4. Dare un bel colpo di spugna a Connor Havery

Il mio sabato sera non è andato male come pensavo, a dire il vero, almeno all'inizio. Non ho più incrociato Connor e grazie a questo e a qualche altro bicchiere di gin tonic sono riuscita a lasciare da parte quello che è successo nell'ultimo mese per gran parte della serata. Mi si è anche avvicinato qualche ragazzo, ma dopo la rivelazione di April ho deciso di accantonare la mia missione per un po'. A dire il vero, non è per quello che mi ha detto la mia migliore amica – anche se ammetto mi farebbe un certo effetto andare a letto con un ragazzo che è passato prima per il suo, di letto –, ma perché mi sono resa conto di non essere ancora pronta. Vorrei esserlo, vorrei poter dare un bel colpo di spugna a Connor Havery e a tutte le sue cazzate e spassarmela esattamente come fa lui, lo vorrei con tutta me stessa, ma mi conosco abbastanza da capire di non essere ancora in grado di farlo. E non è che mi sia fatta un esame di coscienza per capirlo, mi è bastato che un tizio che gli somiglia un po' mi appoggiasse una mano sul braccio mentre ci provava con me per provare repulsione alla sola idea. E anche una bella consapevolezza che ora come ora qualsiasi ragazzo mi portassi a letto avrebbe la faccia di quel maledetto nella mia testa.

Parlando della serata, ecco, mi sono ritrovata alle quattro del mattino, ubriaca e sola, a cercare April in ogni stanza della casa, imbattendomi in varie scene che non abbandoneranno il mio cervello per un po', ma senza traccia della mia amica, che si è degnata di inviarmi un messaggio soltanto alle cinque, quando ero appena riuscita a rimediare un passaggio per casa. Per mia fortuna ce l'ho fatta a infilarmi sotto le magnifiche coperte del mio letto giusto qualche minuto prima che mio padre tornasse dal lavoro.

Mio padre è un buon genitore, ha fatto del suo meglio per crescermi da solo nonostante il lavoro gli abbia sempre impegnato molto del suo tempo. Essere lo sceriffo di una cittadina come la nostra non è molto complicato, ma ha il suo bel da fare e non solo lo capisco, io sono fiera di lui. Ma anche se come genitore abbia sempre dato il meglio di sé, non facendomi mai mancare il suo amore e la sua dolcezza, come sceriffo è un tipo tosto. L'ho visto in azione abbastanza volte da potermene rendere conto e da fare il possibile per non entrare nel suo radar e so che non mi farebbe passare liscia una sbronza prima dei ventun anni, anzi mi tratterebbe come il peggiore dei delinquenti solo per dare una lezione a me e una prova di lealtà verso il suo dipartimento. Un po' come dire: "Guardate qui, nemmeno al sangue del mio sangue offro uno sconto di pena" o qualcosa del genere. Per fortuna non dovrò scoprirlo oggi, dato che sento la porta della mia camera aprirsi, per poi richiudersi piano dietro di lui.

Schiudo appena le palpebre e maledico mentalmente il cellulare che non la smette di squillare. Poi lo guardo e lancio una maledizione anche alla persona che mi sta chiamando a quest'ora del matt... ehm, pomeriggio, mi correggo guardando l'orologio del cellulare che segna le tre e mezza.

«Pronto...» biascico svogliata.

«E questa voce che arriva dritta dall'oltretomba?»

«Vuoi smetterla di urlare?» Cazzo, da quando April ha la voce così squillante?

«Hai un bel doposbronza, eh, signorina?»

«Mi annoiavo, dato che qualcuna mi ha abbandonata nel bel mezzo della festa... con a disposizione tutto quell'alcol che chiamava a gran voce il mio nome».

«Tutto quell'alcol e nessun principe azzurro a salvarti dalla tua sorte?»

«Arriva al punto, April, perché sei già sveglia?» cambio argomento prima che mi ricordi la mia "missione" fallita miseramente.

«Sto andando a casa ora, ho passato la notte nel dormitorio».

«E come ci sei arrivata in dormitorio?»

«Beh, mi ci ha portata Steve... o Smith... insomma, qualcosa con la S».

«Ottimo...»

«Usciamo per cena?»

«E se facessimo un giro al centro commerciale... tipo ora?»

«Sei già rinata? Ti ci è voluto davvero poco».

«In realtà l'idea non mi piace particolarmente, ma se resto a casa rischio di far scoprire il mio doposbronza a un certo sceriffo Farrow».

«Giusto. Allora passo a prenderti tra cinque minuti, anzi facciamo dieci».

Riattacco e mi trascino fuori dal mio splendido letto con le lenzuola del mio colore preferito: verde Tiffany. Una corsa al bagno, uno sguardo veloce allo specchio che avrei fatto meglio a non dare dato che mi fa crollare l'autostima fin sotto i piedi, e dopo essermi data una lavata alla meno peggio e infilato un paio di jeans e una T-shirt pescati a caso dall'armadio, constato che la casa è in perfetto silenzio, il che vuol dire che lo sceriffo sta ancora dormendo. In punta di piedi, scendo al piano di sotto, mando giù un paio di analgesici per il mal di testa ed esco per aspettare April davanti a casa. Odio farmi scarrozzare sempre da lei, ma non voglio gravare sulle finanze di mio padre per l'acquisto di una macchina visto che al momento non ne ho poi così tanto bisogno. Al college ci vado a piedi o in bicicletta e non mi è mai pesato.

Alla fine resto con April per tutta domenica, ceno a casa sua, insieme alla sua meravigliosa famiglia. Ha due genitori che si amano alla follia e questo fa respirare un'aria particolare in casa sua, non so spiegarlo, ma li ammiro molto. Poi ha un fratello di due anni più piccolo di cui si lamenta in continuazione, ma che so quanto ama. Amo mio padre e so quanto si sia sacrificato per me, ma non posso smettere di pensare a quanto mi piaccia sedermi attorno a un tavolo come quello della famiglia della mia amica. Veder ridere e scherzare o anche litigare la sua famiglia mentre ceno o pranzo da loro rappresenta uno dei momenti più belli per me, infatti nei fine settimana sono spesso da loro, soprattutto quando mio padre lavora.

Torno a casa abbastanza presto, sono solo le dieci, ma è già buio pesto e appena rincaso trovo mio padre seduto sul divano con una birra in mano e una partita di football in tv.

«Ciao, tesoro, hai passato una bella serata?» mi chiede girandosi appena verso di me.

«Sì, sono stata da April. Tu sei riuscito a riposare?» gli chiedo sedendomi accanto a lui.

«Sì». È quando sposta lo sguardo verso la tv che noto i suoi occhi gonfi e arrossati.

«Papà... va tutto bene?» gli chiedo cauta.

«Sì, tesoro, tutto bene». Non gli credo. Non mi sta guardando in faccia mentre lo dice. A volte piange, lo so perché lo sento, soprattutto nei giorni che precedono il mio compleanno, ma non è questo il caso.

«Sicuro?»

«Certo».

Decido di lasciarlo stare, non voglio metterlo di malumore insistendo, ma mi rendo conto che qualcosa non va. Forse è successo qualcosa al lavoro o stava pensando alla mamma. Gli do il bacio della buonanotte e mi avvio verso la mia camera, ma faccio una piccola sosta nella sua, dato che ha lasciato la porta spalancata, cosa che non fa mai.

Il cuore mi batte all'impazzata mentre tendo le orecchie per assicurarmi di non sentire passi sulle scale e mi guardo attorno nella camera di mio padre. Non mi fa mai entrare qui, non è un vero e proprio divieto, ma è sempre stato così, da quando ero piccola: la sua camera è anche il suo santuario, il posto dove può rintanarsi quando ha bisogno di pensare alla mamma o di riposare dopo i stancanti turni di lavoro. Mi sta bene così, dedica così tanto di sé a me che mi sembra giusto abbia anche lui un posto tutto suo, in cui io non monopolizzi la sua attenzione. Ora però la curiosità ha la meglio.

Il letto è rifatto alla perfezione, con le lenzuola di seta color panna che mi dice sempre erano le preferite di mamma. Sul comodino posto sulla sinistra c'è una foto dei miei genitori quando avevano la mia età e una che mi ritrae da neonata; ma è il comodino a destra che attira la mia attenzione. Di fianco alla cornice dorata dalla quale mi sorride mia madre nell'ultima foto che siano riusciti a farle – in sala parto, con un minuscolo fagottino tra le braccia, che sarei io – ci sono un paio di fogli accartocciati. Mio padre è molto ordinato, quasi maniacale, quindi mi sembra strano vedere del disordine proprio nel suo angolino.

La mano mi trema e il cuore minaccia di scoppiarmi nel petto mentre ne apro uno per leggerlo e la parola "sfratto" mi si presenta davanti agli occhi in caratteri cubitali. Leggo freneticamente e mi rendo conto che quello che sto tenendo tra le mani è un avviso che intima mio padre a pagare esattamente millesettecento dollari di affitto arretrato in sessanta giorni, termine che, se non rispettato, porterà allo sfratto. Insomma, se non paghiamo quei maledetti soldi ci porteranno via la casa. La nostra casa, quella in cui i miei genitori sono venuti a vivere subito dopo il college, la stessa in cui sono stata concepita e in cui sono nata, la casa in cui è morta mia madre e nella quale mio padre ha tutti i ricordi con lei. Ecco perché aveva pianto.

Non sapevo avessimo problemi di questo tipo, so che non navighiamo nell'oro, ma mio padre non mi parla mai di soldi, non mi coinvolge nella gestione delle finanze, anche se più di una volta gli ho chiesto se le cose vanno bene da quel punto di vista. Mi ha sempre detto di non preoccuparmene.

Accartoccio di nuovo il foglio e me ne scappo nella mia camera, poi scrivo a April e le racconto cosa ho appena scoperto, in preda al panico. E mi odio per le mie serate nei bar con April e per lo shopping che abbiamo fatto oggi pomeriggio. Mio padre mi ha dato tutto, dal giorno in cui sono venuta alla luce – lo stesso che lo ha reso vedovo – ha messo da parte la sua persona per dedicarsi completamente a me. Non mi fa mancare mai nulla. Ora è arrivato il momento che sia io a dare una mano a lui. Ho quasi ventun anni, è arrivata l'ora che porti il mio contributo.

Scrivo a April chiedendole se mi darebbe una mano a trovare un lavoretto, uno qualsiasi, basta che riesca a incastrare gli orari con le lezioni al college e mi risponde dopo solo qualche secondo promettendomi che l'indomani ci saremo viste per parlarne e che mi avrebbe aiutata. Non posso chiedere di meglio.

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