4. Sulle giornate storte


          C'è di buono che la Questura, nel suo essere rivestita di pomposi marmi in ogni angolo, possibilmente incisi con corbellerie di Partito, stempera un poco il caldo opprimente ch'infuoca Napoli in quei giorni.

Ciò non impedisce a Bruno di squadrar storto negli occhi ogni busto che incrocia e di chiedersi se le emicranie di Ricciardi non abbiano piuttosto a che vedere con la quantità di aquile e littori stampigliati ovunque, in una sorta d'horror vacui che sembra non voler lasciare spazio d'inventiva manco nell'arredamento.

Ci mette piede il meno possibile, e infatti gli ci vogliono due tentativi per ritrovar la targhetta "Luigi A. Ricciardi" appuntata su una porta in fondo a un corridoio.

Esita un singolo istante là davanti, prendendo un respiro corto e asfittico. Vorrebbe essere già a casa, possibilmente in mutande, schiattato in poltrona, con un bicchiere di cognac in una mano e un sigaro nell'altra.

Che chiavica di giornata.

Bussa ed entra in un'unica azione, senza curarsi d'aspettare un invito.

«Ohi, Riccia'.»

«Buonasera, Bruno,» replica pacato lui, senza nemmeno alzare la testa dalla scrivania. «T'aspettavo un'ora fa.»

Bruno si pianta in mezzo alla stanza, né troppo ampia né troppo stretta, ma con ben poca luce a filtrare dal finestrone rivolto a nord. La scrivania di Maione è vuota.

Nel riportare gli occhi su Ricciardi, si ritrova i suoi appuntati addosso. La lampada verde da ufficio è accesa, donando un pallore innaturale e accentuato al suo volto.

«Ho avuto un contrattempo in ospedale,» si decide a rispondere, controvoglia.

«Nulla di grave, spero,» commenta, nell'avvitare la stilografica e rassettare la risma di fogli – il toc toc risuona attutito dai legni dell'ufficio. «Ti vedo stanco.»

Bruno storce appena le labbra, senza negare. S'avvicina alla scrivania e si accomoda nella sedia che immagina sia solitamente riservata agli interrogati.

«Lo sono,» risponde infine, al suo sguardo insistente – è stanco, incazzato e pure un poco triste. «Quindi, il caso Battaglia?»

Ricciardi esita, tira appena le labbra e poi replica a tono:

«Praticamente risolto, anche se resta da trovare Battaglia.»

Bruno apprezza la manovra d'aggiramento: da persona riservata egli stesso, sa bene quando non tirar troppo la corda – è un'abilità da cui forse dovrebbe prender esempio, di tanto in tanto.

«S'era davvero finto un novello Adriano Meis?»

«Più o meno,» Ricciardi si scosta la ciocca di capelli dalla fronte, «a quanto pare, era lui ad avere legami diretti con la criminalità. S'era però indebitato e rischiava la ritorsione di un capobanda... così, ha architettato tutta la messinscena per squagliarsela.»

«E il poveraccio mazziato e senza volto?»

«Un guappo che era venuto a riscuotere il pizzo. Un suo compare che abbiamo interrogato era in complicità con Battaglia: l'hanno stordito, vestito col camice da farmacista e infine ucciso con la lupara. Hanno poi inscenato il rapimento.»

Bruno scuote il capo, tamburellando le dita sul taschino della giacca, dove tiene i sigari. Sopprime l'impulso di accendersene uno; si sente i nervi logorati e il racconto di Ricciardi gli lascia l'amaro in bocca.

«Vabbuò, una manica di delinquenti, quindi. E pure fessi.»

«Così pare.» Ricciardi alza appena le spalle, imperturbato. «Fintantoché il caso può dirsi risolto, non m'interessa.»

Bruno fa un verso affatto allegro.

«Giustizia è fatta.»

«Soprattutto grazie a te,» specifica Ricciardi, con un cenno del mento verso di lui. «Senza la tua conferma nell'autopsia, non ne saremmo venuti a capo. Il tribunale attende la tua perizia ufficiale per il processo, una volta arrestato Battaglia.»

«Considerala già stilata.»

Bruno si alza in piedi e, tra le scartoffie sulla scrivania, individua la dichiarazione di mancata corrispondenza d'identità tra il cadavere e Battaglia – l'unico motivo per cui s'è trascinato fin lì su richiesta di Ricciardi. Senza aspettare il suo via libera, si appropria della sua penna personale e appone una firma disordinata sulla linea del medico legale.

«Se è tutto, me ne tornerei a casa, ché tengo un sonno della malora.»

«Bruno.» Ricciardi si umetta rapido le labbra e si alza a sua volta, aggirando la scrivania come a smettere le vesti di commissario. «Sicuro di star bene?»

A Bruno, a dispetto di tutto, viene da sorridere.

«Sarei io il medico, qui,» si lascia il tempo di un respiro, prima di gettar fuori il resto, «anche se a volte non mi riesce troppo bene.»

«Giornata pesante?»

«Tremenda.»

«Un motivo di più per offrirti quella cena, visto che il caso è chiuso.»

Bruno schiva il suo sguardo; non ne vuole parlare e lui non sta insistendo, ma è come se gli tirasse fuori le parole di bocca. Le asserraglia dietro ai denti: vuole solo andare a casa e dormire, e al diavolo la cena.

«Magari domani, mo non tengo proprio genio.»

«Bruno...»

«Mi è morto un paziente sotto i ferri.»

A quelle parole dette di colpo, fa eco il sospiro sottile di Ricciardi. Bruno si acciglia, fissandolo con durezza:

«Non voglio la tua pietà. Ho sbagliato. So di aver sbagliato. Devo solo farci i conti in fretta, cosicché non ricapiti.»

«Non è pietà.»

Ricciardi s'accosta d'un passo, scrutandolo dritto in volto senza remore, e si poggia coi palmi alla scrivania dietro di sé.

«Pietà sarebbe dirti che non è stata colpa tua, ma non penso sia ciò che vorresti sentire; come io non vorrei sentirmi dire che non è colpa mia se mi sono lasciato scappare un assassino o se ho arrestato un innocente.»

Bruno arresta sul ciglio delle labbra la risposta arida che si era preparato; e ne sceglie un'altra, più smussata e pronunciata in fretta:

«Cosa sarebbe, allora? Una predica?»

«La chiamerei piuttosto comprensione.» Ricciardi, che finora non ha smosso un muscolo nel parlare, solleva in un ricciolo appena accennato l'angolo delle labbra. «Per quanto mi riguarda, essere capiti vale molto più della pietà gratuita. E io capisco che non è un singolo errore in buona fede a far di te un cattivo medico o una cattiva persona.»

«È quello che pensi pure di te stesso, in questi casi?»

«È quello che provo a pensare, ma mentirei se dicessi che ci riesco sempre.»

Bruno volge gli occhi altrove. Tentenna tra mille pensieri caustici.

Ripensa alla discussione dell'altro giorno, quando ha rimbrottato Ricciardi per crucciarsi troppo dei problemi del mondo per cui non può far niente, e si sente un ipocrita – un ipocrita tale e quale i suoi colleghi all'ospedale, che sono stati solo in grado di lanciargli un vuoto "non è colpa tua" dietro l'altro. Non ne ha ricavato alcun conforto, al contrario di quello che gli sta offrendo ora Ricciardi con una schiettezza che dovrebbe essere tagliente, e che invece gli scivola addosso tiepida.

Ribatte comunque a spada tratta, restio ad abbandonare il proprio scuorno per se stesso:

«Non puoi dire davvero se sono o meno un bravo medico; per tua fortuna, non mi hai mai visto in ospedale.»

Ricciardi, a quel punto, fa uno strano scatto con gli occhi, come se si fosse appena astenuto dall'alzarli al cielo – e gli scappa quasi da ridere in barba a tutto, a quella compostezza.

«Ma ti vedo quando hai a che fare con le vittime. E penso che, se riesci a usare rispetto e premure per i morti, devi per forza usarne altrettanto e anche di più per i vivi. Non mi serve vedere altro, per affermare che tu sia un bravo medico.»

Bruno soffia aria e imbarazzo dal naso, la lingua troppo incartata per rispondere a tono. Trattiene a forza lo specchio di sorriso che sente emergergli in volto, sebbene sbeccato da una nota amara. Forse, Ricciardi è davvero la persona che può capirlo più di chiunque altro – l'unica, in verità. Non solo per il lavoro che svolge, ma per una sensibilità più nascosta, ardua da decifrare, che fa sembrar semplice il parlare di tutte le cose orrende con cui hanno a che fare ogni giorno. DI quel suo lato, lascia intravedere solo rare sfaccettature: spiragli da cui gli permette di guardare e che gli offre sempre più spesso.

«Bruno, ho gli occhi quassù, non sul pavimento,» lo richiama Ricciardi con improvviso brio. «Eppure, mi pareva d'aver capito che ti  dilettassi a guardarli spesso.»

Bruno rialza di scatto lo sguardo – incrocia le sue iridi azzurro-grigie nella luce soffusa – con una mezza risata che gli sfugge suo malgrado. Gli viene, subitaneo e scortese, l'istinto di abbracciarlo, poiché non trova parole adatte a ricambiare tutto ciò che gli ha appena detto, e quel gesto gli sembra esprimere tutto ciò che ci sarebbe da esprimere.

Si limita, invece, a uno scappellotto giocoso che gli rifila sulla nuca e che suscita solo un'esclamazione divertita da parte sua.

«Tieni una faccia tosta che ti farà campare cent'anni, Riccia',» lo rimbrotta svelto; nel dirlo, recupera distanza e si avvia già verso la porta. «Andiamo, va', ché sennò troviamo ressa in trattoria.»

«Vuoi festeggiare stasera, allora?»

«Il caso l'avete risolto, no, commissario?» sogghigna Bruno, aprendogli la porta con un mezzo inchino esagerato; si calca il cappello sui ricci nell'uscire. «Se poi volete aspettare d'avere ogni cosa al proprio posto con tutti i crismi e i cavilli...»

«No, no,» Ricciardi, allegro come lo è di rado, gli preme una mano sulla spalla a frenarlo, «stasera va benissimo. Ho voglia anch'io di svagarmi un po'.»

Bruno finge un'espressione esterrefatta – ma che è in parte genuina:

«Che c'è, tieni i pensieri pure tu?»

«Ho bisogno di un motivo?»

Bruno non insiste, ma Ricciardi lo fissa con pervicacia, in un prosieguo muto della sua mancata risposta. Coglie, sul suo volto, quella luce più spensierata, da ragazzino dispettoso, che gli fa ridere gli occhi prima della bocca.

Gli è chiaro come il suo unico intento sia distrarre lui dalla giornataccia. Il pensiero gli causa un guizzo nello stomaco, di quelli fugaci che sembrano un languore nonostante si sia sazi – e decide, in quell'istante di fugace follia, che lui di quella chiavica di giornata ne ha avuto abbastanza, e che a casa non vuole tornarci sulle proprie gambe, quella sera.


Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
oggi ho avuto una giornata mezza storta e il risultato è questo. Povero Bruno che mi fa da ricettacolo d'ansie :')

Capitolo un po' di passaggio, un po' no, mentre il prossimo è... beh, *È*.

Grazie a tutti voi che leggete e seguite le avventure sceme di questi due polli ♥

A prestissimo (col solito aggiornamento random)

-Light-


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