9.2 - Sull'esser (quasi) sinceri
*
Nuvole dense gli si accapigliano in testa al pari di quelle che si scorgono all'orizzonte, così basse che paiono impigliarsi sulle creste aguzze di Capri.
Se la sente addosso, la tensione che si son portati fin lì dalla Questura, quasi possa lasciare impronte tangibili dietro di loro. Non è stata una passeggiata: più una marcia inframezzata da qualche smozzico di conversazione cavato fuori con le pinze. Ed è Ricciardi, quello più loquace – una cosa così assurda da stentare a crederci, che lo fa sentire più rotto di quanto già non si senta.
Quando arrivano al lungomare, assapora una boccata d'aria salina. Spegne il sigaro, che s'è concesso di fumare visto il vento che spingeva il fumo via da Ricciardi, e si gode quelle inalazioni di certo più salubri del tabacco. Non servono a schiarirgli troppo la testa, però: si sente il cervello arricciato come i capelli che tiene in testa e manco serve passarci una mano in mezzo, ché rischia solo di riannodarli peggio.
Si poggia coi gomiti al parapetto, gli occhi fissi sullo specchio ustorio del sole che sta calando. È sera, ma la luce è calda e soffusa, velata dall'afa e dalle nubi che preannunciano un temporale estivo che forse scaricherà sul mare e non su Napoli.
Ricciardi si poggia di fianco a lui, più composto.
«Sei serio, oggi,» proferisce poi, spezzando il silenzio assieme al grido sobbalzante di un gabbiano.
Bruno tira le labbra e quasi sbotta a ridere.
«È così strano? M'hai appena fatto un lisciebusso che non finiva più.»
«Tu te ne freghi, dei rimproveri, e non sei mai davvero serio.»
Lo dice con un brillio negli occhi – che Bruno si sta impegnando a non fissare troppo, ora che sono inondati dai raggi del sole calante.
«Bruno, che c'è che non va?»
Lui getta fuori un sospiro snervato. Non riesce a capire se ci è o ci fa – lo sta facendo ascì pazzo, con quell'atteggiamento da banderuola incostante, prima irritato, poi disponibile, poi di nuovo immusonito. Ma che gli piglia? Gli sovviene il pensiero che, forse, se davvero ha intuito che è un deviato, si sta sforzando di non schifarlo troppo o di non darlo a vedere, almeno.
Decide di stare al gioco – o di apprezzare lo sforzo, almeno, e approfittarne un poco.
«Tengo pensieri, Riccia'. Non è per prima, però.»
«Devo invitarti di nuovo a cena?» sorride appena lui, spiazzandolo – e sembra il suo opposto, adesso, così incomprensibilmente di buon umore. «Niente vino né cognac per te, però.»
Bruno scrolla la testa e arriccia le labbra, nascondendole tra la barba. Non ci capisce più niente.
«Sempre che tu non abbia "impegni", stasera.»
Non riesce a decifrare la sua intonazione, ma ha assottigliato gli occhi come quando vuol prendere in giro qualcuno. In altre circostanze, Bruno riderebbe – di se stesso e dei suoi vizi. Invece, storce la bocca in quello che è un'artefatto simulacro di sorriso; gli mancava di pensare al casino che ha combinato, che in effetti è solo il tassello più grande del casino che si porta in testa. Almeno, di quello potrebbe parlare.
L'ilarità sul volto di Ricciardi si smorza appena e lui s'affretta a correre ai ripari:
«Gli impegni, ogni tanto, possono pure aspettare per un po'.»
«Bruno, sto scherzando.»
«Lo so, lo so...»
Poi sospira, così a fondo che si fa male ai bronchi; cerca i suoi occhi e se li ritrova già addosso, stavolta segnati da linee di preoccupazione all'intorno. Sono di quel verde acquamarina che ama, adesso. Le parole evadono di loro sponte dalla sua bocca, rompendo le sbarre che aveva loro serrato attorno:
«Riccia', ho fatto un macello.»
Ricciardi non dice una sola parola, mentre gli racconta quanto accaduto con Gemma; omettendo i dovuti particolari, ovvio. Bruno si sente un carbone ardente in gola, nel rievocare quei momenti di fianco alla persona che ne è inconsapevole artefice: il risultato è una narrazione intrisa d'ironia troppo marcata che gli sfugge di bocca e una racconto fin troppo lungo per il fatto in questione, riassumibile in una manciata di parole: le sono venuto dentro come un infame e che sfaccimma dovrei fare, adesso?
«È tutto?» proferisce Ricciardi, lapidario, alla prima pausa più ampia.
«Sì, penso non ci sia molto altro da dire.»
«È che mi aspettavo di ridere, alla fine, visto che pareva mi stessi raccontando una barzelletta.»
Bruno rialza gli occhi dal cemento del parapetto, dove li ha tenuti inchiodati finora. Si intersecano a quelli di Ricciardi, che glieli ha puntati addosso da non sa nemmeno quanto – e non ridono, quegli occhi, né riflettono alcun gioco di colori allegro. Sembrano invece catturare ogni grigio del cielo adesso più scuro e condensarlo nelle iridi, altrettanto temporalesche e strette dall'espressione dura delle sopracciglia.
«Riccia', e dai: lo sai che non la sto prendendo alla leggera, sennò non te ne starei manco parlando.»
«Pure troppo, parli,» lo rimbrotta lui, col tono tagliente che gli sente usare coi criminali. «Stai sempre a dar aria alla bocca su quanto è importante "divertirsi" e poi non riesci nemmeno a tirarlo fuori per tempo?»
«Non è che l'ho fatto apposta,» ed è quasi vero – se solo non avesse pensato a lui – «... mi sono lasciato prendere, capita.»
«Bruno, mi puoi sfottere quanto ti pare sul fatto che non vada a donne a destra e a manca, ma so da me che non è una cosa che "capita", a meno che tu non abbia qualche problema là sott–»
«Ma per piacere!» s'inalbera lui, con un bruciore che lo scotta in petto – trattiene l'istinto di mollargli uno spintone. «Cos'è, oggi? La giornata dei reprimenda e degli insulti gratuiti?»
«È la giornata in cui mi chiedo se tu abbia quarant'anni o quattordici.»
«Ah, in questo mi dai da pensare anche tu, sai?» soffia via, in un verso di riso nasale. «Io sarò pure cambiato... ma tu sempre lo stesso sei. Tratti tutti così e poi ti chiedi pure perché stai da solo.»
È uno sfarfallio di ciglia fugace, quello che apre uno squarcio negli occhi finora granitici di Ricciardi. Lo fissa, smarrito, per un singolo istante, in cui Bruno vorrebbe riacchiappare quelle parole e ricacciarsele in gola – lo vede benissimo, il dolore che gli ha causato in petto, se lo sente quasi pulsare addosso.
Ricciardi si stacca dal muricciolo e, a voce bassa, parla come se niente fosse appena accaduto:
«S'è fatto tardi.» Una pausa, uno sguardo rapido che trasuda esitazione, gettato verso la città dietro di loro. «T'accompagno prima a casa, però, casomai ti saltasse in mente di combinarne un'altra delle tue.»
Il suo tono oscilla tra il fiacco e il perentorio, un misto indecifrabile che, forse, vuol essere un'offerta di pace – o una possibilità data a lui per offrirgliela, la pace. Bruno non si sottrae del tutto, ma sputa comunque fuori veleno, lo stesso che si sente dentro da ieri:
«E certo... mo mi mancava la guardia appresso, mi mancava.»
Ma si incammina di fianco a lui, in silenzio, reprimendo l'istinto insano di prenderlo per la giacca, urlargli in faccia che lo sta facendo impazzire e che non sa nemmeno più chi siano loro due, per poi abbracciarlo fino a spaccarsi le costole
Non appena raggiungono i piedi della scala esterna di casa sua, la stessa su cui si è inerpicato nemmeno due giorni fa in collo a Ricciardi – e vorrebbe essere di nuovo ubriaco così, adesso – questi si volta verso di lui con un movimento brusco, da arco teso che ha scoccato una freccia dopo averla tenuta in tensione per ore:
«T'ho mai detto il vero motivo per cui io al bordello non ci vado?»
Bruno tira una boccata stanca di sigaro, che stavolta non s'è preoccupato di fumargli accanto. Soffia via la risposta assieme al fumo:
«Perché sei nu bravo guaglione tutto casa e chiesa?»
Ricciardi non raccoglie l'ironia.
«Perché il pensiero di poter mettere al mondo una creatura, senza magari nemmeno saperlo, mi toglierebbe ogni piacere di andarci.»
Bruno scuote appena il capo. Getta via il mozzicone di sigaro e lo pesta col tacco, mettendoci un po' troppa forza. Inizia a sentirsi un puntaspilli per ogni accusa che Ricciardi decida di scagliargli contro oggi.
«Nobile, da parte tua. Questo dovrebbe consolarmi?»
«No. dovrebbe farti riflettere, però. Su cosa vuoi fare adesso, per esempio.»
«E che faccio, Riccia'? Io il mio non l'ho fatto, ormai. Ora è lei che, se tiene un po' di sale in capa, dovrebbe...»
«Dovrebbe cosa? Pensarci da sola?»
«Non intendevo questo.»
«E che intendevi, allora?» Non gli dà tempo di replicare e riattacca, brusco: «Sei un medico: il minimo che puoi fare è assicurarti che non accada nulla e che lei stia bene. E di comportarti da uomo, se qualcosa invece accade.»
«Grazie per la lezione morale; come se non lo sapessi già, quello che devo fare.»
«A me sembra proprio che tu non lo sappia, invece; magari il memorandum ti serve.»
Bruno lo guarda bene in volto, per la prima volta. L'ha pensato anche prima, di sfuggita, ma non l'ha mai visto così irato, nemmeno con i criminali più abietti: quelli, lui, li tratta con distaccata freddezza, non s'infervora a quel modo che gli rende lucidi gli occhi.
Sotto la luce fioca dei lampioni, non sembrano nemmeno più chiari, ma foschi e opachi, seppur tremolanti. Lo spaventa, quello sguardo – lo spaventa per lo scorcio di vuoto che intravede appena dietro.
«Perché ti alteri tanto?» Alza un palmo a frenare quella che sembra una mala risposta e si affretta a riformulare: «Hai ragione, a farlo, e che io sono una testa di merda e che ho fatto una carognata è appurato; non sto dicendo che è una cosa da nulla. Però a me sembra che tu sia... non lo so, che la cosa ti stia pure troppo a cuore. Che ti coinvolga in prima persona, quasi.»
Si dà un pacchero mentale per come gli è saltata fuori quella frase – sì, lui è coinvolto, ma solo nella sua testa e non è proprio il caso di menzionarlo né di usarlo come scusa. Si chiede fuggevolmente se, magari, Ricciardi non sia mai passato per una situazione simile alla sua: spiegherebbe il suo evitare le donne o il non voler figli.
Lui si quieta un poco; un'ombra grigia gli cala in volto, stemperando la rabbia. Sospira e incassa il mento sul petto, lo sguardo appuntato sulla punta delle scarpe.
«Bruno, se mi fosse dato di scegliere, io sceglierei di non essere mai nato.*»
Un battito di silenzio, in cui si sente solo il cigolio delle carrozze qualche traversa più in là.
«Ricciardi, ma che stai dice–»
«Conosco bene la sensazione di essere nato sbagliato.» Rialza lo sguardo su di lui, inchiodandolo sul posto. «Mi immagino che un bambino figlio di una prostituta, nato perché un medico imbecille non ha saputo tenerselo nei calzoni, proverebbe esattamente quella sensazione. Ed è una condanna, sentirsi sbagliati dal momento in cui metti piede al mondo, una condanna che io non infliggerei mai a nessuno. È per questo, che io al bordello non ci vado.»
Bruno, al di là dell'accusa sferrata in pieno petto che lo fa sentire una chiavica, inciampa in caduta libera per un istante – una raffica di pensieri lo assale, in picchiate d'ansia crescenti.
Cosa gli sta dicendo davvero?
Se è "nato sbagliato", allora è afflitto dalle stesse storture che affliggono lui? O, magari, ha male incurabile che gli fa desiderare d'esser morto – ma come ha fatto lui che è medico a non notarlo, allora? Forse è un figlio non voluto, nato fuori dal matrimonio, o non amato? Cos'è che porterebbe mai un uomo a desiderare una cosa del genere – nemmeno la morte, ma la completa non esistenza?
Cosa–
«Vedi di rifletterci su e di fare ciò che devi fare.»
Ricciardi gli sferra un'ultima occhiata che pare arrivargli al cuore, ma nella maniera più sbagliata.
«Buonanotte, Modo.»
E s'avvia giù per il vico senza aspettar risposta, né degnandolo di una parola o uno sguardo di più. Lo lascia lì, con gli stessi cocci di pensieri in tasca che gli graffiano le mani, a sprofondare in una pozza d'interrogativi e dubbi che gli fanno solo venir voglia di non esistere pure a lui.
Note dell'Autrice:
Cari Lettori,
io il litigio non volevo scriverlo, ma hanno fatto di testa loro...
Stiamo entrando nella fase finale della storia, a questo punto, e i capitoli saranno un po' più corposi, ma cercherò di non superare mai i 10 minuti di lettura (note escluse, ovvio).
Mi sto rendendo conto che scrivere Ricciardi da un POV esterno rende chiaro il perché tenda a essere così malvisto e solitario. Non dico che i suoi comportamenti siano incoerenti, perché visti dal suo POV risultano sensati, ma dall'esterno sono quantomeno criptici. Che lui abbia difficoltà relazionali è chiaro... se a questo si somma il peso della sua maledizione, poi, i suoi processi mentali sono imperscrutabili per chi non lo sa = tutti.
Grazie a tutti voi per continuare a leggere questa piccola (ormai enorme) follia ♥
-Light-
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