13.2 Sul non lasciarsi andare
*
«Bruno.»
Il richiamo di Ricciardi, ringhiato sottovoce al di sopra dei passi in avvicinamento, è un ordine da trincea – lui frena l'istinto ferale di voltarsi verso l'origine del suono, i nervi che fischiano come proiettili d'obice sottopelle.
«Dove stanno?»
«Fermo.»
«Vengono qui?»
«Non lo so, ma non reagire, qualunque cosa facciano.» Fa una pausa: gli occhi spiritati e fissi dietro di lui a seguire un movimento continuo verso di loro sono una risposta bastante. «Se si avvicinano, lascia parlare me. Fingiti ubriaco.»
Si è scostato di netto, in fretta, lasciando un ampio braccio di distanza tra loro e rivolgendosi verso il viale. I passi si fanno più forti, uniti a un parlottio vivace.
«Cristo... quelli mi sanno, starò pure nelle loro liste di merd–»
«Bruno.» Ricciardi, fugace, folle, gli stringe la mano per un singolo istante, in una chiazza di tepore troppo breve che non fa in tempo a trattenere – vorrebbe stritolargliela, la mano, manco fosse un piccirillo che ha strizza del buio. I suoi occhi sono irrequieti, l'iride inghiottito dalla pupilla, ma la linea obliqua delle sopracciglia li rende più fermi. «Tu lascia fare a me.»
Bruno avverte la loro presenza alle spalle e ha la stessa sensazione asfissiante di una preda che volge la nuca vulnerabile al predatore – anche se ora li scorge, nella visuale periferica: quattro camicie nere in marcia, manganelli e baionette alla mano. Il suo respiro prende a correre.
«Riccia', ci hanno...»
«Non credo.» È un sibilo sommesso, il suo. Ha un braccio abbandonato sullo schienale della panchina, quasi a fondersi con essa. «È buio, c'è vento, non...»
«Alt!»
Il latrato del caposquadraccia* fende l'aria e sovrasta lo scroscio allegro della fontana; si ritrovano quattro paia d'occhi puntate addosso. L'infame in nero, un guaglione sui vent'anni che pare fatto con lo stampino del Duce e che gli fa venir voglia di operare una maxillectomia d'urgenza, si fa avanti a passi lunghi, da oca con qualche problema di reuma alle ginocchia. Forse è una reazione isterica, ma gli vien quasi da ridere: non potrebbe sembrare più macchietta di così manco se ci si mettesse d'impegno.
Si piazza di fronte a loro, coi pollici agganciati alla cintura nera e la nappina del fez che dondola a filo col sopracciglio.
«Che abbiamo qua?»
«Buonasera, camerata.»
Ricciardi non muove un muscolo nel parlare, le gambe ancora accavallate e il tono imperturbabile. Bruno ha un conato nel sentire quell'appellativo in bocca a Ricciardi, ma bofonchia a sua volta un saluto che, a un orecchio attento, potrebbe pure essere confuso con un insulto ad andarsene in luoghi più ameni – e ringrazia di doversi fingere non del tutto in sé. Il giovane li scruta attento, per quanto glielo consentano gli occhi dal taglio ovino, ma tutt'altro che ottuso, infossati sul volto pingue e ben rasato.
«Come mai in giro a tarda notte, quando i bravi cittadini se ne stanno a casa?»
Bruno si trattiene dal serrare i pugni: è chiaro che stiano sfruculiando là attorno a quell'ora solo per avere una scusa per menare le mani. Al pronto soccorso gli arrivano fin troppi disgraziati ridotti in fin di vita per vagabondaggio. Quelli che ci arrivano.
Ricciardi, deve ammetterlo, sfoggia un ottimo aplomb nel fingersi perplesso – Bruno spera di essere l'unico a notare il rincorrersi delle sue dita tra loro, col pollice che sfrega in onde ritmiche e ripetute sui polpastrelli. Riserva un'occhiata studiata a lui, per poi tornare a rivolgersi al giovane:
«Ci godiamo il fresco, tutto qua.»
«Il fresco, certo!» ride uno, col palmo che schiocca vivace sul calcio del manganello.
«A quest'ora?» incalza un altro.
«Beh, non fa certo fresco di giorno.»
Bruno si morde la lingua in ritardo, scordatosi di non dover proferir parola. Se gli sguardi potessero uccidere, Ricciardi avrebbe già commesso un omicidio plurimo ai suoi danni. I quattro spostano in sincrono l'attenzione su di lui. Il caposquadraccia sogghigna come una di quelle caricature che prima si vedevano sul giornale e adesso si vedono a volte sui muri, prontamente ricoperte da una mano calcina.
«Mo ve lo facciamo vedere noi, il fresco...» sogghigna, quasi fosse su un palco di rivista per la battuta finale, «...con una bella notte in cella per contumelia al fascismo e per aver reso indecorose le strade col vostro bivaccare in giro.»
Non accennano, però, a mettere in atto la loro minaccia. Bruno ringrazia il pallino di vestiario che ha Ricciardi, come sempre in ghingheri con un completo su misura e con la cravatta in collo, a segnalare la sua buona estrazione sociale. Non corre buon sangue tra fasci e borghesi, ma mettere due distinti cittadini in cella alla carlona solleverebbe polvere, una volta appurato chi siano.
Conta su quello e su ciò che anche Ricciardi pare aver intuito: i quattro sono sbronzi, chi più, chi meno. Si nota dal pencolare irrequieto dei loro pantaloni alla zuava e dagli scoppi d'ilarità sommessa e fuori luogo tra i tre alle spalle del caposquadraccia.
«Camerata,» Ricciardi si alza in piedi e, Bruno lo nota con sollievo dopo un vuoto al cuore, è mezza testa più alto dell'imbecille, «se è indecoroso star per strada, ce ne andiamo volentieri, senza arrecarvi ulteriore fastidio.»
Quello, forse non avvezzo a sentirsi rispondere con tanta prontezza – e con una nota di sarcasmo che Bruno spera non colga – esita per un singolo istante; il tanto che basta a Ricciardi per muovere un passo ad aggirarlo e a Bruno per alzarsi in piedi a sua volta, premurandosi di mantenere una postura un poco sbilenca.
«Io non me la bevo.»
Uno dei quattro, il più tarchiato, estende un braccio a sbarrar loro il passo col manganello. Respinge in dietro Ricciardi; un parlottare soffuso e concorde si leva dagli altri.
«Che ci stavate a fare voi, qua?
«Tutti soli e appartati come due ricchioni, poi...»
«Che c'è, non volevate dare spettacolo?»
«Perché, v'interessano certi spettacoli?» Bruno gli rifila un ghigno di sfida. «Provate alla Sanità*.»
«Che hai detto, tu?»
La punta di un manganello preme di scatto contro il suo sterno, spostandolo indietro d'un passo. Ricciardi, prima che Bruno possa aprir di nuovo bocca contro buonsenso e dirgli dove se lo può ficcare, quel manganello, s'interpone a parole e s'arrischia a scansare svelto il braccio del fascista:
«Voi c'insultate. Non permetto che ci rivolgiate parola con così poca deferenza.» E continua in fretta, forse cogliendo il lampo di stolida ira che precede una manganellata: «Sono il commissario Luigi Alfredo Ricciardi, Regia Questura di Napoli.» L'attimo di silenzio interdetto che segue quelle parole lascia intendere che lo conoscano, almeno di nome. «Identificatevi. Tutti e quattro.»
«E che v'interessa, a voi?»
«Che, ci volete arrestare?»
Ridacchiano, ma con fare nervoso; tutti e tre guardano il caposquadraccia. Ricciardi, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, replica senza batter ciglio:
«Voglio solo sapere con chi ho il piacere di parlare, così da poter conferire coi vostri superiori. Immagino che chi dirige il vostro comando di zona e il vicequestore saranno lieti di sapere che avete futilmente importunato due collaboratori della Regia Polizia.»
«Io sono il caposquadra Barbagli* e come fanno di nome loro non vi deve interessare. Voi siete commissario, e lo abbiamo capito...» l'aspirante gerarca lo scansa di lato, premendogli il manganello sul braccio, «e tu, invece?»
«Come avrete notato, il mio collega non è nelle condizioni di ragionar–»
«Dottor Bruno Modo,» risponde secco lui, ricordandosi poi di biascicare un poco: «Medico legale per la Regia Questura. Al vostro servizio... se mai doveste aver urgenza.»
«Questo tiene la faccia da comunista, più che da miedeco,» e lo pungola col manganello sull'addome, sotto le fluttuanti.
E tu da cesso, eppure mi tocca guardarti, s'astiene dal rispondere; più per Ricciardi e la pretesa di docilità che per altro. Incassa in silenzio il fastidio d'aver quel coso fallico premuto addosso – e, Dio, se deve mordersi la lingua per non fargli notare che è più ricchione lui a maneggiare quell'arnese di loro due messi assieme.
«Un rispettabile commissario e uno stimato medico che si danno a gozzovigliare per strada...» Il caposquadraccia solleva tronfio le sopracciglia; ed è forse il più sobrio tra i quattro. «Bell'esempio che date ai cittadini e al viver civile.»
«Sono ben conscio che l'esempio da dare non sarebbe questo, camerata. Difatti, stavo aspettando che il mio collega smaltisse l'alcol, così da non creare indecenza per le strade.»
Bruno non sa come Ricciardi riesca a rispondere con tanta sfacciata sicumera, quando nel privato è raro sentirgli spiccicar più di qualche parola, e sempre in tono pacato; gli incute quasi timore, soprattutto perché pare non aver tema alcuna di cosa potrebbe capitargli a mostrarsi tanto sicuro di sé con quei trogloditi armati di clava. Gli balena in testa, un lampo agghiacciante, la sua affermazione sul non essere mai nato – e forse non gli importa poi molto nemmeno di morire.
«E lo fate spesso, il buon samaritano con lui?»
«Più di quanto voglia, ma sarebbe indecoroso per il buon nome della Polizia lasciarlo in giro così, come un debosciato, libero d'infangarlo.»
«Pensavo fosse amico vostro.»
«Sono un ufficiale dell'ordine pubblico, tanto quanto voi. Dovrei tollerare quest'indecenza solo perché è un collega?»
«Allora ve lo togliamo noi dalle mani, commissario, così non la dovete tollerare più.»
Bruno, nel sentirsi afferrare un braccio da uno dei tre lacchè, trattiene uno spasmo e l'istinto di scappare – e dove, poi? Son mesi che campa' 'e pàlpite* e anche ora il cuore pare scappargli dal petto, farsi piccolo per strizzarsi tra le costole e fuoriuscire dalla propria gabbia.
Scrolla appena il braccio, ma il fascista serra la presa e gli blocca la circolazione – reprime l'istinto di sferrargli una gomitata in faccia solo perché intercetta gli occhi di Ricciardi: calmi, screziati solo da un velo di tensione e da un tremito impercettibile della palpebra. Scuote il capo, camuffando il gesto con quello di ravviarsi i capelli. Bruno affoga nel petto ogni risposta e motto tagliente che gli punge la lingua e lascia parlare lui, per una volta:
«Camerata, credevo vi fosse rispetto reciproco, tra noi della Polizia e la Milizia.» Il suo tono si fa aspro come non l'ha mai sentito. «Sono del tutto in grado di gestirlo. D'altro canto, voi non vi mostrate certo più lucidi di lui, e pure questo non è decoroso da parte vostra.»
Gli occhi del fascista si tendono i sottili linee d'irritazione.
«Facciamo che in Questura ci andiamo insieme, allora,» delibera in quello che sembra un flebile sforzo d'imporre di nuovo la propria autorità. «Una notte in cella non potrà che giovargli, no?»
«Come preferite.»
«Ri–»
«Tacete, voi.» Ricciardi gli abbaia contro, facendolo sobbalzare. Lo strattona in malo modo per la falda della giacca e gli dà uno spintone – ma lo libera anche dalla presa del camerata. «Mi fate vergognare d'esservi collega.»
Bruno non osa voltarsi a guardarlo, gli occhi fissi sul basolato sotto i suoi piedi, nemmeno quando uno dei camicia nera lo agguanta di nuovo per un gomito, a indirizzarlo con passo più sostenuto. Al suo accenno istintivo di scrollarselo di dosso, gli arriva una manganellata sulle rotule che gli strappa un sussulto e lo fa incespicare – avverte il brusco respiro dal naso di Ricciardi, accanto a sé, quasi sovrastato dalle risatine degli altri.
La cosa pare divertirli, visto che a quel primo colpo ne seguono altri, altrettanto secchi, assestati dal bacino in giù e mirati a farlo inciampare – Bruno, se fosse da solo, sputerebbe loro in faccia e si farebbe massacrare, ma ingolla ogni stilla d'orgoglio e dignità, quel poco che gli è rimasta.
S'impegna a non cadere a terra e a non reagire, anche quando quelle schicchere si fanno più moleste e vanno a pungolargli le natiche e l'inguine, corredate da insulti a mezza voce – e se la sente addosso, la claustrofobia soffocante d'essere il Bruno Modo sbagliato nel corpo e nei pensieri, tanto da risultare evidente a chiunque, pure a quei bastardi in nero.
Con la coda dell'occhio, nota le mani di Ricciardi ancorate nelle tasche dei calzoni, contratte in pugni, e la fessura quasi invisibile in cui ha compresso le labbra fino a sbiancarle. Gli rivolge un singolo sguardo, l'iride cerulea che tremola appena dietro le ciglia rapide – e non dice nulla, né muove alcun gesto, ma Bruno si sente appuntare sulle labbra quel muto sono qui che freme sulle sue – per poi tornare a fissare la strada.
Continuano a camminare fianco a fianco, a denti stretti, tra loro una voragine di caldo silenzio che fa più rumore del pestare degli stivali e del rintocco dei manganelli.
Note dell'Autrice:
Cari Lettori,
questo capitolo m'è bellamente scappato di mano (ed è una sorta di esercizio in vista del sequel, sorry not sorry ahahah).
Il prossimo arriverà a breve e sarà su toni decisamente più tranquilli, ma non potevo esimermi né di restituire un po' d'ansia di quegli anni (Ricciardi e Bruno qui hanno tanta, tanta fortuna e una buona dose di faccia tosta), né dal mettere Ricciardi in posizioni scomode, né dal sottolineare quanto Bruno sia di fatto un cane che abbaia ma non morde. Nel senso che la sua "opposizione" si esaurisce in insulti a vanvera e atteggiamenti strafottenti, fini a se stessi; il suo è un antifascismo quasi da sempliciotto, se vogliamo, e pecca di una direzione precisa. D'altronde, per citare Calvino: "Tra il giudicare negativamente il fascismo e un impegno politico antifascista c'era una distanza che ora è quasi inconcepibile".
Poi, quando c'è da puntare i piedi per questioni pratiche, li punta e si espone, ma non ha un atteggiamento molto lungimirante o intelligente, a parer mio, al contrario di Ricciardi che fa buon viso a cattivo gioco.
Insomma, scusate l'ex cursus ahahah
Grazie per continuare a leggere e a prestissimo (davvero),
-Light-
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