Interludio: Sul perché chiamarle ''emozioni''


          Bruno pensa, quella notte.

Pensa al troppo e pensa al niente, ché una quantità ai propri pensieri fumosi non la saprebbe dare, tanto meno un nome e una direzione: è più uno scagliar cieco di freccette su un bersaglio invisibile.

Pensa che sono i dettagli, la cosa più importante. I guizzi fugaci, i rumori di fondo, gli odori nascosti e tutto ciò che sfiora i sensi ed è impalpabile, se non facendovi caso – e lui vi fa caso fin troppo, come se dovesse fare autopsie al mondo ogni volta che lo guarda.

Pensa che non si dovrebbe sentirlo, il cigolio costante del letto mentre si fa l'amore; che non dovrebbe essere un qualcosa di così forte e invadente, un ticchettio molleggiante in sincrono con l'orologio che scandisce quanto calore effimero si può ricevere in quel giro di quadrante, sperando quasi che finisca presto – finché non lo investe il coito, almeno, e allora vorrebbe ricominciar da capo tutto e scordarsi del cigolio, provare almeno a ignorarlo mentre si immerge in una donna che potrebbe avere un nome e un volto qualsiasi.

E, forse, s'impegna in quella pur piacevole trafila solo per potersi poi godere un letto senza cigolii, adagiato nel silenzio fiacco e immobile, fatto di respiri e carezze a scadenza.

Pensa che, a notare troppi dettagli, si rischia di perder di vista l'insieme – ma che l'insieme è bene non vederlo, di tanto in tanto, quando ha il suono delle marcette e delle radio sbraitanti da balconi lontani.

Pensa che, a guardare così intensamente la vita da vicino, si rischia di rimanere accecati; e che, però, è bello trovar bellezza, e che la bellezza è, sì, annegarsi gli occhi nei flutti del Golfo al tramonto, o inebriarsi del profumo del ragù per i vichi la domenica mattina, o perdere la bocca nella cedevolezza soffice del seno di Marisa, o sentire l'amaro del buon caffè sulla lingua – ma è anche altro, è anche indicibile e intangibile e impossibile da afferrare se non con lo sguardo, se non per il tempo di uno sfarfallio di ciglia al sole.

Pensa che è bella anche la foto con Ettore sul tavolino del salotto, con suo fratello tutto impettito nella divisa e quei baffetti ridicoli che s'era fatto crescere per sembrare grande; e lui che, invece, sembra appena uscito da un covo di bohémien e pare capitato lì per caso – gli strizza il cuore come uno straccio, quella foto; eppure, dev'esser bella, se la lascia lì in bella vista così da poterla guardare ogni giorno, come se così potesse sbirciare dal buco della serratura del tempo.

Pensa che sono belli gli spiragli così, quelli appena percettibili: un mutamento di luce soffuso, un colore che si spande come un acquerello, il riflesso giocoso del sole su una pozzanghera – o un sorriso nascosto, una parola in più, uno sciogliersi ed esporsi improvviso, un gesto gentile che gli sembra d'aver a lungo atteso: provocano uno slittamento dell'anima, talmente minimo da passare inosservato, come quando la terra si gonfia pian piano e non ci si fa caso, per poi ritrovarsi il soffitto pieno di crepe non appena si punta il naso all'insù*.

Pensa che non c'è nulla di male nell'ignorare le crepe per un po' e desiderare per sé un sorriso, o inseguire il sole negli occhi degli altri; che c'è un che di inesplicabilmente caldo nell'affidarsi inerme e zuppo d'alcol alle mani qualcuno; che c'è un qualcos'altro di intrinsecamente giusto in un rimbrotto schietto che non teme di recidere legami, ché ormai sono troppo stretti per cedere; e che certi spiragli sono brecce e finestre spalancate da cui vorrebbe affacciarsi, ora che gli è stato concesso di vederli – ora che li porta impressi sulla pelle in impronte elettriche che gli pizzicano i nervi come dita sulle corde tese di un violino stonato.

Pensa che forse è per questo che ai francesi piace tanto chiamarli "emozioni"*, quei tramestii interni che sembrano far rumore e provocano moto, appunto, un saliscendi di groppi in gola e nodi avvinghiati nello stomaco – e gli sembra più un fenomeno medico che altro, un fenomeno che forse è un male da curarsi per tempo, prima che degeneri e diventi intrattabile, ora che ne è contagiato.

Pensa che forse il male ha anche un sapore, un odore, un timbro d'avvertimento a stargli lontano. Solo che con lui funziona al contrario e lo attira, invece, e quegli avvertimenti gli si sciolgono in bocca e gli inebriano il naso – e il suo male sa di tiglio e cognac, un miscuglio dolce che gli naviga sottopelle e vorrebbe assaggiare.

Ma sceglie di scordarselo al mattino, ché per quella notte gli pare d'aver pensato abbastanza.

Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
intanto, mi scuso con Battisti per averlo scomodato involontariamente in questo titolo. Dopo lui e Vasco, potrei fare la simpatica e dire che manca De André, ma a lui ho rubato talmente tanti titoli in altri lidi che non sarei credibile, ops.

VI lascio ai pensieri confusi di Bruno, che continueranno a essere confusi ancora per un po', ma non così tanto da essere frustranti... almeno spero :')

Grazie a tutti voi che leggete e commentate ♥
A prestissimo,

-Light-

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