11. Hel, stai giocando con il fuoco
Per tutta la settimana non ho fatto che pensare a Helen, l'antipatia nei suoi confronti non se n'è del tutto andata, ma devo ammettere che l'ho rivalutata un po' dopo quello che mi ha raccontato. E mi sento io lo stronzo. Sono in una situazione di merda anch'io, ma mi ci sono ficcato da solo, inoltre ho la consapevolezza che quando ne uscirò sarà solo un brutto ricordo. Alla fine del prossimo anno academico io tornerò nella mia villa in California o, se le cose andranno come mi auguro, continuerò i miei studi in un'università della Ivy League. Pete resterà incastrato in un matrimonio con una stronza adultera e continuerà a pagare gli alimenti a un figlio non suo mentre sognerà la sua pasticceria continuando a farsi il culo in un'officina e un pub. Helen forse non avrà più una casa o si trasferirà chissà dove, non lo so, non conosco la sua storia, ma so che non c'è modo che riesca a racimolare abbastanza soldi con la misera paga che ci dà Minerva. Cazzo, se solo avessi a disposizione le mie carte di credito, ne basterebbe una per sistemare quei due per la vita. Forse, in fin dei conti, la dannata Minnesota mi lascerà qualcosa: la chiara e concreta consapevolezza di essere uno stramaledetto privilegiato. Non ho mai provato vergogna per la vita agiata che ho sempre avuto, ora però, all'idea che Helen possa scoprire chi sono davvero, la gola mi si serra e la bocca mi diventa arida come un dannato deserto.
Non ho fatto altro che rintanarmi in casa e prendermi avanti con lo studio per tutta la settimana – non che non avrei voluto uscire, ma sono ancora al verde, quindi ho inventato qualche scusa con Pete e sono rimasto qui – e venerdì arriva in un attimo. Pete ha un appuntamento dopo il lavoro, non so dove vada alle tre del mattino, ma non ho nemmeno indagato, quindi vado al lavoro in moto.
Deposito la giacca di pelle e il casco nel mio armadietto mentre continuo a tenere d'occhio la porta dello spogliatoio, ma Helen non arriva. Mi chiedo se non abbia rinunciato al lavoro per colpa mia. È un lavoro di merda, ma a lei serve, quindi mi sentirei uno stronzo se ci avesse rinunciato per come l'ho trattata. Mi cambio la maglietta e vado dietro al bancone. Parlo con Carter continuando a tenere d'occhio l'ingresso del personale e l'orologio quando, a due minuti dall'inizio del turno, sento spalancare la porta e una biondina ci saluta correndo verso lo spogliatoio. E, non so perché, ma mi scappa un sorriso e un sospiro di sollievo.
«Ragazzi, Helen non è ancora arrivata?» chiede Minerva. Stasera sfoggia un abitino verde come il trucco piuttosto marcato attorno ai suoi occhi. Secondo me non ha ben presente la sua età, qualcuno dovrebbe dirle che dopo i trenta un certo look fa più puttana di basso rango che panterona sexy, che è ciò che vorrebbe tanto sembrare.
«Si sta cambiando» le risponde Carter.
«Bene, la aspetto nel mio ufficio, ci pensi tu a dirglielo?»
«Lo faccio io» salto fuori e, appena lei si chiude in quel buco che chiama ufficio io vado nello spogliatoio.
La mano mi trema mentre spalanco la porta perché ho una vaga idea di quello che potrei trovarci al di là e la cosa mi rende parecchio nervoso. Perché? Non ne ho idea. Il cuore mi batte all'impazzata quando la vedo: di profilo, in reggiseno e jeans, che cerca di aprire il suo armadietto.
«Minerva ti vuole nel suo ufficio» pronuncio cercando di mantenere un tono di voce calcolato, poi lei si gira di scatto nella mia direzione e si porta le braccia nude a coprire il reggiseno verde a pois rosa, ma è più lenta del mio sguardo.
E non riesco a distoglierlo, questo cazzo di sguardo. Percorro ogni millimetro di pelle che mi permette di vedere più e più volte e, porca puttana, mi sembra di essere fermo in questo istante da una vita. Sono imbarazzato per la mia reazione, ma anche incazzato perché lei si sta nascondendo da me, dal mio sguardo avido. Merda, devo andarmene, altrimenti comincerò il turno con un'imbarazzante erezione.
«Bello il reggiseno a pois» esclamo prima di sparire e, per la fretta, lascio la porta aperta.
«Com'è la nuova arrivata?» mi chiede Carter distogliendomi dai miei pensieri. Pensieri non proprio casti proprio su quella che lui chiama "nuova arrivata".
«Stronza» rispondo di getto, non distogliendo mai lo sguardo dalla porta dalla quale so che lei entrerà da un momento all'altro.
«Mmm... è sexy almeno?» Mi riscuoto e punto lo sguardo sul mio collega. «Okay, vado a constatare da solo».
«No!» grido, «No, intendevo... sarà già nell'ufficio di Minerva».
«Okay, amico, ti stai comportando in modo strano; te ne rendi conto, vero?»
«Scusami, Carter, è che sono davvero stanco stasera».
Per fortuna vengo salvato dall'ingresso dei primi clienti nel locale, quindi li seguo fino al tavolo e prendo la loro ordinazione. E la sorpresa arriva quando la passo a Carter e vedo Helen di fianco a lui. Rossa in volto come una verginella imbarazzata. Come se non avesse mai mostrato il suo corpo ad altri ragazzi. E, per quanto ne so, potrebbe anche essere così. Merda, devo darmi una calmata! Ma lei, la stronza, sembra decisa a peggiorare la mia serata quando si morde il labbro inferiore e allo stesso tempo sbatte le lunghe ciglia scure come se fosse un dannato cerbiatto. Serro la mascella e mi preparo a farla sparire dalla mia vista per un po'. Sono già nei casini fino al collo, non mi ci ficcherò ancora di più portando via la sua "preziosa virtù" alla figlia dello sceriffo. No, nemmeno se mi pregasse in ginocchio.
«C'è lo spogliatoio e il bagno dei dipendenti da lavare. E pretendo che tu pulisca ogni angolino di quel fottuto posto» pronuncio tra i denti. «Entro domani possibilmente».
La vedo riscuotersi, poi spalanca gli occhi e scappa via come se avesse le fiamme attaccate a quel culetto da verginella.
«Sicuro di star bene, Dom. Sei stato parecchio stronzo con lei, non credi? Da quando in qua siamo noi a pulire lo spogliatoio?» mi chiede Carter mentre mi passa il vassoio da portare all'unico tavolo occupato.
«Da quando lo dico io». Prendo l'ordine e me ne vado. Finirà mai questa nottata?!
Passano diverse ore prima di veder tornare Helen nel locale e quando lei entra mi limito a dirle di servire ai tavoli ed esco per la mia pausa sigaretta. Stavolta vado da Pete, ho bisogno di una distrazione. Devo distrarmi da quei capelli mezzi biondi, da quegli occhi verdi e dall'aria da verginella della loro proprietaria.
«Dimmi un po', dove vai alle tre di notte?» chiedo a Pete.
«Beh, ecco... non è niente di che, ho solo un appuntamento».
«Alle tre?»
«Ho conosciuto una su Tinder e si dà il caso che anche lei lavori di notte, in una discoteca a un'ora da qui. Finisce alle cinque, quindi dopo il lavoro ci vediamo da lei».
«Ah... Deve essere una gran figa se sei disposto a passare la notte in bianco per lei».
«Lo è,» mi risponde prendendo il cellulare dalla tasca interna della giacca, «eccola qui».
Prendo il telefono di Pete e guardo la foto profilo di Tinder: non è proprio il mio tipo, sembra piuttosto rifatta, ma non è male.
«Buon per te, amico».
«Le posso chiedere se ha una collega da presentarti» mi dice facendomi l'occhiolino.
«Nemmeno per sogno, io a quell'ora starò già russando da un po'».
«Sembri mio nonno».
Lancio un'occhiataccia al mio coinquilino e me ne torno nel locale. Carter è alle prese con lo spillatore di birra e Helen è al suo fianco. Perché Helen non sta servendo ai tavoli, come le avevo chiesto?
«Cosa ci fai dietro il bancone?»
Trasalisce e si porta una mano al petto appena mi vede.
«Carter mi stava insegnando come spillare la birra».
«Te l'ho già insegnato io» ribatto alzando la voce.
«Beh,» comincia abbassando lo sguardo, «non avevo ancora capito bene».
Le rivolgo un'occhiata che la mette subito a disagio, dato che mi evita come la peste, poi la faccio andare a lavare i bagni dato che questa notte non l'aveva ancora fatto. E mi rendo conto di comportarmi da stronzo, ma lei è così... è così insopportabile. Poi era così vicina a Carter. E lui la stava guardando in quel modo. Merda! Ripensandoci forse avrei dovuto accettare l'invito di Pete. Mi sembra di essere tornato adolescente, tanto ho gli ormoni in subbuglio. E non è Helen, non può essere lei, non è neanche così bella. È solo che non mi sto divertendo quanto in California e ne sto risentendo. No, cazzo, lei è bella per davvero, dovrei essere cieco per non vederlo, ma è anche off-limits, troppo off-limits per il sottoscritto.
Il turno, che sembra essere durato tre giorni, finalmente finisce. Vado nello spogliatoio prima di Helen questa volta perché voglio proprio risparmiarmi una scenata simile all'altra volta, non è la serata giusta. Mi cambio alla velocità della luce ed esco, con la giacca di pelle ancora aperta sulla T-shirt bianca che indosso sotto e il casco infilato sul braccio destro. Ho già la sigaretta pronta per essere accesa quando noto Helen e Carter che stanno parlando fuori dallo spogliatoio.
«Ciao, Dom, ci vediamo» mi saluta lui.
«Ciao Carter».
Mi saluta anche lei, ma non le do corda, non le rispondo. Cristo, non la guardo nemmeno. È da quando ho messo piede nello spogliatoio che l'unica cosa a cui riesco a pensare è quel fottuto reggiseno a pois. E ne ho vista di biancheria intima femminile nella mia vita: reggiseni, corpetti, a balconcino, push-up, imbottiti, non imbottiti, in pizzo, raso, cotone e di tutti i colori del mondo, ma non me ne ricordo nemmeno mezzo. A differenza del suo. Mi rendo conto solo ora che non penso più alla sua amica da un po'. Eppure avevo una vera ossessione per quella bella mora. Ora ne ho una per la sua amica stronza, strana la vita, eh?! E so che ci vorrebbe poco per farmela passare: una scopata e chi s'è visto s'è visto. Ho anche la casa libera, ma non posso. Non con lei.
Mi appoggio alla moto e prendo una boccata di fumo dopo l'altra cercando di finire la sigaretta il prima possibile e andarmene, ma prima che possa montare in sella Helen esce dalla porta che dà sul vicolo. Dovrebbe esserci la sua amica, no? Di solito è lei che la viene a prendere mi sembra. Invece è da sola, e mi rivolge solo un'occhiata di sfuggita mentre si incammina verso la strada principale. Le guardo il culo per un solo istante, poi accendo la moto e la seguo.
«Non è passata April?» le grido da sotto il casco per sovrastare il rumore della moto. Lei scuote la testa continuando a camminare. «E come torni a casa?» In risposta aumenta il passo.
Resto imbambolato per un attimo, do un'altra sbirciatina al suo didietro e riparto alla carica.
«Non puoi tornare da sola, è notte».
«Sì che posso» ribatte senza mai smettere di mettere un piede davanti all'altro.
«Ti accompagno io».
«No, grazie» grida e poi aumenta ancora il passo. Testarda del cazzo!
Accelero e piazzo la moto di traverso proprio di fronte a lei, sbarrandole la strada. Mi guarda come se fossi io quello pazzo mentre mi slaccio il casco, poi tenta di aggirare la moto, ma io sono più veloce: con la mano destra la afferro per un braccio e con la sinistra mi tolgo il casco.
«Ora non fare la stupida! Indossa il casco e metti quel culo sulla sella» le ordino, ma sembra sorda, non muove un muscolo. «Cazzo, Hel, non ti lascio tornare a casa da sola, a piedi, di notte. Scordatelo».
«Ora t'importa della mia incolumità?»
«Monta in sella o ti trascino di peso».
«E dimmi, cosa potrebbe mai succedermi se vado da sola? Che un maniaco mi sbarri la strada in moto e mi obblighi a salirci? È questo che ti preoccupa tanto?»
«Hel, stai giocando con il fuoco. Sali o te ne pentirai per il resto dei tuoi giorni» le grido contro infilandole io stesso il casco in testa.
Lei incrocia le braccia al petto e mi guarda attraverso la visiera aperta. E, porca puttana, i suoi occhi verdi brillano sotto la luce del lampione, in mezzo al nero del casco. Stringo i pugni e la mascella e deve aver capito che non è un buon momento perché senza proferire parola sale sulla moto. Non la sento nemmeno, tanto è minuta e lontana. Non è che ci sia chissà quanto posto, una moto stradale come la mia ha il sellino per il passeggero grande quanto il palmo di una mano, ma lei trova comunque il modo di starmi il più lontano possibile.
«Ti stai tenendo?» le chiedo e sento un debole «Sì» in risposta.
Faccio un po' di manovra per rimettermi in carreggiata e ingrano la prima. Sto guidando piano perché temo non si stia tenendo abbastanza e possa cadere. Tasto con la mano sinistra per sentire dove è andata a finire e, girandomi a guardarla, mi rendo conto che si sta tenendo saldamente alle carene della moto, quindi ingrano ancora qualche marcia e do gas. È quando sono ormai in quarta e sto guidando a centottanta chilometri orari che sento le sue braccia stringermi la vita. Ora si ragiona! È aggrappata a me come una sanguisuga. Sento il suo petto appiccicato alla mia schiena e riesco perfino ad avvertire il suo battito accelerato, quindi accelero ancora. Non so dove sto andando, non so nemmeno perché lo sto facendo, so solo che il solo contato con lei mi piace. E mi spaventa a morte.
Giro come un ossesso per le vie secondarie di questo paesino dimenticato da Dio senza mai ridurre la velocità. A ogni curva le sue braccia si stringono attorno ai miei fianchi. Poi freno, quando mi rendo conto di averla praticamente rapita, e il tutto il suo peso mi finisce sulla schiena. È schiacciata contro di me e l'unica cosa a cui riesco a pensare è l'idea delle sue tette, racchiuse in quel fottuto reggiseno a pois, schiacciate contro di me. Non so dire da quanto tempo il mio cazzo stia pulsando contro il serbatoio della moto né quanto resisterò ancora prima di provare un approccio con Helen. Ormai siamo del tutto fermi al centro di una strada deserta, in piena notte, e la sento parlare, ma non presto attenzione a una parola.
Ingrano di nuovo la marcia e sfreccio verso casa sua. Mi fermo nel vialetto ed è quando noto la macchina dello sceriffo parcheggiata davanti che torno del tutto alla realtà. Quando Helen scende, parto sparato verso il mio appartamento senza guardarmi indietro. Mi maledico per tutti i fottuti pensieri che ho fatto su quella ragazza per tutta la notte. E cerco di ricordare a me stesso che lei non è una santarellina vergine, bensì la stronza che odiavo fino a una settimana prima. E che ora non è più solo la stronza, ma è diventata Hel, il mio cazzo di inferno personale perché sono irrimediabilmente attratto da lei, ma non posso averla né posso sfuggirle.
Parcheggio la moto e scendo, rendendomi conto solo ora di averle lasciato il mio casco. Prendo il pacchetto di sigarette dal taschino interno della giacca di pelle e accendo, al terzo tentativo per via del tremore delle mie mani, un'agognata sigaretta. Mi riempio i polmoni, boccata dopo boccata, di maledetto fumo e nella mia mente si susseguono tutti gli eventi della serata, uno a uno, a partire dalla vista del suo corpo che ora immagino nudo.
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