Busso alla porta di Pietro con il cuore che batte all'impazzata, ma suppongo non sia esattamente perché sono felice di vederlo. Ho aspettato la fine della riunione per riuscire a parlargli da sola e ora spero solamente di riuscire a dirgli tutto quello che mi passa per la mente.
«Finalmente!»
Mi viene incontro in cerca di baci e abbracci, che io però rifiuto passando subito al punto della questione.
«Pietro, esattamente quando pensavi di dirmelo?»
«Abbassa subito il tono, signorina. Cos'è che avrei dovuto dirti?»
«Per esempio che ti sei proposto per andare a Taiwan.»
«È un'occasione unica e penso di essere abbastanza adulto da poter decidere della mia vita, non ti pare?»
«Avresti dovuto parlarmene. Pensavo stessimo insieme io e te.»
«E questo, cosa c'entra? Non dirmi che sei una di quelle fidanzate iper-possessive che sentono costantemente il bisogno di sentirsi dire cose carine e che pretendono di avere il proprio partner sempre a loro disposizione, perché in quel caso non sono disponibile.»
Riduco gli occhi a due fessure, stringo le mani in due pugni che vorrei schiantargli addosso. Non può trattarmi così. Non dopo che ho scelto di stare con lui rinunciando ad Alessio.
Chiudo gli occhi. Cerco di ricordarmi il motivo per cui ho smesso di lottare per l'uomo che amo e che non è quello che si trova qui con me.
La consapevolezza mi coglie all'improvviso e mi travolge. Come un tornado spazza via ogni mio barlume di speranza e illusione.
Gli occhi si gonfiano di lacrime amare e rabbia. Frustrazione. Tristezza. Inquietudine.
Sento due dita sfiorarmi il braccio e sussulto, in apnea.
Apro gli occhi e lo sguardo di Pietro è un colpo inferto dritto allo stomaco.
«Non mi toccare» sussurro.
«Che ti prende?»
Le dita attorno al braccio diventano tre, quattro, poi cinque. La stretta aumenta. Il dolore pulsa, nel fisico e nell'anima.
«Hai mica deciso di fare la preziosa con me?»
Mi sfiora il collo con le sue parole. Tento di staccarmi, ma la presa è troppo stretta per riuscire a reagire e liberarmi.
Il cuore accelera. Conto i battiti. Sono irregolari. Arranco. Sotto la sua forza, soccombo.
«Non respiro» sussurro, a voce troppo bassa perché lui possa sentirmi.
Cerco di scostarmi da lui, ma non riesco a muovermi di un millimetro.
«Dove pensi di andare, eh?»
Passa la lingua sul mio collo, risale verso il viso, cerca la mia bocca. Serro le labbra, in un gesto istintivo quanto di urgenza. Un rifiuto silenzioso.
Non mi rendo conto della sua rabbia inespressa, finché non mi sento strattonare, prima per i capelli, poi per le braccia. Mi ritrovo con il viso contro la parete fredda, schiacciata da quel corpo che credevo di amare e che ora mi sta togliendo anche l'ultimo briciolo di dignità rimasta. Il viso brucia. Di lacrime e terrore.
Ho la testa ovattata, non percepisco alcun rumore all'infuori del battito accelerato del mio cuore.
Mi accorgo della presenza di Marta, solo quando si rivolge a me con tono stizzito.
«Farò finta di non aver visto nulla. Contenetevi. Non siete a casa vostra. E tu, Lisa perché sei qui invece che alla tua scrivania a prenotare la nostra partenza?»
Mi volto piano, lo sguardo ancora ancorato al suolo. Respiro. Il battito si placa. Alzo gli occhi per incrociare quelli che fino a pochi giorni fa trasmettevano l'unica forma di amicizia all'interno di questo posto. Ora, invece, sembrano pervasi da una strana forma di rabbia.
«Marta...avresti dovuto bussare» pronuncio, più per tentare di dare un senso a quanto appena accaduto.
D'istinto mi accarezzo i polsi. Solamente ora riesco a sentire il dolore al tocco.
«Perché avrei dovuto bussare? Pietro mi stava aspettando dato che dobbiamo discutere di dettagli importanti. Sei tu quella di troppo, qui.»
La guardo scioccata. Da quando lei mi dà gli ordini? È sempre stata così stronza senza che lo sapessi? Possibile che questo piccolo avanzamento di carriera sotto forma di trasferimento le abbia dato così tanto alla testa?
Raccolgo le lacrime e le incertezze e mi richiudo la porta alle spalle. Vado diretta alla mia postazione, nascondo il viso dietro allo schermo e inserisco in maniera quasi automatica tutti i dati utili per prenotare il volo che allontanerà Pietro da me. È meglio così.
Appena finito, non mi prendo nemmeno la briga di stampare i biglietti cartacei e consegnarli a Pietro. Inoltro tutto via e-mail, compreso il mio addio scritto.
Non ho più alcuna intenzione di continuare a mentire a me stessa, né di farmi umiliare e maltrattare da un uomo che invece avrebbe dovuto rimettere insieme i miei pezzi.
Chiudo gli occhi. L'eco lontano di una camminata mi travolge i sensi. Tento di concentrarmi su altro, riprendo a guardare lo schermo. Il simbolo di un messaggio non letto, mi lampeggia davanti e mi distrae da quello che sarebbe il mio compito.
È la chat interna, quella a cui abbiamo accesso in pochi.
"Convocazione da parte di Martelli. Riunione tra dieci minuti."
Sorrido nel leggere il nome di Alessio come mittente. Prendo una pila di fogli e li sbatto sul tavolo affinché si livellino, li stringo al petto e afferro la prima penna che mi capita sottomano. Mi alzo nello stesso istante in cui Pietro si piazza di fronte a me. Vorrei non tremare, ma è inevitabile visto quanto successo nel suo ufficio poco fa. E i segni, ben visibili sui polsi, non fanno che ricordarmelo.
«Che cazzo significa quella stupida e-mail?»
«Pietro, scusami, ma ora proprio non ho tempo.»
Gli volto le spalle e muovo qualche passo in direzione della sala riunioni, ma uno strattone al braccio, l'ennesimo, mi fa tornare sui miei passi.
«Tu di qui non te ne vai se prima non mi dici cosa pensavi di fare con quelle due righe scritte.»
«Mi stai facendo male. Lasciami prima che mi metta a urlare.»
«Te la tappo quella bocca.»
Mi lascia andare con una spinta. I fogli mi cadono dalle mani, sparpagliandosi per tutta la stanza. Mi chino a raccoglierli, ma il tremore che ho in tutto il corpo li rende scivolosi. Non riesco nemmeno ad afferrarli.
Sussulto al rumore di una porta che sbatte in lontananza. Ancora di più quando qualcuno mi afferra per la vita e mi rimette in piedi.
Lo sguardo preoccupato di Alessio penetra in ogni centimetro del mio corpo.
«Lisa, ti senti bene?»
Annuisco e sorrido, ma il cenno è troppo abbozzato per risultare credibile.
Non sto bene. Quello che dovrebbe essere il mio fidanzato, lo stesso per cui ho rinunciato alla parte fondamentale di me che ora mi è di fronte, è un violento, ma appena cerco di prendere le distanze, non riesce ad accettarlo.
Vorrei poter chiudere qui e ora, ma non ne ho la forza. L'unica speranza a cui mi posso appigliare è il fatto che fra pochi giorni sarà a settemila chilometri di distanza da me.
E io farò di tutto per evitare che mi trovi.
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