22. Dieci settimane

La settimana appena passata è stata un vero incubo. Un incubo di quelli dai quali non ti risvegli e se hai la fortuna di riaprire gli occhi la sensazione di angoscia non se ne va. Non se ne andrà mai. La rivelazione di April mi ha fatto di nuovo pensare a lei e Dominik, così quando lui mi ha chiamata per la prima volta, me ne sono rimasta con il cellulare in mano, a fissare il suo nome sul display fino a quando non ha smesso di squillare. Non sono riuscita a rispondergli. Né alle miriadi di telefonate né ai tantissimi messaggi. Ho semplicemente impostato la modalità silenziosa e mi sono dimenticata di avere un cellulare. L'ho evitato anche al college, spaventata dal fatto che mi potesse cercare per chiedermi spiegazioni. Cosa avrei potuto dirgli? Che il fatto che la mia migliore amica fosse incinta mi avesse fatto andare fuori di testa? Che avevo bisogno di una conferma tangibile per credere che quel bambino non fosse suo?

Il giorno dopo averlo saputo sono tornata da April.

«Come stai oggi?» le ho chiesto una volta varcata la soglia della sua camera. Era in piedi, non più in pigiama.

«Meglio, anche se non so se mai riuscirò ad abituarmi all'idea».

«Hai deciso di tenerlo?» le ho chiesto a bruciapelo e sarei una maledetta bugiarda se dicessi che non ho sperato che negasse.

«Certo, non potrei... Dio, solo l'idea... Non ucciderò questo bambino, Helen».

«Allora credo sia il caso di fare una visita. Insomma, capire se va tutto bene e in quante settimane sei, no?»

«Non sono ancora pronta».

E così abbiamo passato la giornata al centro commerciale. Lei voleva distrarsi, ma io non facevo che guardarla e chiedermi se portasse in grembo il figlio del ragazzo che stavo cominciando ad amare. Stava succedendo davvero. Ed era un'emozione che non avevo mai provato prima. Credevo di aver amato Connor, ma innamorandomi di Dominik mi ero resa conto che quello che provavo per il mio ex non aveva nulla a che vedere con l'amore, quello vero, quello che si insinua in ogni cellula, in ogni atomo del corpo e dell'anima. Era questo che iniziavo a provare per Dominik. E non potevo permetterlo a me stessa. Ne sarei uscita distrutta per davvero. Mi aveva confidato che alla fine del college sarebbe tornato in California, e allora tutto sarebbe finito, io me ne sarei rimasta qui con il cuore infranto. Questo se non fosse il padre del figlio di April, in quel caso il mio cuore si sarebbe spezzato molto prima.

Così, arrivata a casa, quella sera stessa ho contattato la mia ginecologa e preso un appuntamento per April per il mattino successivo.

«Preparati, hai quella visita oggi» le ho detto mentre, il mattino successivo, la raggiungevo per toglierle le coperte di dosso.

«Ti avevo detto di non essere ancora pronta».

«E invece io dico che lo sei. Ti voglio bene, April, ma se vuoi tenere il bambino è giusto che tu abbia tutte le informazioni che ti servono e che sappia se va o non va tutto bene. Hai bevuto parecchio in queste ultime settimane» ho cercato di convincerla.

Lei si era alzata dal letto e si stava vestendo. Poi si è fermata con una gamba a mezz'aria mentre si infilava i jeans.

«Aspetta, tu non vuoi che faccia questa visita per sapere se va tutto bene», mi guardava dritto negli occhi, «tu vuoi sapere quando sono rimasta incinta!» ha esclamato poi.

«Perché, tu non vuoi saperlo?»

«Non t'interessa un cazzo di me o di questo bambino. No, invece di starmi accanto come farebbe un'amica tu stai cercando di capire se questo bambino è di quello stronzo di Dominik» mi ha urlato contro.

«Anche. Scusami, ma nel frattempo credo di essermi innamorata di lui, e io... ecco, io ho bisogno di saperlo. Mettiti nei miei panni, cazzo!»

«Sto cercando di farlo, credimi, ci sto provando davvero, ma davanti a me vedo solo una falsa amica egoista ed egocentrica» mi ha inveito contro e io ho incassato, ogni parola.

«Ora vestiti e andiamo, la dottoressa ci sta aspettando».

In giro di qualche minuto eravamo nell'auto di mio padre, che mi ero fatta prestare dato che non era di turno. Un viaggio di un quarto d'ora completamente avvolte dal silenzio più assoluto. Avevo temuto che April potesse sentire il battito accelerato del mio cuore, talmente tanto silenzio c'era in quell'abitacolo. Non mi ha rivolto la parola nemmeno mentre ce ne stavamo sedute vicine nella sala d'attesa. Lei pensava a chissà cosa mentre io pensavo alle sue parole, all'odio che avevo visto nei suoi occhi. Forse non avevo agito nel migliore dei modi, ma andava anche a suo vantaggio. Doveva pur voler sapere chi fosse il padre del bambino che cresceva dentro di lei. E la consapevolezza mi ha invasa proprio durante quegli interminabili minuti di attesa: se fosse stato di Dominik la nostra amicizia sarebbe finita; se non fosse stato suo forse sarei riuscita a recuperarla, ma sarebbe stato difficile, molto difficile. April per me era come una sorella, le volevo davvero bene anche se non sapevo dimostrarglielo. E sapevo che lei ne voleva a me, lo davo per certo. Cominciavo a essere combattuta tra l'affetto che provavo per lei – che durava da anni – e l'amore che provavo per Dominik – che ero ancora in tempo a sradicare dal mio cuore.

«Se non vuoi farlo possiamo tornare a casa... Perdonami» ho detto, ma nello stesso istante un'infermiera è uscita dallo studio della dottoressa e ha chiamato il nome di April.

Si è alzata lanciandomi uno sguardo e l'ho seguita. Volevo starle vicino. Avevo fatto un casino, ma volevo starle vicino in un momento così delicato. La ginecologa ha iniziato la visita facendole delle domande che non sono nemmeno stata in grado di ascoltare, finché non è arrivato il momento della verità.

«Congratulazioni, direi che non ci sono dubbi. Qui abbiamo un bell'embrione, direi che sei piuttosto avanti... Aspetta che lo misuriamo e poi ti dico con esattezza». Erano stati momenti di ansia. April mi stringeva la mano, o io stringevo la sua, ormai non lo sapevo più; ed entrambe non staccavamo gli occhi da quello schermo e da quel minuscolo puntino lampeggiante che avevamo capito fosse il cuore del bambino. Era tutto vero. April era incinta. Nel grembo della mia migliore amica c'era un bambino. Suo figlio. «Dieci settimane. Sei incinta da dieci settimane, giorno più giorno meno». Ho tirato un sospiro di sollievo. Lei ha iniziato a piangere.

Una volta uscite dallo studio April non ha più aperto bocca, così ho fermato la macchina nel parcheggio di un bar e l'ho quasi costretta a scendere. Eravamo sedute a un tavolino appartato con i nostri caffè davanti quando ha sganciato la bomba.

«Non è di Dominik» ha esordito.

«April, non mi sarebbe importato comunque» ho mentito, «ti starei accanto in ogni caso. Sei mia amica, ti voglio bene come a una sorella» le ho detto stringendole una mano, che lei ha ritratto come scottata dal mio tocco.

«Vuoi sapere chi è il padre?» mi ha chiesto dopo un momento di silenzio.

«Non è importante. Se lo hai capito, meglio per te».

«È Connor Havery». Ed ecco che la bomba mi è esplosa in faccia. Una gigantesca bomba atomica. Ho fatto i conti a mente, dieci settimane prima io stavo ancora insieme a Connor. April ha iniziato a ridere. Una risata strana, che non le avevo mai sentito fare. «Vuoi anche sapere da quanto tempo andavamo a letto insieme? Da quasi due anni».

«Co-come? P-perché?»

«Vuoi sapere tutta la verità? Eccotela servita,» ha iniziato sistemandosi sulla sedia, «appena sono arrivata qui, prima di conoscere te, avevo intravisto Connor nei corridoi del liceo. E mi piaceva, Dio, mi piaceva da morire. Avevo cercato di avvicinarlo più e più volte, ma senza risultati, finché non lo vidi insieme a te. Ma io lo volevo lo stesso. Andiamo, chi non vorrebbe uno come Connor? È benestante, bello, atletico e, porca puttana, è davvero bravo a letto». Sentivo la nausea salire. «L'avrei scoperto molto dopo comunque. Ecco, provai in tutti i modi ad arrivare a lui, finché non misi appunto il mio piano: arrivare a te prima che a lui. Credevi davvero fossi la tua migliore amica, Helen? Dio, non sai lo sforzo che mi è servito per sopportare tutte le tue lamentele... Sei una lagna, fattelo dire!» La nausea aumentava a dismisura, tanto che se non avessi continuato a deglutire avrei sicuramente vomitato anche l'anima. «Mi ci sono voluti quasi tre anni per riuscire a far capire a Connor che quella giusta ero io, non tu. Credeva davvero di essere innamorato di te. Dio, come poteva pensare di amare una così... insomma, come te? Mi veniva la nausea ogni volta che parlava di matrimonio e figli, quando lo facevi tu mi veniva solo da ridere perché sapevo non avresti mai avuto tutto quello che volevi da lui. L'avrei avuto io. La prima volta ci sono andata a letto quattro anni fa, dopo la tua festa di compleanno. Ricordi, eravamo a casa di Turner, lui era ubriaco da far schifo e tu non avevi voluto passare la notte con lui? Meglio per me».

Il ricordo di quella serata si è insinuato nella mia mente. Ci eravamo divertiti tutti insieme, era stata April a organizzarmi, insieme a Turner – un compagno del liceo –, quella festa di compleanno. Era stata bellissima, finché Connor non si era ubriacato talmente tanto da non reggersi in piedi. Io mi ero arrabbiata perché avrei voluto continuare a festeggiare con lui, in camera da letto, ma odiavo vederlo ubriaco, così me ne tornai a casa mia.

«Ero stata io a farlo ubriacare, sai? Sapevo che non ti piaceva vederlo in quelle condizioni», la voce di April si è introdotta nel ricordo che scorreva nella mia testa, facendomi tornare alla realtà. Fuori dalla casa di Turner. Dentro il maledetto bar. «Poi lui mi rifiutò il giorno dopo. Mi pregò di non dirti nulla. Non lo feci, ma non avrei comunque mollato. Due anni fa sono riuscita a convincerlo. Sai tutti i ragazzi che dicevo di essermi fatta?» Ho annuito. «Tutte balle. L'unico che mi facevo era il tuo, di ragazzo. Poi lui ha deciso di lasciare te, ma ha lasciato anche me. Sai cosa mi ha detto? Che non sopportava più di continuare a mentirti. Ero al settimo cielo, credevo che ti avrebbe mollata per me, invece poi mi disse che voleva stare da solo per un po'. Sappiamo entrambe cosa significhi per lui stare da solo... ma ora le cose cambieranno, ora c'è questo bambino» ha detto appoggiandosi la mano sul ventre.

«Puttana!» ho esclamato come se fossi uscita da uno stato di trance. Non volevo sentire altro. «Sei una lurida puttana!» ho gridato prima di uscire dal bar.

Ed era giovedì. Quel giorno ho guidato come una pazza con l'auto di mio padre fino a quando ho finito le lacrime e perso la voce per le urla. Non riuscivo a pensare ad altro che a April e Connor insieme, sotto il mio naso. La mia migliore amica. Il mio ragazzo. Come avevano potuto? Mi sembrava di essere finita in una cazzo di telenovela spagnola di basso livello. Ero sconvolta. Continuavo a urlare e imprecare, ma non serviva a nulla.

Sono rientrata in casa quando mio padre era già pronto per andare al lavoro. Gli è bastata un'occhiata per capire che fossi sconvolta, ma gli ho detto che sarei andata a dormire e che ne avremo parlato il giorno dopo.

Una volta in camera mia, l'ennesima chiamata di Dominik mi ha fatto ricordare della sua esistenza. Non avevo le forze di parlargli. Volevo solo dormire. Addormentarmi e dormire per secoli. Invece il mio cervello non era dello stesso parere. Dominik non era il padre del figlio di April, un punto a suo favore, vero. Ma a quel punto non riuscivo più a fidarmi del genere maschile... nemmeno di quello femminile a dire il vero. Odiavo tutto e tutti. E le somiglianze tra Dominik e Connor stavano tornando a farsi strada nella mia mente, insieme alle parole di mio padre su di lui. Ed è stato allora che ho deciso: avrei messo fine a qualsiasi cosa stava prendendo piede tra me e lui. Ma lo avrei fatto l'indomani.

Poi non ho avuto il coraggio, fino a quando non è stato inevitabile. È stato lui a trovare me, al lavoro, dove sapevo che avrei dovuto vederlo. Avevo provato a cambiare le cose: ero andata nell'ufficio di Minerva per dirle che ero pronta per iniziare il lavoro senza Dominik. Lei era stata subito d'accordo, ma aveva anche detto che per quel weekend avremo fatto come al solito. Le cose hanno preso una piega diversa quando Dominik se n'è andato.

Ho tirato un sospiro di sollievo. Sì, perché la sua sola vicinanza stava per mandare a puttane tutti i miei piani. Quando mi ha guardata negli occhi per la prima volta quella sera avrei solo voluto corrergli incontro e saltargli in braccio; raccontargli tutto quello che era successo e farmi cullare tra le sue braccia. Magari farci sesso, tanto di quel sesso da tirarmi fuori dalla testa tutto il casino che era la mia vita. Invece sono riuscita a mantenere un tono distaccato, sono riuscita a dirgli quello che mi ero preparata.

Ho rifiutato il passaggio di Pete e me ne sono tornata a casa a piedi per evitare un interrogatorio o la paternale. Sono riuscita a evitarlo per un po', fino a stasera. È sabato notte, è passato un mese dall'ultima volta che ho visto Dominik, il turno di lavoro è appena finito e Pete mi ha intrappolata nella sua auto. Vuole parlarmi e so già cosa vuole dirmi. Blocca le portiere e si gira a guardarmi.

«Ti terrò in ostaggio in quest'auto finché non ti deciderai di parlare. E, credimi, ho una pazienza infinita, io. E ho anche fatto il pieno, quindi potrei guidare per miglia e miglia, per giorni magari».

Metto il broncio e incrocio le braccia al petto, ma non serve a nulla. «Cosa vuoi sapere? Ti avrà già raccontato tutto il tuo amico del cuore, no?»

«Voglio sentire la tua versione dei fatti».

«È la stessa sua, nulla da aggiungere».

«Perché?»

«Perché è così e basta. Non voglio iniziare una storia con lui. Punto».

«Riformulo la domanda: sembrava andasse tutto alla grande tra voi, cos'è stato a cambiare le cose?»

«Io. Io ho deciso di cambiare».

«Ti rendi conto che sei in torto, vero? Ti rendi conto che stai facendo la stronza con me e l'hai fatto anche con lui?»

«E allora? È vietato dalla legge essere stronzi? Al tuo amico riesce piuttosto bene. E io sono stanca che siano sempre gli altri a fare gli stronzi con me, d'ora in poi sarò io la stronza egocentrica. Dillo pure al tuo coinquilino».

«Dominik. Si chiama Dominik. Non riesci nemmeno a dire il suo nome perché stai provando quello che prova lui, perché i tuoi sentimenti non sono cambiati». Sbuffo infastidita. Perché ha ragione. «Lui ti ama, Helen, ti ama davvero. È uno straccio. Non mangia, beve e basta. Passa le notti ubriaco e le mattine con il doposbronza. Non va al college, non si lava, non parla. Se mi dici che sentire queste cose non ti fa effetto allora ti lascerò stare e me la vedrò io con lui, ma sai quanto me che ti fa male sapere che è ridotto così. E lo è per colpa tua, questo lo devi capire».

Non rispondo. Guardo la strada davanti a noi, non so nemmeno in che direzione sta guidando Pete. E, cazzo, non posso dire di fregarmi delle condizioni di Dominik perché non è così. Ancora non sono riuscita a smettere di amarlo. Ma ce la farò. E ce la farà anche lui.

«Non posso» sussurro più a me stessa che a Pete.

«Gli hai detto che è uno stronzo come il tuo ex, o qualcosa del genere. Come ti saresti sentita se lui ti avesse detto che sei una ragazza uguale a tutte le altre. O che sei una puttana come tutte quelle che si è fatto prima di te. Sentiamo, come avresti reagito, cosa avresti detto?»

Divento rossa per la vergogna, ma non rispondo. Pete sa già la risposta. Dovevo ferirlo per far in modo che non mi cercasse più.

«Ha comprato una nuova moto» mi dice dopo un po', spezzando il silenzio.

«Sono felice per lui».

«Non ci è mai salito. L'ha comprata, ha comprato un nuovo casco, bianco, per te, e l'ha parcheggiata in garage».

Il mio cuore non sa se smettere di battere o schizzarmi fuori dal petto. Resto in silenzio.

«Ti sei mai chiesta perché abbia venduto la sua Honda?» Scuoto la testa. «Pensaci. Ci teneva davvero a quella moto. Ci teneva un sacco. Era l'ultimo regalo da parte di sua madre prima che lo lasciasse qui. Se ne serviva per non pensare, se ne serviva per sentirsi libero quando non sopportava più vedersi esiliato qui, senza le sue macchine, senza il suo appartamento di lusso e senza tutto l'agio in cui è nato e in cui era solito vivere».

Aggrotto le sopracciglia.

«Non lo sapevi, vero? Non dovrei raccontartelo, ma dato che non c'è più possibilità per voi due, tanto vale che tu lo sappia: Dominik arriva da una famiglia ricca, molto ricca, così ricca che non puoi nemmeno immaginare quanti soldi abbiano e quanti ne abbia lui. Non che dovrebbe interessarti, certo, ma è per farti capire quanto soffre a stare qui. Io e te siamo nati senza niente e ci siamo abituati a conviverci. Lui no, lui non ha mai dovuto lavorare. Aveva le sue carte di credito, con quelle aveva sempre tutto quello che voleva. Macchine? Motociclette? Case? Erano alla sua portata, tutte. Era un giocatore di football a un passo dalla carriera da professionista. Poi ha combinato una cazzata, una sola di grave, ed è finito qui. Senza niente. Ora capisci cosa deve provare? Capisci quanto sia tormentato quel ragazzo? Aveva trovato te, e sembrava che la vita fosse tornata a sorridergli, poi l'hai fatto piombare in un baratro ancora più profondo di quello dal quale l'avevi tirato fuori».

Non riesco a fermare le lacrime che mi rigano le guance.

«Ragiona su tutto, poi fai le tue scelte. Pensa al motivo per il quale avrebbe rinunciato alla sua moto... per te». E mi apre la portiera, spingendomi fuori dalla sua auto proprio davanti a casa mia.

Sono confusa, molto, soprattutto dalle ultime parole di Pete. Cosa può c'entrare la sua moto con me? Io non gli ho mai chiesto di venderla. Mi piaceva e gliel'avevo detto.

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