A PRIMA VISTA...ASPETTA, MI PULISCO GLI OCCHIALI parte 1
A PRIMA VISTA...ASPETTA MI PULISCO GLI OCCHIALI I
Io e mia madre viaggiavamo verso l'aeroporto con i finestrini abbassati. A Phoenix c'erano venticinque gradi, il cielo era blu, terso e perfetto. Mancavano solamente gli uccellini svolazzanti, pronti a defecare sulla nostra auto ma il panorama era comunque quello tranquillo di sempre.
Indossavo la mia camicetta preferita, senza maniche, di sangallo, l'unica superstite di una sfortunata e onorevole stirpe di camice bianche di sangallo, schiatta deceduta tragicamente dopo un infausto lavaggio in lavatrice, opera di mia madre, con capi colorati. Indossavo quel capo come un gesto di addio. A meno che il buco dell'ozono non avesse deciso di alterare il clima dell'ecosistema della mia futura destinazione, avrei cambiato il mio look, sostituendo la mia adorata camicia di sangallo con una giacca a vento ed una canotta della salute. Non avevo mai indossato biancheria del genere ma, laddove mi recavo, dovevo usare prudenza.
Nella penisola d'Olympia, nel nordovest dello Stato di Washington, nascosta da una perenne coltre di nuvole, esiste la cittadina di Forks. E'una cittadina anonima, così insignificante che parecchi americani del posto non sono nemmeno convinti della sua esistenza. L'unico elemento di spicco è dato dal record del numero di giorni piovosi all'anno di tutti gli Stati Uniti, un trofeo imbattuto fin da quando il tacchino ha messo piede in America. Da questo luogo, posto praticamente in culo al Mondo, fuggì mia madre, portandosi dietro la sottoscritta quando ero ancora un esserino piangente, legato simbioticamente al pannolino e alla poppata ogni quattro ore.
Renée non aveva voluto saperne mezza di ritornare in quel buco ma il caso voleva che avessi un padre che invece non disprezzava molto il suddetto posto. Così, non potendo duplicarmi, non mi rimase altro che passare l'estate in compagnia di Charlie. Si trattava, in realtà, di un mese ma era comunque una noia. Quattordici mesi di rotture di coglioni con la pesca come unico svago ed un'umidità che mi avrebbe sicuramente ucciso, se avessi sofferto di reumatismi.
A quattordici anni, però, riuscii a impormi e così, Charlie, dovette prendere il coraggio a due mani, salire sull'aereo e dire addio alle montagne di Forks per venire a passare due settimane con me in California.
Ora però, dopo tre anni di pacchia, stavo per tornare nel suddetto buco in culo al mondo e non proprio perché ne sentissi la mancanza...ma manco per scherzo. Detestavo Forks.
Amavo Phoenix. Amavo il sole ed il caldo soffocante, anche se sudavo come un formaggio in estate e non prendevo la tintarella nemmeno in sogno. Amavo quella città energica e caotica...e quindi, vi chiederete: chi accidenti te lo fa fare di andare in quel posto sperduto, dimenticato da Dio?
- Bella- mi ripetè mia madre un'ultima volta, forse la millesima, mentre stavo per salire sull'aereo- non sei obbligata.-
A quella voce mi riscossi dalle mie funeree considerazioni.
Mia madre mi somiglia, a parte i capelli corti e le rughe. Mentre fissavo i suoi occhioni grandi, simili a quelli di un cucciolo che sta per essere centrato da un tir sull'autostrada, mi prese il panico. Come potevo abbandonare mia madre, così tenera, sventata, imprevedibile, e costringerla ad arrangiarsi da sé? Da che avessi memoria, Renée era una pessima casalinga, capace di collezionare disastri con la sola forza del pensiero. Quante possibilità esistevano per me di ritrovare la mia dimora di Phoenix, una volta concluso il soggiorno a Forks? Non volevo nemmeno immaginarlo. L'unica rassicurazione, forse, era rappresentata dal fortunatissimo matrimonio che la mamma aveva combinato con un certo Phil Dwyers.
Era stata una manna dal Cielo. Per me significava bollette pagate, frigo pieno, benzina nel serbatoio, qualcuno a cui chiedere aiuto se la mamma si fosse persa. Per Renée, bhé, tutte queste cose...più qualcos'altro a cui sinceramente non voglio pensarci. Mio Dio, stavo per lasciare i miei averi a quella squinternata...ed il bello è che non capisco come abbia fatto ad ottenere il mio affidamento dal giudice.
- Ci voglio andare - mentii. Non ero brava a dire le bugie ma avevo ripetuto quella frase un tale numero di volte che ormai ci credevo pure io. Forse.
- Salutami Charlie- disse.
-Certo- risposi.
-Ci vediamo presto- insistette- Puoi tornare quando vuoi. Se hai bisogno di me, vengo a prenderti.-
Quella frase mi fece vacillare un po'. Se credevo di essere diventata una mentitrice da premio Oscar, ora avevo la conferma che la mia era una pia illusione. Lì per lì, vedendo quell'appiglio, ebbi la tentazione di aggrapparmici, come la cozza allo scoglio...ma subito mi tirai indietro, sentendo nella voce di Renée il sacrificio. No, non potevo farle questo. Se avessi dato retta al mio cuore, e solo il Cielo sapeva quanto avrei voluto, sarei rimasta alle calcagna di mia madre che avrebbe dovuto rassegnarsi ad una relazione a distanza con Phil. Già, il mio patrigno era un giocatore di baseball, spesso in trasferta. La mamma aveva accarezzato più volte l'idea di seguirlo...ma io facevo da zavorra, mandando in vacca tutti i suoi sogni rosa confetto. Non potevo essere così carogna da castrare ogni sua possibile relazione, anche perché, di tutti i partner avuti fino a quel momento, l'atletico Phil pareva essere l'unico capace di reggere i ritmi infernali della donna che mi aveva partorito, senza andare da uno strizzacervelli. Non ci volevo nemmeno pensare. -Non preoccuparti per me- tagliai corto- andrà benone. Ti voglio bene, mamma.-
Non so se le mie parole l'avessero commossa, o fosse colpa degli ormoni...sta di fatto che Renée mi stritolò in un abbraccio da boa constrictor per qualche minuto. Lì per lì, venni presa dalla commozione. Era proprio vero. L'amore materno faceva miracoli impensabili.
Per quanto fosse svitata, Renée, sotto sotto, mi amava profondamente.
Salii così le scale e, presa da un moto di nostalgia, mi girai indietro...ma Renée non c'era più e nemmeno la macchina con cui mi aveva portato all'areoporto. -Amore materno un cazzo.- sbottai, prima di entrare dentro.
Forse non dovevo prendermela con Renée. Per quanto la nuvoletta rosa su cui galleggiava, dopo aver conosciuto Phil, mi facesse venire seri dubbi sulla sua sanità mentale, dovevo ammettere che arrivare a destinazione era lungo e contorto.
Prego, seguite il mio ragionamento e pensate che siamo in America. Per raggiungere Seattle da Phoenix ci vogliono quattro ore, poi da lì, occorre prendere un piccolo aeroplano che si tiene su per qualche miracolo divino, tanto è vecchio e traballante. Per fortuna, la seconda parte del tragitto dura solo un'ora ma vi garantisco che ho perso dieci anni di vita in quei terrificanti sessanta minuti passati dentro quel coso che trillava perennemente. In seguito, mi toccava un'ora d'auto e poi, udite, udite, ero giunta a destinazione...un gran casino comunque per arrivarci.
La parte più preoccupante, però, non era il volo su quel velivolo preistorico ma il viaggio in macchina insieme a Charlie.
Mio padre si comportò davvero bene dal primo all'ultimo istante...e mi sentii una merda. Sembrava fargli sinceramente piacere che, per la prima volta, andassi a vivere con lui con l'intenzione di rimanerci per un po', senza che avessi la faccia di chi ha scoperto di aver ingoiato un topo morto per sbaglio. Non doveva aver dimenticato le mie espressioni funeree del passato, che sfoggiavo in sua presenza, manco andassi a farmi un'endoscopia a secco. Aveva comunque preso i provvedimenti, facendo uso del metodo del bastone e della carota: mi aveva già iscritto, a mia insaputa, ad una scuola (il bastone), e mi aveva promesso di procurarmi un'auto tutta per me (la carota). Confesso senza vergogna che l'ultima parte dell'accordo mi fece sembrare la mia grigia situazione molto meno schifosa.
Ero comunque sicura che tra di noi ci sarebbe dell'imbarazzo. Nessuno dei due era un tipo logorroico...quel trono spettava a Renée...ed era un bene che quella pericolosa abitudine di aprire bocca a sproposito non facesse parte dei nostri geni. Non riuscivo a immaginarmi di cosa avrei potuto parlare con lui, viste le premesse. Charlie era un'anima semplice ma anche così, non gli era sfuggita l'astrusità della mia decisione scioccante di piombare nella sua vita di scapolo, scombinandogli tutto per non rovinare quella di Renée: come mia madre, infatti, nemmeno io avevo nascosto che avrei preferito andare al liceo di Phoenix senza veli, piuttosto che ritirarmi a marcire in quel buco di posto.
Forse le promesse dipendevano da quel mio anatema...mio padre voleva comprare i miei favori con un'auto. Per quanto continuassi a sentirmi una merda per aver mentalmente insultato la cittadina ad ogni pié sospinto, dovevo riconoscere che Charlie era un brav'uomo...oppure un gran ruffiano. Comunque la macchina me la prendo lo stesso mi dissi, giusto per darmi un tono.
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