9. Sono ancora sposato con lei
«Carina la nuova ragazza» mi dice Pete mentre fumiamo l'ultima sigaretta della giornata – o la prima del nuovo giorno, visto che è ormai mattino – nel terrazzino del suo appartamento, anzi nostro.
«Non fosse per il carattere di merda...»
«Ah sì? A prima occhiata non sembra male».
«Invece è una stronza piena di sé che, tra l'altro, non è nemmeno in grado di stamparsi in faccia un cazzo di sorriso».
«Forse perché l'hai maltrattata per tutta la serata?» chiede Pete alzando un sopracciglio.
«E tu come fai a saperlo? Comunque, non l'ho maltrattata, le ho solo fatto vedere il peggio del nostro lavoro, ci sono anche andato piano».
«Non è quello che mi ha detto Callie».
«Beh, i bagni vanno lavati, lo faccio io e anche Callie durante i turni, così come i tavoli e gli scaffali. Se non le piace è libera di trovarsi un altro cazzo di lavoro. E chiudiamo qui il discorso!»
«Piano, tigre, non sapevo di toccare un punto debole».
Spengo il mozzicone della sigaretta nel posacenere con un po' più forza del dovuto mentre guardo accigliato il mio coinquilino, poi me ne vado in bagno. Ancora non mi sembra vero di poter fare la doccia in una vera doccia, in un vero bagno, senza via vai di gente. Alla fine ho preferito aiutare sin da subito Pete con l'affitto, mettendo mano ai pochi soldi che ero riuscito a risparmiare da quando lavoro al pub, quindi ora sono al verde. Il lato positivo di abitare insieme a Pete? Oltre al fatto di vivere in un appartamento come si deve, anche quello che finché lavoro solo nei weekend ho un passaggio gratis al locale.
Sono ormai le cinque del mattino quando riesco finalmente a toccare il mio nuovo ed enorme letto matrimoniale, che è un semplice queen size, ma in confronto a quello del dormitorio – dal quale mi rimanevano fuori i piedi – è una manna dal cielo.
Mi sveglio con un rumore proveniente dalla cucina, così mi alzo, faccio un salto in bagno e vado a controllare cosa sta succedendo. La mia camera è quella adiacente alla cucina, e per quanto questo appartamento sia il meglio del meglio in questo momento per me, ha delle cazzo di pareti fatte di carta. Non voglio nemmeno immaginare come sarà la prima volta che Pete porterà qui qualcuna. Mi siedo sullo sgabello davanti all'isola e guardo il mio coinquilino che sta tirando fuori qualcosa dal forno, con tanto di grembiule e guanto da forno.
«Non ti facevo anche cuoca...»
«Merda!» impreca posando la teglia sul bancone dopo aver fatto un salto dovuto alla mia entrata in scena. «Non prendere mai alla sprovvista qualcuno munito di teglia bollente. E, per tua informazione,» continua togliendosi il guanto da forno e puntandomelo contro, «i migliori cuochi al mondo sono tutti uomini».
«Buono a sapersi, però lo stesso non credevo fossi in grado di cucinare. Io forse riuscirei a preparare un uovo senza bruciarlo, ma non ci giurerei».
«Adoro preparare dolci» mi confessa mentre posiziona i waffle appena sfornati sui due piatti già pronti sull'isola. «Avrei voluto fare il pasticcere, sai?»
«Ah sì? E come sei finito a fare il meccanico e il buttafuori?»
«La vita, Dom, la vita di merda. Ma non ho mica rinunciato a tutti i miei sogni, prima o poi ce la farò ad aprire la mia pasticceria».
«Ora però sono curioso, io ti ho raccontato i casini che mi hanno fatto finire qui, tocca a te raccontarmi i tuoi».
È da quando lo conosco che mi chiedo come possa uno come Pete – in gamba, allegro e festaiolo – a finire nella fottuta Minnesota. Insomma, non si finisce qui per caso, a meno che non hai la sfortuna di nascere da queste parti, ma so che Pete è canadese, lo dimostra bene anche il suo accento piuttosto marcato.
«Storia lunga...»
Fingo di guardare l'ora. «Ma guarda, ho tutto il giorno libero... che fortuna!»
«Scemo! Però hai ragione, abitiamo insieme, è giusto che tu conosca il mio passato».
«Esatto! Come faccio a sapere che non sei un serial killer che non vede l'ora di accoltellarmi nel sonno?»
«Preferisco le armi da fuoco. Se fossi un serial killer, naturalmente...»
«Ecco, appunto!»
«Non sono un serial killer, Dom, proprio per niente. Sono nato a Winnipeg, in una famiglia molto modesta, non abbiamo mai navigato nell'oro – a differenza di qualcuno che conosco! – ma ce la siamo sempre cavata, però aspiravo ad avere di più, a potermi distinguere dalla lunga stirpe di operai sottopagati da cui provengo. Poi ho combinato il mio casino, che forse è peggio del tuo: ho sposato la mia prima ragazza subito dopo il diploma».
Pete fa una pausa per godersi la mia espressione sbigottita. Mi restituisce un sorriso, pur mostrandomi la sua tristezza attraverso gli occhi.
«Avevamo questo progetto di venire insieme negli States e frequentare lo stesso college. Avevamo tutto un progetto di vita e, credimi, a diciotto anni sembrava la cosa giusta da fare. Ero innamorato perso di quella stronza».
«Quindi hai divorziato e sei scappato qui?»
«Non proprio... ecco, sono ancora sposato con lei. E, per fartela molto breve, sono scappato qui quando mi ha detto di essere incinta».
Spalanco gli occhi ancora di più e credo Pete riesca a leggere il disappunto sul mio viso. Ha abbandonato sua moglie incinta? Cazzo, è peggio di quello stronzo del mio donatore di sperma, almeno lui non era sposato con mia madre quando se l'è data a gambe. Non riesco a guardarlo negli occhi, non ora e non so se dopo questa rivelazione sarò mai in grado di guardarlo come prima. Non sopporto i codardi che non si prendono le proprie responsabilità.
«Prima di incenerirmi con quello sguardo assassino, il bambino non era mio. Non posso avere figli, Dom, era impossibile che quel figlio fosse mio. Ho scelto di andarmene perché non ce l'avrei fatta a guardare la donna che amavo cambiare, mese dopo mese, con il figlio di un altro che le cresceva nel grembo. Sarò stato un vigliacco, uno stronzo, tutto quello che vuoi, ma non le ho mai chiesto il divorzio e mai lo farò se non sarà lei a volerlo, inoltre le mando un assegno per mantenere lei e il bambino ogni mese, ecco perché faccio due cazzo di lavori di merda, Dom».
«Porca puttana, amico! Questa è una storia da film drammatico... E lei accetta i tuoi assegni?»
«Beh, i soldi sono sempre spariti dal mio conto, quindi presumo di sì. Non riesco ancora a parlarle, anche se sono passati sei anni».
«Secondo me dovresti mandarla al diavolo. Sul serio. Divorzio o no, dovrebbe essere lei a farsi il culo per mantenere se stessa e suo figlio, non credi?»
«Hai ragione, ma quel bambino porta il mio cognome... o bambina, non so nemmeno il suo sesso e non m'interessa. Però so che porta il mio cognome e non voglio averci nulla a che fare, voglio evitare che un giorno qualche avvocato si presenti alla mia porta a chiedermi il mantenimento, con tanto di arretrati. Quindi, se per tenerla buona dovrò continuare a pagare, lo farò fino ai diciotto anni del frutto del suo tradimento, tanto ne mancano solo dodici, passeranno in fretta, no?»
«Cazzo, amico, sei in una situazione di merda, fattelo dire! Mi dispiace».
«Come ti ho detto: la vita! Ora mangia 'sta bontà che ho cucinato prima che si raffreddi» mi dice infine posandomi davanti un piatto stracolmo di waffle ricoperti di sciroppo d'acero e frutta.
«Grazie, Pete! Ora però non mi dirai che devo pagare di più l'affitto... o il servizio della cuoca è compreso nel prezzo?»
«Fanculo, Dom!»
Scoppiamo entrambi a ridere mentre mangiamo e devo dire che le doti culinarie di Pete sono strabilianti. Credo di star mangiando i migliori waffle sulla faccia della terra. E la mia mente corre alla mia infanzia, alla mia vita fino a quasi due mesi fa. Alla mia villa in California e al mio appartamento di lusso, dove avevo davvero una cuoca. E anche una donna delle pulizie, un tuttofare che sbrigava tutto quello che a me non andava di fare, e un autista che era anche il mio bodyguard personale, visto il lavoro di mia madre. E penso che basterebbe vendere una delle mie auto per garantire a Pete una vita migliore. Gli basterebbe la Lamborghini per dare in anticipo a sua moglie tutti i soldi che pensa di doverle e chiudere per sempre con lei, così da rifarsi una nuova vita per davvero. E invece sono bloccato qui, al verde, che mi devo preparare per il turno di lavoro di questa sera. Ma questa agonia prima o poi finirà e allora tornerò alla mia vita, tornerò in California e la prima cosa che farò sarà far recapitare a Pete un assegno. O forse riuscirò a fare di più, magari riuscirò a portarlo via con me, lontano da questo posto di merda.
Il momento di prepararsi per andare al lavoro arriva fin troppo in fretta, così indosso i miei jeans chiari e una semplice T-shirt che tra qualche minuto sostituirò con quella del pub e mi avvio verso la porta, dove trovo Pete già nel suo completo ad aspettarmi. Il racconto di Pete ha tenuto impegnata la mia mente per tutta la giornata, tanto che mi sono quasi dimenticato che anche stasera dovrò fare da babysitter alla stronza. Che, a dire il vero, non si è comportata proprio da stronza ieri, l'ho fatto più io, ma l'antipatia che provo nei suoi confronti è talmente forte da farmi pensare ad altri modi per metterla in difficoltà. Dovrò insegnarle il lavoro dietro al bancone prima o poi, invece credo che anche per questo turno le farò pulire quei disgustosi bagni più del dovuto.
Arrivati di fronte al locale, mi accendo una sigaretta e chiamo mia madre, che è da più di una settimana che non sento.
«Ehi, straniero» esordisce.
«Ciao, mamma. Va tutto bene lì?»
«Sì, tesoro, perché?»
«Non ti ho più sentita...»
«Hai cambiato idea per quanto riguarda le vacanze? Torni a casa?»
«Non posso. Ho una novità... che richiede che lavori ancora di più».
«Una bella novità spero».
«Meravigliosa: mi sono trasferito in un appartamento fuori dal campus».
«Wow! Dom, tesoro, sei sicuro sia una buona idea? Abiti da solo ora?»
«No, con un collega di lavoro. E sì, è una buonissima idea. Tra il compagno di stanza e il bagno in comune stavo impazzendo in quel cazzo di dormitorio».
«Il linguaggio, Dominik!» mi rimprovera. «Sono felice per te allora, ma cerca di non trascurare lo studio. Però mi dispiace non vederti per le vacanze. Poi non potrai tornare fino alla fine dell'anno scolastico».
«Lo so... e non credo tornerò nemmeno allora, ma ne parleremo in un altro momento, ora devo attaccare al lavoro».
«Va bene, ma devi tornare per l'estate, volevo farti fare uno stage nel mio studio, arricchirebbe il tuo curriculum. Pensaci».
«Okay. Ciao, mamma!»
«Buon lavoro, tesoro».
«Grazie».
Riattacco che la sigaretta è ormai finita e ripenso alle parole di mia madre. È da tutta la vita che voglio entrare in quel dannato studio, ma so che tornando in California farò fatica a ripartire quando arriverà il momento di tornare qui. Non ce la farei proprio a riprendere l'aereo che mi riporterebbe in questo posto infernale.
E, come per avvalorare la mia tesi, ecco che il diavolo in persona fa il suo ingresso nello spogliatoio proprio mentre sono senza maglietta. Un diavoletto travestito da bionda minuta, che mi squadra con le sopracciglia aggrottate dalla testa ai piedi, soffermandosi un po' troppo sui miei addominali, frutto di tante ore di allenamento per il football e delle ore passate nella palestra del college, che ora che ci penso è da qualche settimana che non frequento.
«Non ti hanno insegnato a salutare, ragazzina?»
«C-ciao! Sì, scusami...»
«Pensi di restare lì impalata a fissarmi ancora a lungo oppure ti decidi a cambiarti?»
Non sono un indovino, ma il suo viso sempre più arrossato mi suggerisce che sia in imbarazzo e non so se sia perché sono mezzo nudo di fronte a lei o perché le ho chiesto di spogliarsi. Non sarà una di quelle verginelle timide! Infilo la mia maglietta continuando a fissarla.
«È che... ecco, tu sei un maschio».
«Beh, sì, lo so. E, fidati, sotto quella magliettina a fiori non c'è nulla che non abbia mai visto o che abbia voglia di vedere».
Callie non si è mai fatta problemi a cambiarsi davanti a me quando capitiamo nello spogliatoio insieme. Insomma, si tratta di togliersi una maglietta, tutto quello che vedrei è un reggiseno, che alle volte copre più di quanto coprano i bikini in spiaggia, a meno che...
«Non sarai una che gira senza biancheria intima! Wow, non ti facevo così audace, ragazzina» esclamo scoppiando a ridere mentre lei sgrana gli occhi ancora di più e nega scuotendo forte la testa, ma non le do modo di rispondere, in un baleno sono già fuori dalla porta, che per dispetto lascio aperta. Che il mio turno da babysitter abbia inizio!
«Ehi, Callie» saluto la mia collega.
«Dom! È ancora viva, la nuova arrivata? È nello spogliatoio da fin trop... Oddio, non avrete...»
«Non azzardarti a finire quella frase! Dio, no! L'ho solo strapazzata un po' prima del turno, ma non nel modo in cui pensi tu».
«Bene... perché tu sai chi è, vero?»
«Una principessina piena di sé, sì, ho avuto modo di scoprirlo».
«No, Dom, Helen è la figlia dello sceriffo. L'ho scoperto ieri sera da Minerva. Dicono lo sceriffo Farrow l'abbia cresciuta da solo, quindi tende a essere piuttosto protettivo nei suoi confronti».
«E la fa lavorare in un locale come questo? Dal vederla avrà sì e no diciotto anni appena, non dovrebbe nemmeno sentire l'odore degli alcolici».
«Ne ha quasi ventuno, Dom, come te».
Il nostro discorso si interrompe quando Helen fa il suo ingresso.
«Parto dal lavaggio dei bagni?» chiede guardandomi dritto negli occhi.
«E cosa vorresti lavare, dato che non ci è ancora entrato nessuno? Direi che potresti finire con gli scafali, e cerca di lavarli per bene perché a fine turno controllo e se trovo anche la minima traccia di polvere o altro dovrai rilavarli da capo, intesi?» ordino incenerendola con lo sguardo. Ha avuto la sfrontatezza di affrontarmi, ora le faccio vedere io con chi ha a che fare.
«Agli ordini» risponde alzando gli occhi al cielo e, mentre si gira per prendere la spugna, le scappa un: «Stronzo!» tra i denti.
«Come mi hai chiamato?»
«N-no... n-non dicevo a te... era per... per la spugna».
«Certo, Hel, chi non chiama "stronzo" una spugna?! Sappi che hai appena firmato la tua condanna a un turno di merda».
E ho mantenuto la mia promessa. L'ho mantenuta alla grande. Le ho fatto pulire per due volte di seguito gli scafali sotto il bancone e tutte le bottiglie, e ora, nel bel mezzo del pienone di mezzanotte, sta lavando il bagno. E proprio mentre lei sta eseguendo il mio ultimo ordine, la sua amica, April, fa il suo ingresso nel locale. La noto appena mette piede nel pub, non potrei non farlo visto l'abito che indossa: nero, davvero molto attillato e parecchio corto. Si siede direttamente al bancone, mentre fa scorrere lo sguardo in tutto il locale, presumo stia cercando la sua amica stronza.
«Ciao, bellissima! Cosa posso offrirti?» le chiedo con un sorriso più grande della mia faccia. Mi fa piacere vederla, ora che ho una vera camera in un appartamento mi piacerebbe ripetere l'esperienza già fatta con lei.
«Ciao, Dominik. Dove si è nascosta Helen?»
«Sta lavorando».
«Beh, lo so, ma non la vedo».
«Sta lavando i bagni, tra poco dovrebbe finire».
«Ho sentito che ti diverti a farle fare il lavoro sporco...»
«Qualcuno deve pur fare anche quello, no? È il bello di essere l'ultima arrivata».
«Lei non la pensa esattamente così. È convinta tu ce l'abbia a morte con lei per qualche motivo che sfugge a entrambe».
«Non è così. Le sto semplicemente insegnando il lavoro in un pub partendo dal basso, come abbiamo fatto tutti noi. Mi dispiace che si sia lamentata con te per questo... forse questo lavoro non fa per lei».
«No, Dominik, non dire così. Helen ne ha davvero bisogno, credimi. Potresti essere un po' meno duro con lei?»
«Okay, ci proverò» rispondo sbuffando.
«Fallo per me, ti prego».
«Solo se mi concedi un appuntamento, uno vero questa volta». La mia bocca prende il sopravvento, ma ormai non posso più rimangiarmi l'invito. Ripensandoci, non sarebbe la fine del mondo uscire insieme a lei, è una bomba sexy, ma sono al verde, cazzo.
«Per poi finire come l'altra volta? È stato bello, Dominik, ma non concedo secondi appuntamenti».
«Quello è stato solo un assaggio, bellezza. Ora ho un appartamento, non dovrai ripetere quell'esperienza, ma potremmo farne di migliori, che ne dici?»
«Ci devo pensare. È che ora lavori con la mia migliore amica... Parlando del diavolo» dice e noto i suoi occhi illuminarsi mentre guarda verso i bagni, da dove vedo uscire Helen. E mi sembra di veder succedere la stessa cosa agli occhi di Helen appena vede l'amica.
«Ciao, April! Come mai da queste parti?» le chiede avvicinandosi.
«Sono solo passata a salutarti prima della festa in confraternita. Che poi chiamarla festa... una serata tra i pochi che sono rimasti qui per le vacanze di primavera. Ti passo a prendere alle tre?»
«Facciamo per le tre e mezza, non vorrei farti aspettare troppo» le dice Helen.
«Preferisco aspettare qui che andare a casa per poi uscire così tardi... rischierei di addormentarmi nel frattempo».
«Allora stai tranquilla, vado a casa a piedi, non è un problema».
«Sei matta? Di notte? Non se ne parla. Facciamo così: quando finisce la festa vengo direttamente qui e aspetto che finisci, intanto mi diverto un po'».
«Non hai ancora la patente?» mi intrometto fissando Helen perplesso.
«Sì che ce l'ha, è l'auto che le manca» mi risponde April, «per questo le serve un passaggio a casa».
«Abiti qui vicino?»
«Praticamente dieci minuti a piedi, ma April non vuole sentire ragioni e lasciarmi tornare da sola» mi informa guardando di sottecchi l'amica.
«Allora ti accompagniamo io e Pete, non è un problema» dico rendendomi conto solo dopo della cazzata che sto per fare. Perché mai dovrei sorbirmi la stronza anche oltre l'orario di lavoro? Ma certo, lo faccio solo per ingraziarmi quella gran figa della sua amica. E sembra funzionare, visto il sorriso che mi restituisce.
«Per te va bene, Helen?» chiede April.
«Sì... va bene. Grazie, Dominik».
«Fatta, allora, problema risolto. Ora, al lavoro, i tavoli non si puliscono da soli, Hel».
Abbassa lo sguardo e prende la spugna. «Puoi non chiamarmi così, per favore?»
Fingo di non sentire e mi dedico al gruppo di ragazzi che è appena entrato. Preparo loro le cinque birre che hanno ordinato e, una volta finito, mi accorgo che Helen è di nuovo dietro al bancone e April è sparita.
«Finito. Devo lavare di nuovo il bagno?» mi chiede la stronza guardandomi con aria di sfida.
«No, resterai dietro il bancone insieme a me, mentre Callie servirà ai tavoli». La mia collega prende il suo tablet ed esce da dietro il bancone, mentre la nuova arrivata annuisce.
«Vedi i ragazzi che stanno entrando ora? Sarai tu a servirli». Si tratta di un gruppo di quattro ragazzi che avranno all'incirca la nostra età. Questa volta non le ho dato un compito difficile, sono proprio curioso di vedere come se la cava. «Il sorriso, Helen, stampati un cazzo di sorriso in faccia».
Fa una smorfia che non somiglia per niente a un sorriso, mentre si avvicina ai ragazzi per prendere le loro ordinazioni. Io sto preparando un ordine per Callie, ma riesco comunque a sentire quello che chiedono i ragazzi: due birre bionde e due mojito.
«Vieni, ti mostro... Ti ricordi come si usa lo spillatore?» Lei annuisce, quindi mi faccio da parte e le lascio preparare le birre, fissandola attentamente. Ha le mani tremanti e sta andando nel panico solo per scegliere il bicchiere giusto. «Qual è il problema?»
«Q-quale bicchiere uso?»
«Ti hanno chiesto delle birre e basta?» Annuisce. «Allora prendi quello piccolo». Mette il primo bicchiere sotto lo spillatore e tira la leva del tutto, ovviamente va a finire che il bicchiere trabocca di schiuma e lei sembra letteralmente nel panico mentre diventa sempre più rossa, sotto il mio sguardo di rimprovero. «Ti sembra una birra quella? Guarda, ti faccio vedere come si fa».
Prendo la birra spillata da lei e la poggio sul ripiano dietro al bancone mentre prendo un bicchiere pulito e preparo una benedetta birra come si deve, per poi passarla a uno dei ragazzi.
«Vedi? Quella è una birra! Avanti, fai l'altra, non startene lì impalata» la incoraggio.
Prende il bicchiere con mano tremante, lo inclina un po', ma tira ancora troppo forte la leva, con il risultato che la birra schizza in ogni dove riempiendo il bicchiere di schiuma.
«Merda!» impreco guardandomi la maglia schizzata di birra. Puzzerò come una cazzo di distilleria a fine serata. «Non è difficile, Hel, ti ho solo chiesto di fare una cazzo di birra» sbraito e le prendo il bicchiere di mano per farla al posto suo. «Ora ti mostro come si fa il mojito, guarda bene e cerca di imparare al primo colpo».
Prendo il bicchiere giusto, taglio il lime che metto nel bicchiere insieme a due cucchiaini di zucchero di canna, poi qualche foglia di menta; uso il pestello, poi ci aggiungo il rum e la soda. Niente di complicato, ma Helen riesce a incasinare anche questo. Le ho lasciato fare il secondo cocktail da sola e stava per servire al cliente un mojito senza zucchero e con una quantità spropositata di alcol dato che ha riempito il bicchiere di rum, dimenticandosi della soda. E non capisco come cazzo sia possibile che non riesca a rimanere concentrata per cinque fottuti minuti. Sarà per il rifiuto della sua amica o semplicemente perché mi sta altamente sul cazzo, ma mi accorgo troppo tardi che le sto sbraitando contro.
«Ora sparisci dalla mia vista e manda qui Callie!» finisco mentre preparo il mojito che avrebbe dovuto fare lei. «Scusate l'attesa, ragazzi» dico porgendo il drink a chi l'aveva ordinato.
«Primo giorno?» mi chiede facendo segno verso il fondo del locale, dove Helen sta prendendo le ordinazioni al posto di Callie.
«Secondo, in realtà...»
«Ahia» replica uno dei ragazzi divertito. «Peccato, è carina».
«Già» rispondo sovrappensiero guardandola e devo ammettere, non l'avevo ancora guardata come si deve, ma è davvero carina. Non è nulla di speciale, ma ha quel fascino da brava ragazza. Mi sa tanto di verginella impacciata... e stronza.
Per tutto il resto del turno Helen mi sta alla larga, continuando a prendere le ordinazioni ai tavoli, per poi portarle una volta pronte. E devo ammettere che se l'è cavata abbastanza bene: ha pulito i tavoli man mano che si svuotavano e il bagno è immacolato. Nella pausa che ho fatto a mezzanotte ho informato Pete di dover accompagnare a casa la nuova arrivata e lui sembrava più contento di quanto avrei immaginato. Secondo me ci sta facendo qualche pensierino, ma preferisco non entrare in argomento per ora. Sono rimasto per ultimo, Callie se n'è andata cinque minuti fa e Helen è ancora nello spogliatoio, quindi finisco di chiudere la cassa e vado a cambiarmi anch'io. Entro nello spogliatoio e la prima cosa che noto è Helen che trasalisce appena mi vede e si asciuga gli occhi velocemente. Sta piangendo? Dio, è davvero una ragazzina!
«Va tutto bene?» le chiedo mentre mi tolgo la maglia, tanto per non sembrare uno stronzo insensibile, non perché m'interessi davvero.
«S-sì» biascica con un filo di voce.
«Non mi sembra... Stai piangendo per colpa mia?»
«N-no... è che... ho davvero bisogno di questo lavoro».
«Certo...» rispondo titubante. Mi sembra tanto una signorinella cresciuta bene, quindi non capisco perché voglia lavorare in un locale di questo genere. Poi è la figlia dello sceriffo, dovrebbe fare la bella vita.
«Ne ho bisogno sul serio, anche se tu non mi credi. Mi tratti sempre malissimo» dice alzandosi in piedi, con nuove lacrime che le rigano le guance e io resto esterrefatto a guardarla. «Dio, non so perché non riesca a smettere di piangere. Mi tratti di merda da quando ho messo piede qui dentro, posso sapere perché ti sto tanto sulle palle? Ti ho fatto qualcosa?»
«Beh, non proprio... sto solo cercando di insegnarti il lavoro, okay?» rispondo di getto, anche perché mi ha proprio spiazzato con la sua domanda diretta. Pensandoci bene, non mi ha davvero fatto qualcosa, ma in questo momento si sta comportando da bambina viziata e questo mi urta il sistema nervoso tanto che potrei mollarla qui e andarmene.
«Ed è umiliandomi davanti ai clienti che me lo insegni? O facendomi fare cose inutili? Se non avessi bisogno di lavorare avrei già mandato a fanculo te e questo posto di merda» dice alzando di molto il tono di voce, poi si risiede e nasconde il viso tra le mani.
La sua schiena è scossa dai singhiozzi, il che mi fa indietreggiare di un passo, sto quasi per infilarmi la T-shirt e sparire, quando il mio corpo si scollega dal cervello e agisce per conto proprio. Prima lascio cadere la maglietta, poi mi siedo di fianco a lei sulla panchina al centro dello spogliatoio e le poso una mano sulla schiena. Con l'altra mano cerco di scoprirle il volto, ma quello che ottengo è lei che si aggrappa a me, poggia la testa sul mio petto ancora nudo e continua a piangere ancora più forte di prima. E io mi riempio di brividi ovunque. Ogni parte di me che lei tocca sembra infiammarsi all'istante. Continuo ad accarezzarle la schiena con un gesto automatico, mentre ispiro a fondo il profumo dei suoi capelli che sanno di fiori; mi nausea e mi piace allo stesso modo. È possibile o sto impazzendo per la mancanza di sonno?
«Scusami» sussurra alzando la testa. Ora il suo viso è a un soffio dal mio. «Dio, non so che mi è preso. Perdonami, non avrei dovuto farlo». Il suo viso è in fiamme. Il mio cuore batte all'impazzata. Lei continua a guardarmi con quegli occhi verdi. Il mio cervello è scappato altrove, lontano da qui.
«Non ti preoccupare. Ti va di dirmi cosa succede?»
«Abbiamo dei problemi economici, non so bene tutto, so solo che tra due mesi mio padre e io finiremo in mezzo alla strada se non paghiamo gli arretrati dell'affitto» mi confessa abbassando lo sguardo sulle proprie mani, che continua a torcersi.
«Mi dispiace. Guarda, se serve a farti smettere di piangere, sappi che il lavoro è tuo. Forse ho sbagliato i modi, ma sto davvero cercando di insegnarti come funziona il tutto, così che tra due mesi tu possa prendere il mio posto».
«Okay» risponde incerta con lo sguardo puntato a terra.
«Promettimi che non ti rintanerai ancora qui a piangere. Vieni a parlarne con me piuttosto» le dico alzandole la testa per farmi guardare in faccia. «Intesi?» E non riconosco nemmeno la mia voce mentre le parlo.
«Sì... g-grazie, Dom».
«Siamo amici, allora?»
«Amici? Oh, va bene».
«Però devi farmi un sorriso... uno vero!» le dico e lei lo fa, prima incerto, poi ci riesce davvero: mi sorride. E mi sorride come non le ho mai visto fare. Il suo viso si illumina un po', anche i suoi occhi verdi che ora sono limpidi e arrossati per via del pianto, ma bellissimi allo stesso tempo, ed ecco che due fossette compaiono sulle sue guance, mandando definitivamente in pappa il mio cervello. E, cazzo, è bellissima!
Mi infilo la T-shirt e usciamo insieme, in silenzio. La faccio sedere davanti nell'auto di Pete e lascio che parlino tra loro per tutto il tragitto, finché non la lasciamo davanti a casa sua e noi proseguiamo verso il nostro appartamento. Sono talmente frastornato che non sento nemmeno le domande che Pete continua a pormi da dieci minuti a questa parte.
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