13.1 Sul lasciarsi (quasi) andare


Dà da pensare il fatto che i sani, a questo mondo, son considerati coloro che s'appuntano tale supposta sanità sul petto e poi finiscono a peccare tali e quali a colui che viene additato come matto e sul petto non s'appunta proprio niente, in muto voto di segretezza. Allora, forse, la follia di questo mondo è da ricercarsi da tutt'altra parte, che non nel cuore dei matti.

*

          L'unica cosa per cui è grato Bruno quella sera è che la luna abbia smesso di ridere sguaiata in cielo a spese sue, trasformandosi in un mezzo cerchio ingobbito. Quello, e che Ricciardi sembri incline a ridere al suo posto – sebbene in modo molto più cheto, quasi timido, ma innascondibile sul suo volto tanto quanto lo è la fossetta che ammicca più spesso che mai dall'angolo delle sue labbra.

Bruno ci si è impigliato più volte, nel corso di quella sera – sulla fossetta e sulle sue labbra – e ogni volta s'è sentito piegare in due il petto, come se mani enormi lo volessero ficcare a forza in una busta per spedirlo chissà dove – dove si spediscono i matti, immagina.

In testa ha le grida smorzate di Marisa e i sussurri vellutati di Gemma. Si mescolano e sovrappongono, formando un unico coacervo indistinguibile che copre la voce pacata di Ricciardi e offusca tutti i suoi piccoli gesti – gesti che fanno rumore e sono audaci nel loro essere minuscoli.

Li schiva o ignora con un dolore sordo sotto lo sterno, lì dove le mani estranee pigiano, e lo sente sul punto di fratturarsi per la pressione. Gesti così chiassosi da esplodere, che sia versargli un bicchiere di mano sua durante la cena o appuntarsi nei suoi occhi più a lungo del solito o concedersi un sorrisino più licenzioso o uno sfioramento non casuale di braccia e dita e sguardi. Non l'ha mai visto così spigliato – o forse è lui a non averlo mai guardato così – e si sente quasi di tradire quella sua improvvisa spontaneità col suo fare un poco evitante che, però, pare non angustiarlo troppo.

Aveva persino considerato di rifiutare quell'invito a cena, di mandare all'aria tutto il fragile castello di carte costruito solo ieri, ma il pensiero di deludere Ricciardi – e forse anche un po' se stesso – l'ha spinto a non sottrarsi e gettarsi tra le braccia di quella follia concordata che di segreto, tra loro, non ha più nemmeno l'ombra.

Bruno lascia quindi a lui le redini di tutto e trascorre la serata in una bolla attutita: scherza come sempre e ride a battute che non sente davvero; le vede arrivare dalla fessura giocosa degli occhi di Ricciardi, le avverte sulla pelle come si avverte un temporale estivo che arriva a portare frescura.

E, però, non pensa troppo nemmeno a tutto il resto, alle parole aguzze che si porta infisso nella schiena – si sente un fenomeno da circo a cui è andato male il numero, coi coltelli da lancio che l'han preso in pieno e son rimasti appesi lì, a tamponare ferite sanguinolente.

Dopo cena s'avviano, come fanno spesso, sul lungomare di via Caracciolo, per poi arenarsi nel solito metro e mezzo di parapetto sporto sulle onde di fronte alla Villa Comunale, coi gomiti puntati fianco a fianco. Quel dì basterebbe anche solo un metro scarso a ospitarli, tanto son vicine le loro spalle: ogni piccolo movimento fa frusciare la stoffa delle giacche.

Bruno uccide sul nascere l'istinto di premersi con più intento contro di lui. Fuma invece in silenzio e getta via volute argentee sulla spinta del vento, che lo porta lontano da entrambi. Ha rinfrescato un poco e, dopo giorni d'afa, si respira senza annaspare.

Non scaccia l'ormai familiare nube umidiccia che gli si condensa nel petto, però; inizia a pensare di dover rispolverare qualche tomo di cardiologia o pneumologia, piuttosto che di urologia, ché un cuore che fa di colpo le bizze e dei polmoni affaticati a quarant'anni dovrebbero dargli da pensare – pure la psichiatria sarebbe una branca consona, ma a quello non vuol pensare.

Si risintonizza sulle parole di Ricciardi appena in tempo per cogliere la sfumatura interrogativa del suo tono e afferrare la fine di una sua domanda:

«...lavorando molto all'ospedale?»

Scrolla le spalle e aspira fumo senza guardarlo.

«Perché me lo chiedi?»

«Ti vedo stanco, ultimamente.»

«Che c'è, ti metti a fare il commissario pure con me?» Bruno forza un sorriso e lo guarda di sottecchi; nota il suo stringersi di sopracciglia corrucciato e s'affretta a smorzare il tono pungente: «Sì, ho faticato assai. Mi son sderenato di straordinari.»

Ricciardi preme appena la spalla contro la sua. Non è casuale, come alcun altro gesto quella sera; si discosta quasi subito, però, e intreccia le mani di fronte a sé sul cemento umido di mare. Parla anche lui senza guardarlo:

«C'è un motivo per questo tua improvvisa dedizione al lavoro?»

Bruno scocca via una risata secca – e gli direbbe di quanto accaduto quella mattina, se solo potesse, se solo a smuovere quei coltelli non rischiasse di dissanguarsi.

«Per citare Čechov, sempre che ancora si possa citare un russo di questi tempi: faccio di più il medico quando mi sento troppo disperato per amare le donne.»

Getta lì quella frase rubata e non incrocia gli occhi di Ricciardi. Lo avverte farsi più teso accanto a sé, ma non ritratta né corregge né edulcora quanto appena proferito.

Che pensasse ciò che vuole: gli sembra che quella pantomima tra loro stia durando da fin troppo e, se è riuscito a gettar la maschera come un perfetto imbecille quel mattino con Marisa, allora dovrebbe esserne altrettanto in grado adesso – ma si sente nudo, a parlar così con lui; o fatto di sottile vetro soffiato che non nasconde nulla.

Avverte ancora il tocco della sua mano sulla propria ed è più bollente di qualunque altra fantasia chimerica abbia evocato la sua mente tra le mura d'un bordello. Perché è vivo, concreto, reale, e può accadere di nuovo – solo che non dipende da lui.

Ricciardi, infine, sospira a bassa voce:

«Viste le tue ultime bravate, mi vien da dire che è un bene.»

Bruno volge gli occhi a guardarlo – ed è un errore, perché incrocia i suoi e hanno quella tinta tra il grigiolino e l'azzurro che li rende simile al mare nuvoloso – ma replica senza battere un colpo:

«Riccia', ti preferisco commissario che prevete.» Forza un sorriso impenitente, contro l'amaro che lo storce. «E mi pare che la cosa vada pure a vantaggio tuo.»

Lui alza gli occhi al cielo, con quel suo fare un po' teatrale che segnala, di solito, anche la fine delle sue insistenze. Torna a guardare le onde, con una gradazione di porpora in più a segnargli gli zigomi. Bruno si impiglia ancora sul profilo delle sue labbra, che lui si è appena umettato sovrappensiero.

Infigge poi lo sguardo in basso, sulla pietra porosa su cui ha incuneato le dita – vuole baciarlo. Gli sembra di avere in testa un grammofono dalla puntina impallata sullo stesso identico solco da giorni. Vuole baciarlo e non può – di certo non qui, in campo aperto, e non con tali pensieri neri in testa.

L'ultima persona che ha baciato è Marisa. Sulla stessa bocca che gli ha scagliato addosso veleno quando s'è arrischiato a esporsi troppo – e c'è riuscito magnificamente, ad allontanarla, anche più di quanto avrebbe voluto. L'ha contaminato, o forse lui ha contaminato lei. Non vuol fare lo stesso ora, rischiando di rompere qualcosa che non s'è nemmeno del tutto formato – gli si accartoccia il petto nel pensare Ricciardi che gli rivolge parole altrettanto astiose al suo primo gesto inconsulto.

Spegne il sigaro contro il parapetto e se lo ficca nel taschino: gli si è inacidito pure il fumo sulla lingua.

D'un tratto, Ricciardi emette un respiro più sonoro, simile a uno sbuffo trattenuto; Bruno insegue il suono e lo coglie a sorridere tra sé, col capo reclinato in avanti e la ciocca di capelli sulla fronte a molleggiare sospinta dal vento – gli si ribalta lo stomaco di vertigini elettriche, ma non distoglie lo sguardo e pianta su un'aria spavalda.

«Che tieni da ridere?»

«Niente.» Una piccola pausa, uno stirare sornione di labbra. «Ho solo ripensato a una delle cose affatto fastidiose che hai fatto l'altra sera.»

Bruno si sente avvampare e ringrazia la barba, la penombra dei lampioni e di non essere pallido quanto il suo compagno – però, sotto lo sterno ormai prossimo alla frattura, avverte un briciolo di sollievo. È un gioco sciocco, quello che sta iniziando Ricciardi, ma è anche la prova che a essere pazzi da legare sono in due. E sta quindi al gioco: si gira del tutto verso di lui, poggiato di fianco contro il parapetto, e lo invita a parlare con un cenno del capo.

«E sentiamo, che avrei fatto di così divertente?»

«Ti sei messo a cantare, di punto in bianco.»

«Quello lo ricordo, commissario,» sogghigna lui, sebbene un poco più accaldato. «Non ricordo cos'ho cantato, ma forse è meglio.»

«Non so nemmeno se fosse una canzone vera.» Gli occhi di Ricciardi si fanno fessure, la fossetta fa capolino all'angolo della bocca e Bruno manca qualche battito in previsione della stoccata, che non tarda ad arrivare: «Però hai messo bene in chiaro che fosse per me.»

Il sorriso gli si congela in volto – e oltre a un cardiologo gli serve pure un gastroenterologo, ché lo stomaco gli si è appena annodato su se stesso. Gli punta l'indice contro.

«Te lo stai inventando.»

«T'ho detto che tengo in gran conto l'onestà.»

Bruno gli rifila un buffetto fulmineo del dito sulla punta del naso che lo fa sbottare a ridere – ed è così raro, sentire quel suono, che si farebbe prendere in giro pure tutta la sera.

«To', Pinocchio, bada a quel che dici.» Posa la mano tra loro, invece di ritrarla – trema contro la pietra fresca di salsedine quando Ricciardi vi appunta lo sguardo. «E che altro avrei fatto, secondo il tuo resoconto impeccabile?»

Ricciardi si pizzica il naso là dove l'ha sfiorato e si addossa di schiena al parapetto, col braccio a un millimetro dalla sua mano. Le sue pupille saettano rapide all'intorno, senza incrinare la celia sul suo volto – Bruno lo imita, gettandosi un'occhiata da sopra la spalla, ma il lungomare è deserto e via Caracciolo semivuota, coi radi passanti lontani che appaiono e scompaiono sotto i coni dei lampioni. Sono forse quei loro gesti cauti a parlare più di tutto il resto.

Bruno tende le dita e gli sfiora il braccio. Per poi ritrarle, accartocciate sotto al palmo.

«Ti va se continuiamo a parlare ai giardini?»

La proposta a mezza voce di Ricciardi quasi si perde nel mormorio del mare – Bruno, seguendo la risacca dei suoi pensieri, si affida a lui e gli lascia di nuovo il timone.

«Sì, qui inizia a far troppo fresco,» concorda in scioltezza, «poi ti buschi un malanno e tocca a me rimetterti in sesto.»

Non dice che non gli dispiacerebbe, ma coglie il brillio malizioso nelle sue iridi cerulee e sa che l'ha pensato pure lui.

E nessuno dei due proferisce una parola sul sentirsi troppo esposti e in bella vista, ma l'occhiata complice e tesa che si scambiano nell'incamminarsi verso la Villa Comunale gli fa schizzare i battiti in gola – perché lo sanno entrambi che, a questo punto, è meglio che nessuno li senta o li veda, quasi fosse un crimine anche soltanto starsi accanto come sempre, solo coi pensieri sbagliati in testa.

La situazione, al riparo relativo delle frasche della Villa, sembra prender vita propria e involarsi di sua sponte verso tutto ciò in cui non hanno osato indulgere oltre lo schermo fitto dei pioppi e delle siepi, ora che vi sono solo i marmi delle finte statue greche a osservarli.

Inizia con il camminare troppo vicini, quasi inciampando nei passi dell'altro, continua con sguardi tagliati a mezzo dalle luci calde dei lampioni e finisce con l'occupare una panchina gomito a gomito, in un punto un poco in ombra, sulla piazzetta interna, dove lo scroscio della fontana rende difficile essere uditi se non da vicino.

Bruno non direbbe che si sente più tranquillo, dacché avverte vari scompensi fisiologici attraversargli le membra, ma la sua soglia d'allarme s'allenta di mezza tacca nel doversi preoccupare di guardare solo dinanzi a sé, lungo il viale deserto a quell'ora della notte. Non stanno facendo nulla d'increscioso, dopotutto, né lui ha la minima intenzione di incorrervi e, ritiene, nemmeno Ricciardi: saranno pure pazzi, ma non sono fessi.

E, soprattutto, sono entrambi del tutto sobri – non grazie a lui, ma alla lungimiranza di Ricciardi nel sottrargli la bottiglia per tempo.

Bruno inclina la testa all'indietro, le mani cacciate nelle tasche e le gambe stese dinanzi a sé. Sospira melodrammatico.

«Devo aver combinato qualcosa di tremendo, se t'è toccato infrattarci fin qua per dirmelo.»

Ricciardi non risponde, con le braccia incrociate al petto e la testa un poco incassata nelle spalle. Sembra essersi fatto d'un tratto schivo: lo vede anche deglutire spesso, in modo quasi udibile, come se avesse la bocca secca. O, magari, sta solo accusando la solita cravatta annodata a strozzo – trattiene la tentazione di allentargliela, in quel gioco di gesti e sguardi che fingono di ignorare a vicenda, anche se gli punge le dita.

«Niente di tremendo, tranquillo.» Una vibrazione incerta gli attraversa la voce. «Solo, credo, molto imbarazzante per entrambi.»

«E capirai,» ride con falsa sicumera lui. «Io tengo già la corona in testa, per gli imbarazzi.»

Ricciardi non risponde all'ilarità e, anzi, si chiude ancora un poco tra le spalle; anche se le sue labbra continuano a oscillare tra un mezzo sorriso e una smorfia tesa. Si schiudono infine attorno a una frase traballante:

«Bruno, io non so che fare o dire, ma non credo di poter fare o dire niente di ciò che mi passa per la testa adesso.»

A quelle parole, Bruno si gira un poco di lato, un'aria di sfrontatezza dipinta in volto che, solo a sfiorarla, si sbriciolerebbe – e vorrebbe che Ricciardi lo facesse di mano sua, ora o quando mai sarà il momento. La mantiene, invece, scorgendo sul suo volto giovane l'impaccio di chi in queste situazioni vi si è trovato a stento in vita sua – figurarsi con un uomo – e finge senza remore, senza dar ascolto alle voci moleste che gli sibilano di non farsi vedere a suo agio nei panni d'invertito, nuovi di zecca e pruriginosi come per lui.

«Sul fare, non saprei... ma il bavaglio non ce l'hanno ancora messo, che io sappia.» Con intento, allunga un ginocchio a sfiorare il suo. Lui non si ritrae. Inspira ed espira lentamente, gli occhi appena socchiusi. «Quindi, se ti va di continuare la rassegna della vergogna a mie spese...» le labbra di Ricciardi si tendono rapide in un risolino muto, «...io sto qua apposta per sentirmi dire quanto posso diventare cretino se sto con te.»

«Molto, credimi.»

Tiene lo sguardo fisso sul selciato davanti a sé, ma è come la sua intera essenza fosse rivolta verso di lui; ne avverte il calore e l'intensità addosso. Bruno asseconda la lieve spinta che lo fa inclinare verso di lui – mezzo millimetro appena, abbastanza per scorgere meglio, nella penombra, il minuscolo neo all'angolo dell'occhio e il segno appena intuibile della fossetta vicino alle labbra ora rilassate. E, a bassa voce, riprende le fila di quel gioco innocuo che Ricciardi ha iniziato a intessere tra loro – in una dolce finzione che gli confonde i pensieri:

«Quanto, per l'esattezza?»

«M'hai detto che sono la persona più bella che conosci, o qualcosa del genere.»

«T'ho detto solo che sei una bella persona.»

«Sì, e poi hai aggiunto "la più bella che conosco"; parole tue.»

«Intendevo spiritualmente.»

Gli occhi di Ricciardi scattano verso i suoi, stretti dal riso e di un colore a cui non riesce a dare un nome, nella penombra irraggiata appena dalla luna.

«Spiritualmente, tu sei un bugiardo.»

Bruno storce appena le labbra, suo malgrado colto in fallo.

«Vero,» e non distoglie le pupille dalle sue. «O falso? Se son bugiardo, non fa differenza, no?»

«Non per me.»

Ricciardi, in un modo che gli attorciglia cuore e stomaco assieme, abbassa lo sguardo e lo scherma con le ciglia scure. Poi, le sue dita gli sfiorano la mano e scostano il polsino della camicia, trovando la sua pelle sensibile; avverte il proprio battito contro i suoi polpastrelli, un ritmo troppo rapido che si impenna a quel contatto incerto, tremolante come acqua mossa. Fa scorrere il pollice sul suo polso, in un solletico gradevole che gli prosciuga la bocca.

Bruno non sa chi dei due si sia accostato per primo all'altro – sa solo che coglie l'orma della sua colonia boschiva addosso e che, a sporgersi ancora un poco, potrebbe premere il naso contro il suo – potrebbe, ma non lo fa.

«Ho fatto qualcos'altro degno di nota, quella sera?»

Lui riaffonda gli occhi nei suoi – ha le pupille dilatate, con uno sparuto circoletto ceruleo e argento a contornarle. Scattano per un istante sulla sua bocca, poi innalza le labbra in un sorrisetto, un piccolo arco d'ilarità che gli incide quella fossetta rivelatrice. La stretta sul suo polso si fa più salda e tremula assieme.

«Forse.»

Lo sussurra così piano che quasi si perde nel fruscio delle fronde a un colpo di vento più sostenuto – la sussurra, eppure avverte la parola contro le labbra, calda del suo respiro – non si è nemmeno accorto che fossero così vicini – e anche Ricciardi vuole baciarlo.

Quel pensiero così ovvio gli balena in testa con lo squarcio di una folgore – e non pensa, nel posare un palmo sul suo volto per accostarlo a sé: sente solo il mondo che si ribalta ancora una volta, stavolta dal verso giusto, che è pure quello sbagliato – e lo è da sempre.

E si capovolge di scatto nel medesimo istante, quando Ricciardi, gli occhi ora sgranati, trattiene il fiato e, in un movimento così brusco che gli spezza l'aria in gola, pianta entrambi i palmi sul suo petto per scansarlo da sé – e gli spezza pure il petto in due.

Bruno ingolla a vuoto il bacio, il cuore; ogni pensiero annerisce e si sfalda in un battito di ciglia di colpo umide, impregnate della nube mefitica che gli sguazza nel petto – 'no schifo 'è omm, ecco cos'è lui – e ha sbagliato di nuovo tutto, lo legge nelle iridi tinte d'orrore di Ricciardi.

Solo che l'orrore impregna anche le proprie, quando capisce che sono puntate non su di lui, ma dietro di sé. E quando ode, sul viale, il suono ritmato di stivali in marcia.

Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
lo so, sono una persona orribile. E per stilare questo capitolo ci ho messo gli anni di Nostro Signore Gesù, ma finalmente sono tornata! Siamo a un passo dalla fine, giuro. Mi si è allungata la storia, perché non potevo far stare in un capitolo tutto ciò che doveva accadere, ma ci siamo **

Il capitolo in questione è volutamente più frivolo e leggero: non volevo sminuire quanto accaduto a Bruno (né quanto lui ha fatto, eh), ma l'intento era quello, molto semplice, di farlo essere più rilassato quando è con Ricciardi. Soprattutto, di mostrarvi come, quando dall'esterno sembra sempre sicuro di sé, è in realtà in balia dei pensieri più disparati.

Ricciardi può sembrare il più timido e in un certo senso lo è, ma mi piace rappresentare questo suo lato molto volitivo che emerge di tanto in tanto e che lo rende estremamente diretto (fino all'eccesso, perché a volte passa per sgarbato), oltre alla verve giocosa e impertinente che riserva alle persone care, un tratto caratteriale che io adoro alla follia.

Insomma, tutto bellissimo, ma il gioco è bello quando dura poco e io non potevo dimenticarmi del periodo storico. Quindi, eccoci qui :D

Grazie a chi continua a leggere e commentare questa follia, mi rendete felicissima <3 Il prossimo capitolo arriverà in tempi molto più brevi!
A presto,

-Light-

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