aria e sulle superfici, e dentro al suo petto, nella gola.
"Io sono il lupo?" chiede Max, quasi in un sussurro. Il suo pomo d'Adamo si abbassa, lentamente, per poi risalire.
Frances fissa il tasto rosso sul registratore, mentre l'ansia inizia a montarle nel petto. Fermati. Pensa. Interrompi adesso. Adesso, finché sei in tempo.
Ma la voce della sua coscienza è così flebile, paragonata a quella della sua disperazione. L'ha messa a tacere per troppo tempo.
Afferra il tovagliolo di stoffa ricamato che ha davanti, e ne traccia i bordi con la punta delle dita, per tenere occupate le mani.
"Ti ricordi, cosa è successo, dopo che siamo stati squalificati?" incalza. "Cosa ci siamo detti?"
Lei se lo ricorda benissimo, anche se sono passati quasi vent'anni.
Ricorda il ragazzino olandese, con un pantaloncino di jeans e una maglietta a maniche corte troppo lunga, bighellonare nello spiazzo brullo dietro ai furgoni –calciare i sassi, scavare righe nella terra con la punta della scarpa. L'aveva beccato più di una volta a fissarla, a distanza di sicurezza, e a studiarne i movimenti con cautela, come si fa allo zoo con gli animali pericolosi.
Lei era arrabbiata, ovviamente. Pa' Roux era stato piuttosto severo nell'ammonirla, mentre uscivano dalla tenda dei commissari, e le sue guance si erano imporporate per la frustrazione. Era stato proprio lui, tempo addietro, ad insegnarle a picchiare duro –perché nessuno ti rispetterà se pensa che tu sia debole, Fanny- ed ora, ora che si era fatta rispettare a suon di pugni, improvvisamente non andava bene.
Era stata una sorpresa ritrovarsi il ragazzino che aveva mandato a tappeto poco prima a due passi di distanza, con le mani nelle tasche, che la guardava con insistenza e senza la minima vergogna.
"Cosa?" era sbottata.
Lui aveva fatto un passo indietro, ma non sembrava intimorito. Il sopracciglio biondo era rammendato con due punti di fortuna e c'era un grumo di sangue scuro rappreso appena sopra all'occhio. Non aveva un bell'aspetto.
"È tuo padre, quello?" le aveva chiesto, indicando Pa' che chiudeva lo sportello del bagagliaio con forza, alle sue spalle.
Frances aveva scosso la testa, allontanandosi i capelli sfuggiti all'elastico dal viso. Aveva detto "Io non ho un padre."
Gli occhi blu di Max si erano spalancati per la sorpresa.
"Nemmeno io" aveva risposto.
Lei non sapeva perché lui le avesse mentito –dai commissari Max era venuto accompagnato da Jos Verstappen, temuto attaccabrighe, che non la smetteva di ripetere mio figlio di qui e mio figlio di lì- ma ne era stata immediatamente incuriosita.
Si era chiesta cosa potesse spingere un ragazzino di tredici anni a fare finta di non avere un padre. A desiderare di non averlo.
"Hai chiesto scusa al ragazzo, Fanny?"
Si era voltata verso Pa' Roux, che se ne stava lì, in mezzo al campo, con le mani sui fianchi e il berretto calcato sui capelli bianchissimi. Aveva alzato gli occhi al cielo e gli aveva indirizzato uno sguardo eloquente, come a dire sei serio?
Lui aveva fatto un gesto con il mento, e lei aveva borbottato qualche parola di scuse, poco convinta, con le braccia incrociate strette al petto. Max l'aveva guardata impassibile, senza battere ciglio, finché il nonno non si era allontanato dirigendosi con passo ondeggiante verso la pista, lasciandoli soli.
Frances si era lasciata cadere sul terreno, facendo salire uno sbuffo di polvere. Max l'aveva imitata senza nemmeno chiederle il permesso.
"Ho mentito" aveva detto lei, allora. Mento in alto, fiera e sostenuta. Quasi cattiva. "Non mi dispiace neanche un po' di averti dato quel pugno. Anzi, forse mi dispiace di non avertene dati due."
E Max- Max aveva sorriso, con quel suo apparecchio luminescente e gli occhi strizzati in due fessure. Aveva detto "Me lo meritavo." E l'aveva lasciata senza parole.
Ma Frances non aveva alcuna intenzione di dargliela vinta. Aveva giocherellato con un'erbaccia, l'aveva sradicata e lanciata più avanti. Tutto, pur di non incrociare quegli occhi azzurri.
"Charles lo devi lasciare stare" aveva aggiunto. "Se te la devi prendere con qualcuno, prenditela con me. Io non mi faccio niente."
Lo pensava, anche se non era vero. E dal modo in cui l'aveva guardata, anche Max lo aveva capito.
"Cos'ha fatto di tanto speciale per non doversi difendere da solo?"
"Charles è mio amico." Aveva risposto lei. E le era costato, allora, pronunciare quelle parole.
Non ricorda cosa si erano detti, dopo, -anche se darebbe qualsiasi cosa per tornare indietro nel tempo e rivivere quel momento- ma ricorda chiaramente di aver pensato che lui non fosse così male, che fosse semplicemente un po' rotto, come lei, e che avesse difficoltà a far combaciare i pezzi.
Quando lo guarda adesso, è certa di aver avuto l'impressione giusta.
"Me lo ricordo" dice Max. La voce è salda –perfino misurata, per i suoi standard- ma i suoi occhi hanno dentro ancora quel barlume tremolante, inespresso, irrisolto. Fa un gesto con la mano, a mezz'aria. "Lascialo stare, prenditela con me."
Frances preme le labbra in una linea dritta e severa.
"Sono sempre stata io il lupo, Max."
//Spazio autrice (finalmente qui tra voi)
Un saluto calorosissimo a tutte le lettrici notturne che si beccheranno questo capitolo pieno di spilli prima di andare a dormire e buongiornissimo un caffè a quelle che se lo ritroveranno da leggere domattina, appena sveglie.
Sono tornata nel 2022 con i miei fantastici aggiornamenti notturni, un capitolo che devia completamente dal progetto originario e, ovviamente, la testa piena di idee su come stravolgere tutto.
Il progetto di Twin Flames è lungo e tortuoso, ma mi stimola tantissimo perché mi permette di esplorare molti temi diversi e di provare registri diversi, in base all'età e al personaggio in questione. Per la prima volta, in un capitolo del futuro, vediamo un pezzo di passato, uno di quelli che già conoscevamo. Max e Frances diventano amici, e anche se nel 2027 non lo sono più qualcosa di questo legame rimane.
Charles stima e odia Frances, Max è da sempre innamorato di lei. Eppure, paradossalmente, Frances è quella di cui sappiamo meno. Con questo capitolo abbiamo la risposta ad un po' di domande, e apriamo le porte a nuove interpretazioni. I prossimi capitoli saranno cruciali per capire cosa fare con le informazioni raccolte fino ad ora.
Grazie, grazie, grazie per tutto il supporto. Leggete, votate, commentate se vi va. Mi trovate qui, o su instagram con il nome di @itstods_wattpad. Lì svariono spesso negli amici stretti, se vi va di passare.
Buon 2022,
Vostra T.
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