7.1 - Su cosa sia l'amore (e forse non lo è)
*
«Dotto', non riuscite proprio a starmi lontano, voi.»
«E non è una cosa buona, per il lavoro tuo?»
Bruno lancia un sorrisetto sottile a Marisa, sebbene funestato da un carico di pensieri che, di solito, lascia fuori dalla porta del bordello. Stavolta, lo segue dappresso anche quando chiude la porta della stanzetta comune.
La donna è distesa supina su un lettino un poco troppo stretto, addossato sotto una finestra a vasistas, in alto, a livello col selciato del cortiletto interno della palazzina. Di fronte, un lettuccio simile e, in fondo alla camera più lunga che larga, una brandina di quelle militari recuperata chissà dove. Le sue compagne di stanza non ci sono.
Come sempre, l'ambiente ha un'aria spenta, al contrario dei piani superiori immersi nel fasto: le pareti ricoperte da uno stinto motivo a losanghe sono spoglie, se non per un'icona votiva della Madonna appuntata tra i due letti, con un rosario appeso al chiodo, e vi è un lieve odore stantio, soffocato malamente da profumi floreali.
Marisa ha i capelli sfatti, anche se si intuiscono i boccoli morbidi in cui li acconcia di solito, e il volto struccato ne rivela l'incarnato un poco olivastro, che lei sbianca a suon di cipria, e la forma un poco asimmetrica delle labbra, che ridisegna col rossetto. Bruno la trova più bella così, a dire il vero, ma ben si guarda dal farglielo notare. Tiene entrambe le mani premute sul basso ventre, nel gesto universale che comunica anche a chi non è medico un punto dolente.
Bruno posa a raffreddare sul comodino la ciotola che s'è portato dalle cucine, in cui ha adagiato la poltiglia di radice di zenzero bollita e le garze, anch'esse bollite in una pretesa di sterilità.
«Come stai?»
«Come sempre, dotto': 'na chiavica.»
«Vediamo di rimediare un po', allora.» Si acciglia nello squadrarla. «Questo non lo dovresti portare, quando ti dolgono i lombi,» accenna al corpetto che le comprime il busto.
Marisa inclina le labbra in un sorrisino impudico che accentua il piccolo neo sulla sua guancia, ora non nascosto, e le arriccia il naso un poco a punta.
«Se volete chiedermi di spogliarmi, non dovete mica fare tutti 'sti giri di parole.»
Bruno sospira e, di tutta risposta, tira uno dei lacci infiocchettati che serrano il bustino in mezzo ai seni.
Il modo in cui glielo toglie per scoprirle l'addome non ha nulla della sensualità con cui la sveste a volte, né il suo occhio si sofferma altrove – se non fugace, e sarebbe impossibile il contrario. Mantiene una certa delicatezza nel palparle i visceri, ma lei strizza gli occhi, in chiaro disagio fisico. Non emette però un singolo lamento.
Bruno pone la domanda di rito:
«Hai dolori particolari?»
«No, i soliti.» Fa una pausa breve, il tempo di un respiro secco dal naso. «Anche se tengo sempre paura di sentire quegli altri, della nausea... d'arrivedere tutto quel sangue pure che non ho fatto niente.»
Bruno scuote appena la testa. Le applica, appena sopra il monte di Venere, il cataplasma allo zenzero ora non più ustionante e fa pressione affinché la garza aderisca alla cute. Porta le mani di Marisa a comprimerlo appena e indugia lì con le sue, a racchiuderle.
«Non sono un ginecologo, Mari', ma se non senti nulla di strano e stai attenta coi clienti, non c'è motivo d'angosciarsi.»
«È che sono i clienti, a volte, che attenti non ci vogliono stare.»
«Questo dovresti dirlo a Mamma Clara.»
«'O sacc', ma mica è facile.»
Bruno si siede sul letto. Le passa un pollice sulla guancia e lei sorride appena, tesa. Così come gli ha sorriso quel giorno di un anno fa, con un fare timido che nulla aveva a che vedere con quello da volpe seduttrice a cui è ora avvezzo: era più una linea di sollievo sul volto sbiancato che aveva appena riconquistato un poco di colore.
La maitresse l'aveva fatto chiamare d'urgenza, allora, perché una delle ragazze stava molto male. Non aveva fornito dettagli e, quando Bruno aveva visto le lenzuola imbevute di sangue acceso e il pallore mortale della ragazza, aveva capito il perché.
Marisa aveva usato un ferro da calza.
L'aveva reso sterile con la fiamma di una candela, s'era seduta per terra, su un canovaccio lavato in autoclave, aveva divaricato le gambe e, con uno straccio in bocca per non urlare, aveva pugnalato la creatura che teneva in grembo; aveva fatto tutto ciò che quel malnato d'un tubista le aveva detto di fare, facendole pure pagare i suoi consigli e il suo silenzio con una chiavata gratis.
Bruno era andato avanti a decotti di borsa del pastore, impiastri d'ortica e lavande uterine per giorni, per non farla andare in sepsi; e Marisa piangeva e basta, febbricitante, e chiedeva perdono a lui, come se non tenesse il coraggio di chiederlo a Dio o alla sua creatura mai nata, che aveva espulso lì, martoriata da lei stessa, sulle coperte tinte di rosso.
Bruno le aveva detto, forse troppo cinico, che il perdono non spettava a lui darglielo, e che doveva chiederlo prima di tutto a se stessa.
Mamma Clara aveva mantenuto massimo riserbo sull'accaduto, così come tutte le ragazze presenti all'epoca, e s'era tenuta Marisa ben stretta sotto il proprio tetto invece di cacciarla per strada col marchio di puttana abortista – una condanna, di fatto, alla fame o al carcere.
Lui Marisa non la conosceva nemmeno, allora, dacché era da poco arrivata da fuori Napoli, né aveva voluto conoscerla per i mesi a venire, nonostante frequentasse già la casa di tolleranza.
Poi, un giorno, l'aveva invitato nella sua stanza. Era già un pezzo che s'era ripresa e lavorava e, diceva, voleva sdebitarsi con lui nell'unico modo che poteva offrirgli.
Bruno non sa dire, ad oggi, se l'aver accettato faccia di lui un omm'e merda. Se l'averle chiesto, oltre al suo corpo, anche di spiegargli come usarlo, non faccia di lui un deviato al pari di chi sbircia dagli spioncini nelle pareti o si piazza sotto i letti del bordello.
Però, se ne scorda ben volentieri ogni volta che è immerso nel calore di Marisa, e ogni volta che lei gli fa credere di volerlo nel letto perché è lui e non per il suo portafogli generoso.
Non l'ha mai baciato sulle labbra se non un'unica volta – la prima che si è svestita per lui. Lui l'ha baciata molte di più, però, ben meno castamente, sprofondato tra le sue cosce solo per sentirla sospirare alle carezze della sua lingua e, forse, per farsi perdonare – da lei e solo da lei – l'essere un uomo come tutti gli altri.
Bruno osserva ora il suo volto a cuore, oggi privo di trucco e rossetto, che sembra rubato a un cherubino, non fosse per gli occhi scuri come selve e tutt'altro che pacifici che lo animano. Non sa dire se se ne sia mai infatuato, ma spera che lei, a forza di far l'amore per finta con lui, almeno un poco si sia perdonata.
In quel momento, Marisa si accorge del suo sguardo insistente e sorride lieve:
«Voi siete l'unico che non tiene schifo di toccarmi in chist'journi maledetti.»
«E che dovrei fare, sennò? Non curare le pazienti una volta al mese?» ridacchia bonario lui. «Anche se alcuni colleghi miei si rifiutano, in effetti... ma d'imbecilli è pieno il mondo, soprattutto ultimamente e soprattutto in divisa.»
«State accorto, dotto', che qua sentono tutto,» lo rimprovera lei, sottovoce.
«Se tu non dici niente, non sentono niente manco loro.»
Gli occhi di Marisa si fanno saette. Si solleva un poco sui gomiti, strizzando gli occhi, per portarsi alla sua altezza. Gli pianta un indice sotto il mento.
«Mai, lo farei. Mai. M'avete inteso?»
«Lo so. Non stavo insinuando nulla.» Preme un palmo sul suo ventre, poco sopra il cataplasma. «Stenditi, non ti affaticare.»
Lei lo asseconda, lo sguardo ora appuntato sul soffitto beige. Bruno mantiene la mano lì, trattenendo l'impulso di muovere le dita sulla sua pelle; forse, però, Marisa lo avverte lo stesso, perché la sua bocca si storce d'un tratto in una curva maliziosa.
«Oggi vi siete vestito a festa. Eppure, v'avevo detto la volta scorsa che non potevate andare con me.»
«Eh, mi son scordato. Tengo troppi pensieri.»
Bruno non nega l'insinuazione, pur velata; d'altronde, se potesse, andrebbe sempre con Marisa. È un bel pensiero, quello, forse l'unico giusto che gli viaggia in capa da quel mattino.
«E con chi è che andate per scordarvi pure i pensieri?»
«Una nuova. Si chiama Gemma.»
«Ah, quella di Salerno.» Lo sguardo di Marisa si fa civettuolo. «Ma che mi dite, dotto'? Avete cambiato gusti?»
Bruno si irrigidisce un poco, a quelle parole, ma scaccia l'ombra dal volto con una mezza risata; ritrae la mano e la serra con l'altra, in grembo.
«Sarebbe a dire?»
«Uno scriccioletto senza tette e coi capelli da guaglione, vi siete scelto,» lo provoca lei, smuovendo le sue onde mogano a rimarcarne la lunghezza e gonfiando il petto nudo e voluttuoso.
«E che, non posso variare?» inarca le sopracciglia lui. «Non mi pare un bel modo per parlare delle tue colleghe, poi.»
«Ce ne diciamo di peggio, credetemi,» sbuffa lei. «Vabbuò, dopo fatemi sapere se v'è mancato qualcosa, mi raccomando.»
Ancora stesa sulla schiena, gli sfiora il petto in una carezza languida, risalendo lungo la fila di bottoni verso il colletto. Lui ribatte, invero non molto convinto:
«Mari', sto lavorando.»
«A me pare ch'avete fernuto, ma ancora qua state.»
Aggancia l'indice sulla camicia e lo tira piano verso di sé; Bruno non si oppone, il naso inebriato del profumo del suo seno – rosa e gelsomino, sporcato dalla nota pungente dello zenzero – e si trattiene a stento dal posarvi le mani, in nome della deontologia medica e altri parole al momento poco pronunciabili e dal significato vago.
Lei gli preme le labbra morbide sul collo, appena sotto la mandibola, dove la barba è più rada – gli fa sobbalzare il pomo d'Adamo.
«Grazie, dotto',» sussurra con la sua voce un poco bassa; e, oltre la celia, Bruno intravede il brillio sincero nei suoi occhi, così come l'intensità con cui lo guarda, così da vicino.
La sua compostezza vacilla, quando gli slaccia anche il primo bottone della camicia con dita agili; si affretta ad alzarsi, memore degli ammonimenti di Mamma Clara.
«Fammi andare, va', sennò rubi il lavoro alle colleghe tue.»
«Mi pare che gliel'ho solo fatto più facile,» ammicca lei, con l'indice teso contro di lui.
Bruno nemmeno prova a celare la pressione turgida si è palesata contro la patta dei pantaloni – ma la accoglie con inatteso sollievo e uno sbuffo a buon mercato, a dispetto del risolino impertinente di Marisa.
Note dell'Autrice:
Cari Lettori,
questo capitolo è un po' un ex cursus, forse, ma Marisa è un personaggio che si è creato e modellato da solo e ha voluto avere un po' di voce in questa storia.
Va da sé che il rapporto tra lei è Bruno è tutt'altro che ideale o basato su presupposti sani, ma volevo rappresentare uno spaccato di vita, non un modello da seguire (di qui il titolo ambiguo). Spaccato che mi sembra particolarmente rilevante, considerato il discorso dell'autonomia femminile sul proprio corpo e sul diritto d'aborto minacciato.
Sottolineo che i riferimenti al "perdono di Dio" e il definire il feto abortito come "creatura" (non ho specificato volutamente la settimana) sono da porre nella prospettiva dell'epoca. Aggiungo che Bruno non giudica, ma nemmeno condona, e per questo c'è una mancanza di giudizio esplicito da parte sua, ma è ovviamente il pensiero del personaggio e non il mio.
E niente, posso solo dirvi che nel prossimo capitolo torna Gemma, di tutt'altra pasta rispetto a Marisa :') ♥
Grazie a chi legge e commenta, mi rendete felice ♥
-Light-
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