8. Sugli errori


*

Bruno chiude di scatto il libro davanti a sé con uno schiocco che quasi lo assorda, e trattiene l'impulso di scaraventarlo dall'altro lato della stanza. Il titolo, Atlante di Urologia*, pare fissarlo beffardo dalla copertina con gli angoli smussati e maltrattati dagli anni di studio e consultazione.

Mai avrebbe pensato di riaprirlo ora, dopo quindici anni suonati di pratica medica e alla stregua di un giornaletto erotico, per provare a se stesso che quelle immagini anatomiche non gli causano alcun effetto. E meno male, aggiunge, ché a vedere la sezione dettagliata di un pene e tutto ciò di cui potrebbe ammalarsi gli fa quasi specie averne uno tra le gambe e di ficcarlo qua e là senza accortezza.

Scansa via il volume, adocchiando quello appena accanto: Ginecologia e ostetricia, che tiene meno della metà delle pagine*. Manco quello ha sortito alcuna reazione - e pure quello è un sollievo, anche perché lo stava consultando per tutt'altro motivo.

L'idea di leggere la controparte maschile del tomo gli è venuta, da buon idiota, mentre studiava una sezione anatomica dell'utero, in previsione di qualcosa che, spera, non si verificherà mai.

A parte aver recuperato nozioni seppellite in scatole di memoria ammuffite, dacché non è urologo né ginecologo, non ha concluso un bel niente con quella sperimentazione empirica che non esita a definire illogica.

Ha visto centinaia di uomini nudi, tra visite e interventi e pure autopsie: come ha fatto a non accorgersene mai? A non avere nemmeno una minima reazione, un fremito, un pensiero subito annullato, poiché perverso e immondo?

Ma ha anche visto migliaia di donne nude, nelle stesse identiche condizioni, e mai s'è trovato anche solo a immaginare alcunché - si darebbe uno pacchero mentale per la deriva che i suoi pensieri stanno prendendo: Dio, no che non le guarda a quel modo, quando le visita o ce le ha sotto i ferri! Che razza di medico sarebbe, allora, se s'attizzasse per un paio di tette scoperte o un culo o una vagina? Sono parti solo anatomiche, ammassi di tessuti e nervi da curare, quando è tra quelle mura, o tutt'al più da sezionare su un tavolo di marmo.

Se davvero dovesse mai ridursi a spiar le femmine in ospedale, tanto varrebbe che si reinventasse tubista al soldo dei fasci, così da andarlo a fare al bordello - e lo fa già, gratis, per persone come Marisa, persone come- persone, Cristo, persone.

Si pianta la base dei palmi in viso e preme attraverso le palpebre, le dita artigliate alla radice dei capelli. È stanco. Dopo la sua prodezza da bordello, ha passato il pomeriggio lì in ospedale, ad annullarsi i pensieri. Non era nemmeno di guardia, ma s'è imbucato nel turno pomeridiano con una scusa qualunque che non ha incontrato alcuna protesta.

Un dolore sordo gli attraversa i nervi ottici quando aumenta la pressione sui bulbi oculari.

Il volto stremato di Marisa, dagli occhi scuri come notte, si sovrappone a quello dalle iridi chiarissime che, adesso, gli causano solo un senso di gelo. Rivede il sangue, sparso sulle coperte. I brandelli di tessuto endometriale, la massa informe pugnalata a morte. Sente i singhiozzi inarrestabili, sempre più stanchi, fino a divenire un pigolio stremato dalla febbre.

Quante possibilità ci sono di aver condannato Gemma a una sorte simile?

Se lei ha agito con meticolosità subito dopo, come intuisce abbia fatto, poche. Ci sono estratti d'erbe spermicidi, metodi di lavaggio interno, tecniche più mistiche che mediche di cui non ha nozione alcuna e, in ultima ratio, degli infusi abortivi. Pericolosi, senza dubbio, ma efficaci. Non ne parla, il libro di ginecologia - lo sa perché l'ha voluto sapere e tiene un paio di fiale nel cassetto sottochiave apposta per quei casi limite, rischiando pure la galera*.

Non è nemmeno detto che Gemma ricorrerebbe a metodi simili - magari, Marisa la scoraggerebbe. Non è nemmeno detto che fosse fertile, né che non subirà complicazioni spontanee - e pure quello è un pensiero che gli dà nausea.

Gli pulsa lo stomaco in un ritmo sgradevole, sincopato. È un medico: la gente dovrebbe curarla, non metterla in condizione di farsi curare da lui.

Trascina i palmi in basso, deformandosi i lineamenti, per poi riallacciare le dita sulla nuca, con la fronte che quasi sfiora la scrivania. Gli danzano delle macchioline scure davanti agli occhi.

Tutto questo per cosa, poi? Per manco mezz'ora di sesso che l'ha rivelato come invertito? Ne avrebbe fatto volentieri a meno. E pure di ritrovarsi in testa quegli attimi dolci e confusi prima dello sfacelo. Prima di venire pensando a un uomo - a Ricciardi, Cristo, e nemmeno se l'è figurato in volto in quei momenti, gli è bastata la mera idea che fosse lui - e tiene pure dieci e passa anni meno di lui, il che lo rende quasi un pederasta, a guardar bene.

Batte piano la fronte contro il legno della scrivania. Quasi s'aspetta che suoni vuota, o di sentire uno sciacquio putrido tra le orecchie.

Eppure, si ritrova a inseguire quei frammenti ogni volta che riesce a scordarseli, per quanto squallidi. Li rievoca a sprazzi, con la vergogna che gli risale in corpo se prova a soffermarsi su un qualunque dettaglio, come se qualcuno potesse spiarlo da dentro la testa.

Ma nella sua testa è solo, a vedersi e a riviversi, ed è un posto di merda in cui stare.

Perché a far di lui quell'uomo meschino non sono stati gli occhi di Gemma e nemmeno altri occhi che non vorrebbe mai più dover guardare. È stato lui, di sua sponte e volontà. Perché ha quel cancro dentro che gli devia i pensieri e gli inverte le sinapsi.

La tentazione di addossare la colpa a Ricciardi gli morde le mani, facile e illogica, come a volergliela fisicamente appuntare addosso. D'altronde, non è stato forse lui il primo ad aver avuto atteggiamenti effeminati? A evitare il bordello e le donne, a voler star da solo, a frequentare lui e a contagiarlo, forse, con quella malattia che ora si ritrova in corpo?

Cos'altro non ricorda di quella sera in cui era troppo ubriaco - in cui si era ubriacato proprio per non pensare troppo, o forse per liberare pensieri che in fondo aveva sempre avuto?

Batte di nuovo la fronte sulla scrivania, sempre molto più piano di quanto dovrebbe. E vorrebbe ricordar tutto, di quella sera, se qualcos'altro c'è stato davvero. Vorrebbe quasi ci fosse stato, perché, per quanto lo ripudi con ogni fibra del suo essere, sa che non gli sarebbe dispiaciuto. Sa che non gli sarebbe dispiaciuto ritrovarsi a letto con Ricciardi o sentire le sue labbra addosso.

Si preme le mani sulle tempie e vorrebbe staccarsi la testa dal collo per smettere di pensare. O almeno, per smettere di pensare lungo quei cunicoli labirintici che gli stanno annodando il cervello.

Lascia scivolare le mani in basso e intreccia le dita tra loro. Inizia a fargli male il collo.

Non servono a niente, quegli arzigogoli astrusi. Deve semplificare, ridurre all'osso.

È un invertito. Un deviato. Un malato di mente che dovrebbe sottoporsi a elettroconvulsioni o terapie di riconversione. Probabilmente anche un sodomita, se gli si presentasse l'occasione - una chiavica di uomo, insomma, se uomo può ancora chiamarsi, ché giusto da un ricchione effeminato s'aspetterebbe comportamenti di merda come quello di ieri.

A far schifo davvero, però è stato il Bruno che va a donne. Non quello che dovrebbe andare a bussare a tutt'altra porta, in qualche vicolo nascosto della Sanità, tra i postriboli dei femminielli. O a una porta molto più decorosa, a un tiro di schioppo da là.

Si strangola le dita tra loro e non capisce - non si capisce, non capisce da dove è uscito fuori quel Bruno che non è davvero lui e che un po' gli fa specie, un po' vorrebbe vederlo meglio.

Come ha fatto ad andare al bordello per mezza vita senza un solo pensiero in capa? Quello non gli ha fatto mai schifo. Ne è certo - deve esserne certo e rimettersi un briciolo di sanità in quella capa marcia che s'è ritrovato.

Ripensa a Marisa. Ripensa a tutto, con nitida intensità: al suo seno generoso, ai suoi glutei morbidi, sue gambe schiuse, alle sue labbra, e a toccarla e sfiorarla e baciarla ovunque, a entrare in lei, a perdersi - gli guizza una scintilla nel petto. E, no, non riesce a provare alcun ribrezzo.

Anzi, si provoca un principio di tutt'altra reazione - che non è affatto consona al tenore riflessivo che starebbe cercando di mantenere. Si tasta l'inguine, trovando la rassicurante prova biologica che le donne sortiscono su di lui lo stesso effetto di sempre, che quel Bruno sano esiste ancora.

Esita, con la mano ancora ferma lì - spera solo che nessuno entri nell'ufficio in quel momento, ché non saprebbe davvero che scusa inventare.

Esita e si ritrova di fronte alla stessa porta che ha schiuso ieri, prima di compiere la sua personale nefandezza con Gemma. Gliel'aveva pure assicurato, di stare attento-

Esclude per un singolo istante quel fatto, che gli provoca bruciore acido alla bocca dello stomaco: adesso vuole capire, e non c'è nulla da capire nella consapevolezza di essersi comportato da bastardo: c'è solo da prenderne atto e sperare per il meglio; per sé, per Gemma e per- non vuole nemmeno pensarci.

Esita, dunque, su quella soglia ormai violata, oltre la quale c'è Gemma e tutto quello che Gemma non è, ma gli ha ricordato. Vorrebbe guardare oltre, rubare un'immagine nuda e fare esattamente ciò che ha appena fatto con Marisa - non per forza con lui, va bene un qualsiasi uomo, anche solo fittizio.

Ritrae la mano e si raddrizza di scatto seduto, con un lieve capogiro ortostatico che gli schiaffa una nube di moscerini irrequieti dietro le retine.

No, non ci riesce. Non può fare un'oscenità del genere - toccarsi di propria mano pensando a un uomo. Nemmeno nella propria mente. Soprattutto, non riuscirebbe a figurarsi nessun uomo anonimo, perché tutti prenderebbero le sue sembianze - e lui deve poterlo guardare in faccia, visto che ci deve lavorare, possibilmente senza avere un'erezione.

Chiude gli occhi, stremato, e abbandona il capo all'indietro. Sta impazzendo, gli è chiaro. Anzi: è già pazzo, clinicamente pazzo. Si torce le dita. Ha una sensazione di strettezza addosso, e non è la vaga eccitazione che ha risvegliato, già infiacchita. Si sente stretto nei propri vestiti, come se gli andassero d'un tratto troppo piccoli - come se il cranio gli andasse troppo piccolo, e la gabbia toracica, e il bacino e tutto il resto fosse sproporzionato.

La cosa più ironica e forse più crudele è che l'unica persona con cui potrebbe parlare, perché di fatto è l'unica con cui parla, è proprio Ricciardi.

Adocchia l'orologio appeso al muro: il suo turno è finito da un pezzo. Poteva già essere a casa. Poteva già essere al bordello, a porre maldestro rimedio a quanto ha provocato, se mai un rimedio esiste. Poteva essere da Ricciardi, a confessargli almeno il torto che ha fatto a Gemma.

E domattina deve andare in Questura di buon mattino, ad aggiornarsi con lui sul caso Battaglia, ché oggi ha glissato adducendo troppi inesistenti impegni in ospedale - non sa ancora come farà a guardarlo negli occhi.

Dovrebbe dormire, o almeno provarci. Dormire, sì. L'oblio temporaneo del sonno suona bene.

Si alza, con le gambe di piombo e i passi stracchi.

Pianta lo sguardo davanti a sé, sull'ufficio in penombra; la luce è spenta, ché è rimasto a rimuginare là dentro sin da quando ha staccato e ormai s'è fatto buio.

Lancia lo sguardo fuori dalla finestra.

Chissà - si chiede in uno sfarfallio molle, quando intercetta la sagoma nascente della luna - chissà di che colori diventano quegli occhi che l'hanno fregato alla luce lunare e non del sole - ché nella penombra di una stanza li conosce già e-

Chiude la porta dello studio dietro di sé, con uno sbatacchiare di vetri smerigliati. Percorre i corridoi dell'ospedale a passo di marcia, col camice che gli frusta le gambe come una vela in tempesta. Non si dirige all'uscita.

Due minuti dopo è in guardiola, a inquietarsi con un'infermiera.

«Dottor Modo, state qua da ore; siete proprio sicuro di...»

«Sorella, per cortesia. Non tengo impegni e nemmeno sonno,» la interrompe lui, troppo brusco. «Rimango pure stanotte, ségnalo sulla turnazione e non farmi perder tempo.»

Lei trasecola, le mani strette sulle cartelle di un paziente; poi annuisce, con un agitarsi dell'ampio copricapo bianco che apre le ali a cornice del suo volto*.

«Come volete, dottore.»

Prima di dirigersi di nuovo in corsia, Bruno ripassa per il suo ufficio a recuperare un sigaro: avrebbe bisogno di fumarsi i nervi e ridurli in cenere, piuttosto, ma un poco di tabacco dovrà bastargli.

Uno sfrigolio di fiammifero, una brusca ispirazione, e l'effluvio aromatico gli invade la bocca anestetizzandogli la lingua. Getta fuori il fumo quasi subito, anche se andrebbe gustato con più calma, ma di calma non ne ha nemmeno l'ombra - se lo manda quasi nei polmoni, per la foga.

Incastra il sigaro tra i denti mentre recupera lo stetoscopio e la penna da appuntarsi sul taschino per il giro letti. A quella pressione più accentuata tra le labbra gli si ripropone, prepotente, l'immagine di Gemma che gli porge quello stesso sigaro con quel fare allusivo - e lui l'ha accettato come se fosse la cosa più naturale del mondo e non l'oscenità di chi vorrebbe prendere tutt'altro.

Gli strizza le viscere anche adesso e se lo cava fuori di bocca con disgusto ostentato, non sa se per se stesso o per l'occhio invisibile che si sente appuntato sulla nuca. Lo spegne con stizza nel posacenere di Murano e lo molla lì, ancora fumante.

Si fottesse il sigaro.

Lancia un'occhiata fuori dalla finestra; e la luna stanotte non ride, ma sghignazza direttamente a bocca aperta; mezzo cerchio d'ilarità piantato là in mezzo al cielo, a farsi beffe di lui - e chissà, chissà come-

Bruno chiude di scatto gli scuri, piombando l'ufficio nel buio e spegnendo quel riso silente.

E s'andasse a fottere pure lei.

Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
ecco, intanto vi dico che avevo evidentemente mentito sulla parte "commedia" di questa storia, ma giuro che torneremo su toni leggeri. Per ora, mi sembrava giusto fare un giretto nella testa di Bruno.

Sottolineo che qui non c'è intento di giustificare il suo comportamento da parte mia: è solo che, come molti hanno notato nel capitolo precedente, Bruno rimane comunque una persona fondamentalmente buona ed empatica con il prossimo. Per questo prova senso di colpa, se non altro per il suo essere un medico. Se avessi voluto dipingere un tipico uomo dell'epoca, non si sarebbe nemmeno preoccupato della donna in questione, ma solo dell'aspetto individuale della faccenda o eventuali pretese da parte di lei in caso di gravidanza.

Insomma, odiatelo, perché la sua prospettiva su quanto accaduto è comunque focalizzata su se stesso; ma sappiate che sta rimuginando anche su quello e che la cosa non passerà in sordina.

Il prossimo capitolo torna su toni abbastanza leggeri, ma spero di stupirvi col prossimo ancora ;)

Grazie a tutti voi per aver letto e per gli splendidi commenti ♥ Sono contenta di avervi dato spunti di riflessione e voi ne avete dati molti a me in cambio ♥

-Light-

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