12.2 Sul lasciar perdere
*
D'incrociare Marisa, dopo quanto accaduto con Gemma, non ha proprio la minima voglia; eppure, quando lei lo scorge nel corridoio del piano superiore, non ha cuore di sottrarsi.
Vi è una strana sensazione da burattini sul palco, nel parlare con lei adesso, coi lombi ancora intorpiditi dal piacere e il cervello annacquato da pensieri così torbidi da farlo vergognare di avere un intelletto. Perché ha pensato a tutto ciò che non doveva pensare per tutto il tempo in cui è stato dentro Gemma, e poco ci è mancato che chiamasse lui - non sa nemmeno con quale nome.
Gli sporcano la mente, quelle fantasie; fantasie che poi evaporeranno nel ritrovarsi Ricciardi davanti, ché pure rivolgergli la parola o sfiorargli una mano gli sembrano gesti che urlano e che gli scottano la pelle - non riesce nemmeno immaginarsi di stare nella stessa stanza con lui, figurarsi nello stesso letto.
Per ora, quello che riesce a immaginarsi è il motivo dell'espressione un poco affranta di Marisa nel venirgli incontro, appena uscito dalla stanza d'un altra. E se s'è sempre reputato troppo intelligente per innamorarsi di una prostituta, si rende conto solo ora che, forse, è stato anche troppo insensibile per preoccuparsi che una prostituta s'innamorasse di lui.
Se è così facile legger l'amore negli occhi di qualcuno, come ha fatto Gemma prima e come sta facendo lui adesso, allora è spacciato.
«Dotto', m'iniziavo a preoccupare. Non v'ho più visto in giro!»
Gli rivolge un sorriso che è radioso, a dispetto della lieve malinconia che le screzia le iridi scure. Ha i capelli acconciati in onde morbide, raccolti in parte sulla nuca da un fermaglio; le scendono sulle spalle in riflessi caldi solcati da venature più chiare, come legno liquido. È tra le poche a portarli così lunghi e a Bruno viene sempre un mancamento, quando li libera di colpo mentre è con lui.
Abbassa di poco lo sguardo, con un groppo alla gola - come fa a pensare certe cose, se ha passato l'ultima mezz'ora a immaginare di far sesso con un uomo? Gli si impregna il petto di quella nube opprimente che, ultimamente, sembra aver preso dimora nei suoi polmoni, e s'affretta a rispondere prima di tacere troppo a lungo:
«E io che pensavo di farti piacere, a lasciarti un poco in pace.»
Lei sbuffa, melodrammatica, una mano premuta sulla fronte; gli si attacca al braccio, come fa spesso, nell'accompagnarlo verso le scale in fondo al corridoio.
«Ma che dite! Gli altri uomini mi fan venire solo il mal di capa... almeno voi ricete buono e un poco di belle maniere le tenete...» Bruno s'allarma nel cogliere una pausa intenzionale. «...di solito, almeno.»
Si arrestano in un salottino d'attesa compresso tra due corridoi. Bruno scrolla appena le spalle, già intuendo cosa voglia dire; e Marisa non lo fa attendere, gli occhi grandi piantati nei suoi:
«Ma che v'è preso con Gemma, si può sapere?»
«M'è preso che ho fatto i comodi miei.»
«Voi così non vi ci siete mai comportato, con me. Io non ci volevo credere, quando c'ha detto quello che avevate combinato.»
«E che ti devo dire?» Bruno sottrae il braccio dalla sua stretta, con un urto al cuore nel farlo. Sfoggia un sorrisetto strafottente. «Forse sono come tutti gli altri uomini, solo che lo nascondo bene.»
Marisa esita, come incerta se prenderla sullo scherzoso o meno.
«Sentite, non importa. Gemma ha detto che vi siete scusato e che è tutto buono.» Sorride di nuovo, sebbene un poco più incerta, la bocca piena strizzata dalla tensione. «Io mo v'agg ricere 'na cosa.»
Fatica a star ferma e tormenta il pizzo del suo abito di raso vinaccia. Bruno, che fino a un momento fa non vedeva l'ora d'uscir di lì, avverte un picco d'interesse misto ad allarme per quell'improvvisa fibrillazione. Le posa le mani sulle braccia scoperte, a quietarla.
«Mari', mi fai venire il mal di mare. Che c'è? Che è successo?»
«Io ve lo volevo dire già la scorsa settimana, solo che prima stavo male e non era il caso, e poi voi non vi siete più fatto vivo...» scuote la testa, come a minimizzare quel rimprovero velato.
Lo tira poi più discosto dal corridoio, per i polsi, dietro uno dei separé da spogliarello, sebbene non vi sia anima viva in giro. In fretta, tira fuori un foglietto ben ripiegato da una falda interna dell'abito. Circospetta, gli occhi che ronzano a destra e a manca, glielo mostra. Bruno, incuriosito, legge le prime righe di quello che sembra un documento ufficiale e, poi, si scioglie in un sorriso sincero.
«Mari', ma sul serio fai?» parla sottovoce, la mano libera ora stretta tra quelle trepidanti e calde di Marisa.
«Io non so leggere, ma m'hanno detto cosa sta scritto e mi son fidata... non ho firmato, però, prima volevo che me lo leggevate voi, ché solo a voi potevo chiederlo.»
I suoi occhi scuri si fanno più grandi, speranzosi. Bruno le si accosta, segnando le righe sul foglio con l'indice intanto che legge per lei, parafrasando un poco il linguaggio pomposo:
«In seguito al provino tenutosi al Teatro Bellini, tu, Maria Assunta Scognamiglio, di anni ventisette, sei stata ingaggiata come sciantosa* per lo spettacolo di rivista nuovo di Michele Galdieri, L'Italia senza sole. Mari'! Pure a Roma ti fanno esibire, e pare che ci staranno addirittura i De Filippo a sovrintendere.»
Marisa porta di scatto le mani alla bocca e si lascia scappare un respiro acuto. Come se, fino a quel momento, avesse creduto d'aver tra le mani tutt'altro e d'esser stata ingannata. Poi, con gli occhi così lucidi che forse non vede nemmeno a un palmo dal viso, gli getta le braccia al collo e lo stringe a sé con tale forza che gli strizza via l'aria dal petto. Bruno sbuffa una risata leggera e non le nega quel contatto - forse dovrebbe, ma gli sfarfalla il cuore a vederla così felice.
«Di' un po',» la scosta da sé, una mano a cingerle la vita, «ma come hai fatto ad andare al provino?»
«Di nascosto... anche se, secondo me, Mamma Clara lo sapeva e ha fatto finta 'e niente.»
Bruno ridacchia, affatto sorpreso. Marisa tiene fissi su di lui gli occhi che hanno inumidito le ciglia lunghe. Sembrano farsi più profondi, più brillanti.
«Coi soldi che ho accattato con le percentuali e pure coi vostri, posso campare da sola per un po' e affrancarmi dal mio gestore. Me ne posso andare di qua, capite? E lavorare sul serio.»
«È una cosa bellissima, Mari'. Sono contento per te, sul serio.»
Lei sorride furbetta, con quell'aria da volpe che le gonfia gli zigomi e accentua la forma a cuore del suo volto. Un vivo rossore le sale ad accenderlo.
«Pure se poi non mi vedete più, dotto'?»
«E chi l'ha detto?» ride a bassa voce lui, rifilandole un buffetto sotto al mento. «Magari, invece, ti vedo a teatro e non qua dentro.»
Si troncherebbe la lingua nell'istante stesso in cui parla, perché Marisa sgrana un poco gli occhi e il suo sorriso s'incrina di una tacca. Poi, d'impeto, li chiude e spinge le labbra sulle sue, in un bacio che ha il sapore agrodolce di qualcosa che ha forse trattenuto fin troppo a lungo.
Bruno manca un respiro, bloccato a mezza via e sulle sue labbra. La allontana da sé, un palmo delicato a raccoglierle la guancia.
«Marisa...»
Forza un tono serio, ma vorrebbe solo baciarla di nuovo - fare quella cosa normale che lei gli ha sempre negato e lui non ha mai ricercato. Marisa, però, lo interrompe con voce d'un tratto tremante:
«Lo so. Però, per una volta, non potete fingere voi con me?»
Bruno esita, per un singolo istante - con troppi pensieri elettrici che friccicano nel cranio - un singolo istante in cui le sfiora le labbra con la punta del pollice, prima di incontrarle di nuovo - e ogni pensiero si spegne, ché a pensar troppo ha rischiato di diventare matto.
Non finge, però: quel bacio è per Marisa. Solo per Marisa e per nessun altro.
Non sa nemmeno perché, di preciso - come se servisse una ragione, quando non ne ha mai cercate. Forse, per essere stata ciò che non ha mai voluto cercare fuori da un bordello e che,
allo stesso tempo, può esistere solo là dentro.
E gli piace, Marisa, gli piace davvero: dalla cascata mogano dei suoi capelli alla lieve asimmetria delle labbra; dalla risata sbarazzina alle risposte acute che gli rifila spesso - è un sollievo pensarlo, è un sollievo che Marisa sia solo Marisa.
Si spinge contro di lui, in quel momento, lo annega nella sua bocca e tra i suoi capelli nella richiesta più semplice del mondo; quella che, di solito, è lui a sospirare mentre sono a letto - quei ti voglio a cui non ha mai dato il peso che meritava.
Frena le sue mani che sono scese a slacciargli i pantaloni e, per i polsi, la guida a sedersi su una delle ottomane dietro il separé. Scivola quindi tra le sue gambe, abbandonando le sue labbra solo per posare le proprie sulla pelle sensibile della sua coscia - lei freme appena quando le fa il solletico con la barba, una volta scostato il pizzo dell'autoreggente e fatta scivolar via la seta della lingerie.
Marisa non esala una singola parola; a parlare sono il suo respiro accelerato e le dita annodate tra i suoi ricci, sono i suoi occhi schermati a mezzo dalle ciglia e fissi su di lui, la sua bocca incorniciata dal rossetto sfumato, socchiusa in cerca d'aria.
Bruno continua a non fingere, con una morsa al basso ventre che si fa dolorosa e poi fiacca - ancora spossata da poco fa quando, invece, ha finto eccome; e quasi se ne pente.
La bacia; porta la sua gamba sopra la spalla e fa scorrere le labbra sulla sua pelle sensibile; la bacia sulla caviglia, dietro il ginocchio, lungo la coscia, sulla curva delle creste iliache, sul Monte di Venere, lì dove ha posato le mani altre cento volte, a disegnare sentieri invisibili e umidi con una calma che non le ha forse mai concesso.
La bacia, infine, dove lei gli ha insegnato come baciarla; si inebria del suo essere donna e vi si aggrappa, a quelle sensazioni che gli mordono i lombi - normali, conosciute, poiché gli appartengono - ma anche quello è per Marisa. Lo è ogni singolo gesto che le dona e che non finge, lo è il piacere setoso che gli accarezza la lingua come fosse anche suo.
Torna infine lento sulle sue labbra, stretto tra le sue gambe tremanti; Marisa lo accoglie con un bacio altrettanto tremante, come il refolo che le sfugge quando fa scivolare piano una falange dentro di lei:
«Bruno.»
È solo nell'udire il proprio nome, quello che Marisa non ha mai pronunciato, che si rende conto, in un guizzo doloroso che gli strozza la gola, di quanto sia crudele ciò che sta facendo. Trattiene l'istinto di accelerare, o di ritrarsi, di porre fine a quella che, no, non è una farsa, ma può esistere solo in quel preciso spazio, sottovoce e riparato dagli occhi altrui - e pensa, in un lampo altrettanto folgorante, che a quella sensazione dovrebbe abituarcisi in fretta, anche fuori di lì e con altri.
Si aggrappa ai sospiri di Marisa per strapparsi da quei pensieri, ai suoi piccoli gemiti soffocati quando la tocca più a fondo, con più intento, trattenendo a fatica anche lui la voce che vorrebbe seguire ogni spinta delle sue dita - ed è quasi una liberazione colpevole sentirla farsi più scivolosa e infine inarcarsi e irrigidirsi contro di lui, le dita conficcate nelle sue spalle. Si accascia contro lo schienale dell'ottomana, con gli occhi chiusi e il seno che s'alza e s'abbassa frenetico.
Senza una parola, Bruno si districa da lei, si rialza da quella posizione che gli ha anchilosato le ginocchia e si siede lì accanto, il viso adagiato a un soffio dal suo.
Marisa gli cerca subito le labbra, con l'intensità molle di chi è ancora avvolto tra le soffici volute del piacere. Le cerca una, due, tre volte - come se lo sapesse, che dovrà smettere presto - e Bruno non la ferma.
Nemmeno lei parla, ma infine gli si raggomitola contro, con ancora la veste scomposta, un'autoreggente arrotolata fin sotto la caviglia e la lingerie che occhieggia dal tappeto.
Gli passa, con lieve forza, un dito sulle labbra e sul loro contorno, immagina a ripulirlo del rossetto di cui l'ha sporcato; e le sfugge un sorriso microscopico.
«È pure per questo, che di solito non lo facciamo.»
La sua voce piena si è assottigliata, ma vibra dell'ironia che gli ha regalato spesso, anche se adesso suona un po' storta e raffazzonata. Nasconde subito il volto, con un respiro più profondo. Bruno si sporge dalla seduta, recuperando dal pavimento il foglio del contratto ora un po' spiegazzato.
«Meglio se questo non lo perdi.»
Lo porge a Marisa con un sorriso appena accennato. Lei lo ripiega per bene e lo infila nel corsetto nel gesto disinvolto e automatico con cui accettava i suoi soldi in più. Rimane in silenzio, con le ginocchia rannicchiate in grembo suo e la testa reclinata sulla sua spalla. S'è fatta seria, tutto d'un tratto. Triste, gli viene da aggiungere, e per tutte le ragioni.
È quello che accade a usarsi a vicenda, immagina.
«Dotto',» spezza il silenzio infine, rifuggendo di nuovo il suo nome, «a fregarmi accussì so' state l'uocchi vuoste.»
Bruno le solleva il viso con un dito, per guardarla proprio con quegli occhi. Quelli di Marisa sono lucidi.
«E che terranno mai di così speciale?»
«Che non mi hanno mai guardata come una puttana. Mai. Manco ora.»
«Io ti ho conosciuta come paziente, non come puttana. E t'ho guardata come si dovrebbe guardare un paziente, e poi una persona.»
«E vi pare poco?»
«Mi pare il giusto. Più di questo, però, non posso darti.»
«Lo so, ma ci tenevo speranza lo stesso.» Marisa tira un sorriso amaro. «Per questo sono
una sciocca.»
«Mari', stammi a sentire.» Bruno le prende il viso tra i palmi, con delicatezza e senza portarsi troppo vicino a lei. «Tu non sei sciocca, ma la speranza devi tenertela per altre cose. Per la vita che ti puoi rifare e per qualcuno che ti vuol bene davvero.»
«E non me ne avete voluto manco un po', voi?»
Bruno non riesce a reprimere il sorriso incredulo che gli solca le labbra, a dispetto del dolore sordo che gli afferra le costole.
«E stavo qui ora, se non te ne volevo nemmeno un poco?» Le preme le labbra sulla fronte, a rimarcare, forse in modo futile, il tipo d'affetto che intende, troppo ammischiato col piacere e col sesso. «Dammi retta: non la vuoi, una vita con me; io non sono proprio capace, a vivere come si conviene là fuori. Quindi, vattene da qui e scordati di questo posto e di me.»
Lei scuote appena il capo, gli occhi scuri come opali piantati nei suoi.
«No, di voi non mi scordo.»
«Marisa, non-»
«Dotto'.» Sorride e gli riporta in basso i polsi, sfuggendo la sua stretta. «Voi, con queste mani, mi avete salvato la vita. Ma come faccio a scordarmi di voi?»
«Con un po' di impegno e con 'nu bravo guaglione che ti porta a cena fuori, ti dice sciocchezze e che puoi baciare quando vuoi, col rossetto o senza. Con uno che, magari, una famiglia vuole dartela, se mai la vorrai anche tu.»
Le sfiora il ventre in punta di dita, in un'allusione silenziosa.
Di tutta risposta, Marisa preme una mano sulla sua e sospira piano. C'è rassegnazione, in quel sospiro, ma forse anche una sorta di pace. Lo stringe a sé, con un intento diverso da soli pochi minuti prima - Bruno avverte il suo cuore battere forte, in corsa, sotto al suo seno morbido che sa di gelsomino e rosa, in cui s'è perso fin troppe volte.
Bruno ricambia quell'abbraccio goffo, di chi non è abituato a darne di casti.
«Mi dite solo una cosa?» la sua voce gli vibra nell'orecchio, sfiorato dalle sue labbra. «È vero che tenete una femmina fuori da qua?»
Bruno sospira sottovoce. E sa, in quell'istante, che Marisa non lo scorderà mai, no, ma nel peggiore dei modi. E forse è meglio che lo ricordi in odio, piuttosto che in amore. Decide in quel singolo battito di ciglia - in un battito di follia, forse, nella speranza fallace che andrà tutto bene.
«Sì, c'è qualcuno.»
Marisa sorride appena, a dispetto delle lacrime che le scendono a tradimento sulle guance. Se le asciuga a forza col palmo, ma non le nasconde.
«Anche per questo sono una sciocca: per aver pensato cà nun site n'omm comm'a tutti l'ati.»
«E forse non lo sono, infatti.» Deglutisce a vuoto, coi battiti che si spostano dal petto al collo in un picco d'ansia. «Il punto è che questo qualcuno non è una donna.»
Marisa, dopo un singolo istante di sgomento, punta le mani sul suo petto, a scansarlo un poco.
«Ma che dite?» Sorride a forza, spaesata. «Mi volete pigliare in giro, dotto'?»
«Affatto.» Il volto di Marisa muta espressione nell'arco di un singolo secondo, mentre lui è ancora intento a dir fesserie: «Volevo solo essere sincero con te.»
Marisa lo fissa a occhi sgranati per secondi che sembrano scorrergli addosso come melassa. Poi, s'alza di scatto, il turbamento che le inacidisce i tratti dolci in pieghe irate. Parla in un sibilo, stentando a controllare il volume della voce:
«E che c'è di sincero a esservi chiavato me per mesi come un rattuso, pagandomi pure, se non mi volevate neppure per davvero?»
«Non ho detto questo! Non ti ho mai mentito, nemmeno adesso; non mi sono mai forzato a-»
«Ma avete forzato me ad andare con... con uno come voi!»
Lo sputa fuori con tale disgusto che Bruno si sente come se gli avesse sputato addosso fisicamente - fa male, più di quella volta che s'è beccato una manganellata sul naso, sempre per essere sbagliato a detta d'altri.
S'alza di scatto in piedi anche lui, investito dalla sua furia improvvisa - ma non inaspettata e, anzi, s'impone d'esser contento di vederla, perché è una garanzia di lontananza - gli si accartoccia il petto come carta velina, però.
«Cosa cambia, questo?»
«Tutto, cambia!»
«Pure i soldi che t'ho dato? Dovresti ridarmi pure quelli, se ti fan così schifo come me!»
«Quelli me li tengo, ché mi ripagate almeno dello scuorno!»
«Certo, mi sembravi proprio scuornata assai, due minuti fa!»
«A sapere che eravate un invertito, manco con un vostro dito lurido mi facevo sfiorare! Voi non m'avete mai detto niente!»
«Che senso avrebbe avuto dirtelo?»
«E che senso ha dirmelo adesso!»
In quel fuoco serrato di frasi urlate sottovoce, Marisa, in un gesto tremante e stizzito, abbassa gli occhi e si liscia a scatti la gonna ancora scomposta, come se avvertisse addosso lo schifo d'essersi fatta toccare da lui. Rialza lo sguardo di scatto, il viso inondato di lacrime improvvise che le sfaldano il trucco scuro.
«Gemma teneva ragione: siete 'no schifo 'e omm, se uomo siete.»
Le scappa un singhiozzo, che ingolla poi con rabbia. Bruno avverte un'altra manganellata, dritto in mezzo alle costole, e poi un'altra, quando Marisa parla di nuovo, a voce più alta:
«Vattènne.» Al suo tentennare, si scaglia contro di lui e gli assesta uno spintone in petto. «Vattènne! O chiamo la guardia.»
Bruno, in un silenzio di corde vocali stritolate, esce senza una parola dal riparo del separé, quasi in corsa; nel gettarsi un'occhiata alle spalle, coglie Marisa accasciarsi sull'ottomana dove ha sospirato sulle sue labbra fino a cinque minuti fa e scoppiare in singhiozzi silenziosi, coperti dalle mani. Ogni augurio di buona fortuna gli appassisce in bocca.
«Io sarò pure uno schifo di uomo, ma non ho mai finto con te,» dice invece, con la voce che trema e pare un terremoto; e Marisa rialza di scatto gli occhi fradici e ancora inviperiti, «e spero che tu non te lo scordi finché campi, del bene che t'ha voluto uno schifo di uomo come me.»
Le volta subito le spalle, col passo svelto e codardo di chi sa di non poter sopportare un'ulteriore risposta – e di chi non si scorderà mai, a sua volta, di tutto il male che ha fatto là dentro.
Si rifugia al volo nella ritirata lì vicino per rinfrescarsi un poco - sia il corpo che i pensieri.
Un'onda d'acqua gelida gli schiaffeggia il viso, a stemperare quella bollente che tenta di strabordare a tradimento.
Si fissa allo specchio e pare invecchiato di vent'anni solo nello sguardo. Rivoli gli ruscellano tra la barba corta e goccioline minute gli si appuntano sulle ciglia. Storce la bocca e vede quello che dovrebbe vedere: un puttaniere mascherato da gentiluomo che gioca con gli altri per capirci qualcosa di se stesso, con troppi fili grigi tra i ricci scuri e una natura deviata che forse gli si legge bene negli occhi un po' affilati e sfuggenti, di quel castano ora smorto che gli incupisce lo sguardo. Non si sorprende che ci sia riuscito pure Ricciardi, a leggergli dentro.
Stringe il rubinetto, come a chiudere anche il flusso dei pensieri, e si sente avvitare su se stesso pure il cuore non appena sfiora col pensiero l'eco delle parole di Marisa. Forse dovrebbe farci l'abitudine, a sentirle. A veder cambiare il volto della gente nel guardarlo per l'invertito che è - ma lui non è solo quello, e se l'è dimostrato più volte solo in quell'ultima ora. Non lo sa più, cos'è, e forse non dovrebbe importargli.
Gli viene quasi da ridere: gliel'ha detto, Ricciardi, di stare più accorto. Gliel'ha detto e lui non l'ha ascoltato, come troppo spesso fa. E teneva ragione pure stavolta.
La nube che gli si condensa nel petto da giorni si fa filamentosa, densa come un cirro sul punto di sciogliersi in pioggia; gli si incastra in gola e infine straborda.
Si asciuga il volto. Poi lo asciuga ancora, nel sentirlo bagnarsi di nuovo contro la sua volontà. Tira di scatto su col naso, evita lo specchio e si preme la base dei palmi sugli occhi ad arginarne la lacrimazione improvvisa. Soffoca un verso stremato. Giusto la nevrastenia, gli mancava - perché di capa non stava già abbastanza tocco.
Prima di uscire dal bagno, si prende tre minuti per ricomporsi, anche se ormai gli si sono arrossate le sclere e pare una donnicciola in pena d'amore - nulla di più vero e di più falso, in fondo - nulla che non può ignorare.
Il fato, che da quanto vede s'è accanito con lui, vuole che incroci Gemma sul pianerottolo a metà della rampa di scale. Si arrestano entrambi di colpo nello spazio ristretto e Gemma fa per superarlo in fretta per salire, dopo aver scoccato uno sguardo perplesso al suo volto sfatto. La frena d'istinto, senza toccarla; lei lo fulmina, ma Bruno accenna al piano di sopra, da dove si sente ancora, attutito dal cicalio sottostante, il pianto sommesso di Marisa. Anche Gemma lo nota e gli rivolge un'occhiataccia affatto mansueta.
«Fammi un favore,» le sussurra, evitando di guardarla negli occhi. «Almeno finché resti qui, puoi tener d'occhio Marisa?»
«Che avete combinato, adesso?»
«Nulla. Assicurati solo che non faccia follie.»
«Non potete farlo voi?»
«A me non ascolterebbe.» Bruno tende amaro la bocca. «Al contrario di te, a lei interessa assai quello che tengo in testa.»
Gemma fa una piccola pausa, aggrottando le sopracciglia sottili e scure.
«Vado via lunedì, ve l'ho detto,» scrolla le spalle infine, «ma non mi costa nulla farlo. Per Marisa.»
«E tu per Marisa devi farlo; però non vuol dire che non sia un favore anche per me.»
Gemma piega le labbra in un mezzo sorriso al fiele, per poi addolcirlo appena:
«Una cosa pe' vuje fatela davvero, però.» Gli pianta rapida un indice sulla fronte, pizzicandolo appena con l'unghia. «Tenete la capa e il cuore a posto. Ché a tirar su la faccia finta a vita non siamo mica bravi tutti; e voi proprio per niente, dottore.»
E, senza una parola di più, sale svelta le scale e sparisce alla vista, con un ultimo scorcio di capelli corvini e iridi cerulee rivolte a lui.
Bruno serra gli occhi ancora brucianti, impalato lì, a mezza via tra il sopra e il sotto. Sul sipario delle sue palpebre calate, s'accalcano ombre su ombre, finché non si decide a scendere a passo pesante.
Una volta fuori, sospira piano nell'aria tiepida. Si accende il sigaro e si lascia l'insegna dorata del bordello alle spalle. Non vuol tornarci per un bel po', là dentro.
Note dell'Autrice:
Cari Lettori,
questo capitolo è lunghissimo ed è stato complesso e doloroso da scrivere.
Innanzitutto, perché io amo Marisa come personaggio, ho amato scriverla e la amo tutt'ora, nonostante il comportamento che ha nei confronti di Bruno.
Ripeto: non amo scrivere di personaggi perfetti. La perfezione non esiste, soprattutto nelle questioni morali. Qui nessuno dei tre agisce in modo irreprensibile, né Bruno, né Marisa, né Gemma. Sono tre persone che si fanno male a vicenda, anche quando cercano di far del bene o lo ricercano per sé. E quindi odiateli. O non odiateli. Criticateli, giudicateli, difendeteli, schifateli - ma capiteli anche, perché credo che sia la cosa più importante fra tutte, e non solo in una storia.
Il prossimo capitolo è l'ultimo di questa parte, una sorta di trittico. Dopodiché, ci sarà il capitolo finale e l'epilogo ♥
Grazie a tutti voi che continuate a leggere e commentare ♥
-Light-
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