11.2 - Sull'esser (troppo) sinceri

*

          È Bruno a insistere per riaccompagnarlo a casa, stavolta, adducendo un qualche labile principio d'equilibro inventato sul momento che, gli pare, Ricciardi non ha troppa foga di contestare.

Magari è una scelta un po' azzardata, visto come gli vien difficile guardarlo troppo a lungo negli occhi, dacché si ritrova in quella camera da letto con Gemma che non è davvero Gemma e gli svicola via il filo dei pensieri dalle mani. In un certo senso, è quasi contento di dover rivedere lei senza alcun obbligo; magari, a forza di starci insieme nella metratura ristretta d'una stanza, si abituerà anche a stare troppo vicino a Ricciardi senza sentirsi un guagliuncello in preda agli ormoni imbizzarriti.

Non sa ben dire chi dei due stia fingendo che tutto sia normale, dopo la discussione dell'altro ieri. Non sa neanche indicare con chiarezza rispetto a cosa si stiano fingendo normali: se rispetto alla secca, stizzita richiesta di Ricciardi sul mantenere distanze consone o se per le parole agghiaccianti che lui gli ha rivolto poco dopo.

Quelle sul non essere mai nato.

Bruno non se l'è scordate neanche per un secondo, in quel paio di giorni; se le è sentite, anzi, incuneate nel cervello in profondità, soprattutto mentre parlava con Gemma di figli nati per caso e soprattutto nel guardare Ricciardi in viso da quando gliele ha sentite pronunciare.

È come se, infine, gli avesse offerto una dimensione al vuoto che vede spesso occhieggiare dietro il velo di malinconia adagiato sul suo volto. Bruno, nelle sue disamine autoptiche dei comportamenti umani, l'aveva sempre attribuito a un qualche pesante lutto subito in giovane età – sapeva, d'altronde, sebbene non per bocca di Ricciardi ma piuttosto per quelle perfide intente ad appuntargli addosso un'aura di malaugurio, che ha perso la madre da ragazzo e che il padre l'ha conosciuto appena.

Non ha mai chiesto nulla in merito, però, così come Ricciardi non ha mai chiesto nulla a lui sul perché sia solo o non menzioni mai alcun parente. Bruno ne è sempre stato ben lieto, in verità: che ci si attacchi così tanto a quei presunti e indissolubili legami familiari, per definirsi come persone, l'ha sempre trovato un qualcosa d'indigesto – eppure, la foto di lui e Ettore la tiene comunque in salotto, per principio d'incoerenza innato.

E quelle parole, però, continuano a ronzargli in testa, alluccano come un calabrone imbizzarrito che sbatte dentro il cranio in cerca d'aria e rende difficile concentrarsi su quanto stiano dicendo lui o Ricciardi.

«...e me li devo segnar tutti in agenda, Riccia', 'ché tengo una memoria pessima per i compleanni, pure che ci stanno tre persone in croce a cui mi frega di far gli auguri.»

«L'agenda la devi anche guardare, però, visto che hai comunque mancato il mio.»

«Ma mi pigli in giro? È il primo luglio, tra... quanto? Tre giorni?»

«È il primo di giugno, Bruno.»

«'Naggia a li turchi!» gli molla una pacca di rimprovero sulla spalla. «E non m'hai detto nulla, tu?»

«Che ti dovevo dire? Di farmi gli auguri?»

Bruno sbuffa e scuote la testa, incassando il rimbecco.

«Vabbuò, poi lo correggo... comunque, sappi che io il mio te lo ricordo; non sia mai che mi sfugga l'occasione per farmi regalare un pranzo o una cena. Segna, va'...»

«È il sette di agosto*, lo so già.»

«Allora non tieni 'a capa sulo pe' spartere 'e rrecchie; ogni tanto m'ascolti pure.»

«Lo leggo in continuazione sui referti a nome tuo.»

«Eh, così è facile, però.»

Si fermano, ridacchianti un po' per la chiacchierata, un po' per i rimasugli del cicchetto che si son bevuti, dinanzi al portone di casa di Ricciardi. La serata è calda, afosa, nonostante l'ora tarda oltre mezzanotte. La brezza dal mare è frenata dagli alti palazzi attorno a loro. L'aria pare ristagnare e Bruno si chiede come a Ricciardi non stia pigliando un collasso, incravattato com'è sempre, quando lui si sente uscire l'anima sudaticcia dal petto solo con una giacca leggera e una polo indosso.

Si chiede anche molte altre cose, troncate dalla buonanotte che Ricciardi gli rivolge, gli pare senza un solo pensiero al mondo, dopo aver aperto il portone con la chiave. Fa per imboccarlo e Bruno lo trattiene per un braccio, senza ordine del cervello.

Ricciardi quasi sussulta e lo squadra interrogativo; lascia scivolare le chiavi in tasca, con un tintinnio che risuona nel vico deserto.

«Riccia', riguardo all'altro giorno...» si tronca, serrando un poco la presa per poi mollarla. Si sfrega il naso e forza un sorriso noncurante. «Io t'ho raccontato una cosa orrenda e tu mi hai rimproverato. Magari lo farei anch'io, se mi dicessi qualcosa del genere – pure se ne dubito, ché non ti ci vedo proprio a far questi casini – ma, comunque, non sarebbe per... per quello che ho fatto io; e capisco pure che ti sei inquietato, che magari ti ho fatto dire cose che...»

Butta fuori l'aria e ha perso il filo. Ricciardi lo fissa, perplesso, ma con una linea di tensione a segnargli la fronte, come se sospettasse dove stia andando a parare – e Bruno la pianta di girarci intorno, ché tanto una maniera delicata per dirlo non esiste:

«Senti, io non lo so, cos'è che ti fa desiderare di non essere mai nato. So solo che non mi piace che ti tieni certi pensieri in capa.»

Ricciardi solleva d'un centimetro appena le spalle, come a riassestarvi il peso invisibile che vi porta sopra. Non pare turbato, solo perplesso.

«Nemmeno a me piace averli, ma devo pur conviverci.»

«Guarda, Riccia', io son medico da quasi vent'anni e t'assicuro che nessun mio collega ti prescriverebbe mai di tenerteli solo per te.»

Ricciardi si frena visibilmente dal ribattere. Un velo di stupore gli allarga prima un poco gli occhi e poi un sorriso in viso, lieve ma malinconico. Si guarda intorno rapido, come sul chi vive e, quando parla, lo fa a voce bassissima:

«Questo lo so e ti ringrazio per la premura. Ma, di solito, non mi piace parlare di me con la gente.»

«Io non credo di essere "la gente".» Bruno si ferma un singolo istante a valutare come suonino quelle parole, per poi decidere che non gliene frega un piffero: «Almeno, spero di non esserlo più – o devo pensare che pure volerti essere amico sia riprovevole?»

Ricciardi si agita appena sul posto, spostando il peso da un piede all'altro. Scansa con intento i suoi occhi, un modo di fare atipico, per lui che fissa sempre a volto aperto tutti, e parla svelto, quasi precipitoso nel suo inseguire le parole:

«Bruno, non intendevo questo. Non sai quanto vale per me la tua amicizia, se così mi permetti di chiamarla.»

A Bruno viene quasi da ridere; e gli viene anche un infarto, crede, a giudicare dalle extrasistoli che sente tamburellare sotto lo sterno. Gli sembra che sia Ricciardi, adesso, a scusarsi per chissà quale atteggiamento sconveniente che non ha mai avuto. Si trattiene appena in tempo, ma un mezzo sorriso gli sfugge lo stesso.

«Mi hai riportato a casa ubriaco, di peso e mentre sproloquiavo, ti sei sorbito gli 'mpicci che faccio e so d'averti trattato da fetente: penso che tu possa chiamarla come ti pare e con termini meno gentili.»

Ricciardi sorride ancora di rimando, rapido, ma il gesto non coinvolge il resto del volto e si spegne presto. Adesso, però, lo sta guardando di nuovo negli occhi.

«Lo sai che non mi piace mentire.» Sospira piano, getta fuori aria stremata. «Bruno, io mi porto dentro un grande dolore. E credo che tu l'abbia intuito già da un pezzo.»

Fa una pausa, come a permettergli di ribattere. Bruno tace, conscio di stare vedendo i contorni di quell'ombra che Ricciardi sembra portarsi appresso, come un'eclissi sempre pronta a oscurarlo. Glieli sta delineando, adesso, in uno slancio di fiducia che quasi gli toglie la terra sotto ai piedi, dopo tutti gli scombussolamenti tra loro.

«Però, di questo grande dolore... io non voglio parlare. Nemmeno con te. Non è un qualcosa che si possa spiegare facilmente e preferisco che tu continui a vedermi come hai sempre fatto. Anche se forse, da adesso, non sarà più possibile.»

Bruno scrolla appena il capo: non è più possibile già da un po', ma non c'entrano di certo i suoi segreti. Né ha intenzione di estorcerglieli; ha idea che una singola tirata di corda troppo repentina potrebbe spezzarla e allontanare Ricciardi da lui e da quel pezzetto di mondo che sembra aver accettato nella propria vita – ed è un qualcosa di enorme, per lui. Gli legge negli occhi lo sforzo che gli è costato rivelargli anche solo quel poco.

Quel singolo pezzetto è cosa ben misera, a raffronto dei pensieri osceni e contorti che gli viaggiano in testa quando lo guarda; eppure, potrebbe essere comunque abbastanza per quella parte di sé, ancora viva da qualche parte, che cerca solo un bicchierino dopocena, una risata sul lavoro e una compagnia che non debba farsi pagare per star con lui.

Così, sì limita a rabbonire il volto d'un sorriso.

«Ma che dici? Io vedo il solito commissario 'ngrugnato di sempre.» Lui non risponde, ma pare farsi leggero per il sollievo. «Il punto è che puoi dirmi o non dirmi quello che ti pare e non cambierebbe nulla, Riccia'. Cambierebbe qualcosa, per me, solo se tu non ci fossi. E ci terrei a evitarlo, questo.»

Gli stringe piano il braccio, poco sopra il gomito. E Ricciardi sorride appieno, adesso, con un lieve lucore negli occhi che forse è solo dato dalla luce fioca; e Bruno ci si perderebbe ogni volta, in quel rimescolio di colori tenui. Non lo rimbrotta per le parole che ha usato, né per quella vicinanza.

«Bruno...»

Ricciardi pronuncia il suo nome come fosse l'inizio di un nuovo discorso, con una nota tremula ed estranea nella voce che pare addolcirlo delle sue spigolosità – uno di quegli squarci improvvisi che gli offre. Tira il fiato come prima di un'apnea e Bruno sopprime l'istinto di fare un passo indietro, come preparandosi egli stesso a esser sommerso.

«Bruno, tu sai che io tengo in gran conto l'onestà.»

Lui si acciglia, a quel cambio di tono, quasi formale. Ritrae la mano, sul chi vive; la lascia però scorrere lungo la manica della giacca e gli rifila quella carezza furtiva con un formicolio sulla punta delle dita, come avesse compiuto un gesto proibito – e lo è, gli scotta la mano, eppure vi indulge egualmente come il deviato che è e che non riesce a scordarsi di essere.

«Lo so,» risponde poi, il tono teso tra un sorrisetto noncurante e i nervi a fior di pelle. «Fai quasi imbarazzo, per quanto lo sei a volte.»

«Ma non sono stato onesto con te, l'altro giorno, e nemmeno corretto.»

Bruno scuote secco la testa e scansa via un paio di ciocche molleggianti che vanno a ostruirgli la visuale.

«Riccia', lascia perdere, è acqua passata. Non me la son presa e tenevi ragione ad avercela con me.»

«Non intendevo quello. O meglio...» Strizza un poco le palpebre e sembra perdere il filo. Per poi ritrovarlo, d'un fiato: «Bruno, nulla di ciò che hai fatto quando eri ubriaco mi ha infastidito.»

Bruno, che ormai sta considerando seriamente l'idea di darsi all'otorinolaringoiatria per sistemarsi quei crescenti problemi di comprendonio, trattiene l'impulso di sfregarsi un orecchio. Perché è certo, quasi del tutto, che quella sia un'allucinazione uditiva, al pari di quella visiva che l'ha colto al bordello con Gemma.

Ma Ricciardi pare aspettarsi un qualche tipo di reazione, dal modo in cui lo fissa, con le dita che si rincorrono tra loro premute nelle tasche e le sopracciglia accostate in un'onda apprensiva, a formare un solco tra loro.

Bruno cerca, a tentoni mentali, la manopola impazzita della radio difettosa che ha in testa e che s'ostina a sbagliar frequenza, sintonizzandola in corsa su quanto ha appena sentito.

«Nulla?» ripete, a corto d'altre risposte più intelligenti.

«Nulla,» ripete a sua volta Ricciardi; e dai piccoli scatti della mandibola, gli pare si stia mangiucchiando l'interno della guancia in un moto angoscioso.

«Ma se tu m'hai detto, giusto ieri l'altro...»

Si blocca nel vedere come Ricciardi ancori di scatto lo sguardo a terra, con un respiro frastagliato ad aleggiargli attorno e uno sprazzo di rossore a inondargli collo e zigomi. E d'improvviso, a Bruno diviene chiaro il perché Ricciardi gli fosse sembrato illeggibile e oscuro, contraddittorio nelle sue azioni e parole in Questura, col suo rimbrotto d'indecenza seguito da un invito a passeggiare insieme. E gli diviene anche chiaro il perché sia sempre così franco con tutti, lui incluso, a costo di suonare sgradito o sgarbato.

Quasi gli sbotta a ridere in faccia, nell'agguantare quella conclusione a mezz'aria:

«Riccia',» schiocca la lingua con finta riprovazione che fa a cazzotti col sorriso che gli si allarga tra la barba, «tu è meglio che non dici mai bugie: non sei proprio capace; sembri matto e fai solo ammattire gli altri.»

«Stavo impazzendo pure io, credimi.» Ricciardi azzarda uno sguardo fugace su di lui e storce appena la bocca. «Non è vero che sei cambiato; e, anche se fosse–»

«No, su quello ci hai preso e–»

«–anche se fosse, non è detto che mi dispiaccia–»

«–e son cambiato pure troppo–»

«–e me ne frego, della gente che chiacchiera.»

«–però non... ecco, me ne frego pure io, di quelli che chiacchierano.»

Le loro voci si accavallano, per poi risuonare quasi in coro e ammutolire infine in sincrono, lasciandoli in una bolla di silenzio che si fa d'un tratto densa, come non lo è mai il silenzio tra loro.

Bruno si schiarisce la voce, col volto caldo, le mani fredde e non sa quale gorgo che gli si rimesta in petto nel vedersi gli occhi ora intensi di Ricciardi appuntati addosso – sono quelle le emozioni mobili di cui sentiva parlare? – spezza il silenzio e scrolla via l'imbarazzo, come se non stesse azzannando vivo anche lui:

«Comunque, non saresti mai un bugiardo credibile, vestito da damerino e con chist'faccia da bravo guagliune.»

Nel dirlo, gli raddrizza la cravatta un poco storta, tirandola appena verso il basso – gli tira qualcosa di piacevole anche nello stomaco, di rimando. Ricciardi incassa la testa tra le spalle, in muto ma forse concorde assenso. Si scosta però di lato, senza sottrarsi del tutto al suo gesto. Bruno fa per ritrarre la mano, con un pizzicore alle terminazioni nervose, conscio d'essersi esposto – se mai è rimasto anche solo uno sparuto riparo tra loro, adesso.

Poi, smette di respirare.

Perché Ricciardi, prima che possa muoverla, trattiene per un istante la sua mano contro il petto, premendovi sopra la propria. Bruno ne avverte il tremito sottile, il calore tenue, il palmo liscio. Gliela riporta in basso, con un movimento goffo che s'incaglia sui bottoni della giacca, cacciando poi le proprie in tasca. Tiene basso lo sguardo.

«Però vorrei davvero che tu stessi più accorto.» Sorride appena, nervoso, gli occhi scattanti qua e là che si appuntano infine nei suoi. «Su quello, sì, ero sincero.»

Bruno capisce solo allora che si è spostato solo per celarsi un poco meglio dietro di lui e sotto l'arco del portone, più in ombra agli eventuali passanti. Gli batte il cuore sotto la lingua, nel realizzarlo; e vorrebbe riavvolgere la pellicola, compiere di nuovo quel gesto solo per spingere lui a replicarlo.

Non sa nemmeno più cosa sta dicendo, per quanto gli rimbalza ogni pulsazione di sangue in gola:

«Vuoi dire che posso invitarti a cena pure domani, finché mi mantengo sobrio, educato e socialmente piacevole?»

E Ricciardi fa un gesto buffo, impacciato, un allargarsi gentile di spalle che ha del rassegnato e giocoso assieme: un se proprio devi che non esprime irritazione alcuna, ma tutto il contrario. È una risposta che grida e ride a sua volta. E che gli fa una paura folle – come folle è tutto ciò che sta facendo e il poco che riesce a pensare.

«Riccia', senti...»

«Non lo so,» lo anticipa lui di scatto, con ancora l'ombra sfumata del sorriso impressa addosso e una stilla improvvisa d'inquietudine a screziargli gli occhi. «Non chiedermi niente, perché non saprei cosa risponderti.»

Bruno ride a fior di voce, nervoso e leggero al contempo.

«Ti stavo per dire non lo so manco io, che stiamo combinando.»

«Non ho fretta di capirlo,» soffia via in fretta Ricciardi, ed è quasi un respiro mascherato da risposta.

Bruno frena un'ondata di celia che gli era sorta alle labbra; e capisce, benché anche lui non stia capendo un bel niente. Capisce e si scosta di mezzo passo, lasciandogli aria e spazio e sobbarcandosi il compito di continuare a fingere che sia tutto uno scherzo, un gioco, un qualcosa di puerile:

«Comunque, per la cronaca, non è che io abbia ben chiaro cosa abbia fatto l'altra sera, fastidioso o meno che fosse.» Sfoggia un fare spavaldo che si cuce addosso apposta, ma che è mezzo finto e tutto storto, come il sogghigno che gli emerge in viso. «Mi rinfreschi la memoria?»

Ricciardi scosta lo sguardo e in volto gli preme un sorriso che trattiene, così forte da punteggiargli la fossetta all'angolo delle labbra; e nel rispondere assottiglia gli occhi con quel fare da folletto dispettoso che lo fa impazzire in ogni modo possibile:

«Non te lo dico.»

Bruno non trattiene il moto sgomento che gli fa cascare la mandibola a quella faccia da scugnizzo discolo, sul punto di sbottare in risatina piena.

«Tu sei un fetente.»

«Ti rinfrescherò io la memoria, in ritardo, come per i compleanni.»

«Un fetente vero.»

A quel punto, Ricciardi la libera, quella risata lieve e sottovoce che gli rimbalza nel petto, come se gli avesse fatto un complimento; e Bruno capisce che, qualunque cosa abbia fatto in quelle ore inebriate d'alcol, non può esser nulla di così grave o indecente, se Ricciardi ci scherza su così – e, pure se fosse, non sembra fregare a nessuno dei due.

Ricciardi getta lo sguardo verso le scale, forse involontariamente, in quello che sembra un muto invito a separarsi o una richiesta di fuga. Bruno sospira appena, ma gli fa un cenno d'assenso, a dire che concorda, che s'è fatto tardi. E, forse, nessuno di loro due sa quanto altro tempo possa continuare a comprimersi tra loro prima di diventare un qualcosa d'insostenibile – prima che il tutto straripi e li travolga.

Nemmeno Bruno ha fretta di capir nulla, per ora – gli sembra d'aver corso fin troppo, in quei giorni, a scapito d'altri.

Quando però l'altro fa per superarlo, lo trattiene per la manica – solo per la manica, stavolta, senza toccarlo davvero, in un contegno doloroso che cozza con tutto il resto.

«Domani, allora?»

Per un istante, quando lui volta il capo, si ritrova a mezza spanna dal viso di Ricciardi – è in linea, quasi, con le sua labbra, avverte il sentore boschivo della sua colonia addosso.

Non c'è alcun filtro ai suoi pensieri, adesso – l'hanno appena scardinato a parole e a gesti. Gli si para davanti ciò che ha soppresso a più riprese finora, non sa nemmeno da quando. Apre la porta con esausta rassegnazione, stavolta – i cardini cigolano, simili a molle di materassi, e accoglie lo spiffero caldo che lo investe, che forse è solo il suo respiro troppo vicino: vuole baciarlo.

«Domani, va bene.»

Ricciardi conferma, lo supera e l'attimo è perso, bloccato in gola.

Ha un sapore un po' diverso, ora, di tregua con se stesso – ha poi senso starsi a fustigare, se ogni singola sensazione che gli viaggia in corpo è tutt'altro che spiacevole? Se il Bruno invertito è davvero questo, è poi così tremendo? Soprattutto, se nemmeno a Ricciardi sembra poi un qualcosa di osceno – ché non è certo stata una conversazione tra uomini normali, questa. E si redarguisce per dei pensieri così semplici, che gli paiono solo scuse per giustificare un qualcosa di maligno che non può cambiare e che spaccia quindi per positivo.

Gli sfuggono parole affrettate, che tremano un poco in sottofondo di tutto ciò che finora non ha nemmeno avuto il coraggio di pensare:

«Buonanotte, Riccia'.»

Lui sorride davvero, adesso, come fa di rado con gli altri e spesso con lui. Sembra voler aggiungere qualcosa, per poi non farlo – e anche quello lo fa spesso, con lui:

«Buonanotte, Bruno.»

Sparisce oltre il portone, lasciandolo ancora una volta con un qualcosa di non fatto tra le mani – e fin troppe cose da fare fuori.

Ma, per la prima volta da giorni, da quando s'è scoperto sbagliato e storto a quarant'anni suonati e ha cominciato a combinar guai uno dopo l'altro – per quello sparuto istante, riesce a pensare che andrà tutto bene.

Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
siete sopravvissuti al capitolo più lungo della storia!

Però, insomma... come avete visto, c'era bisogno di dilungarsi un po' nella testa di questi due perfetti idioti. Se qualcosa non vi torna, consiglio di dare un'altra occhiata al capitolo "Sul mentire", il cui titolo non era stato affatto scelto a caso e non riguardava mica solo Bruno :

Da qui, potreste pensare che sia tutto in discesa... beh, sì, in un certo senso. Precipitosa discesa. A rotta di collo proprio. So che vi aspettavate magari qualcosa di più tra loro, a questo punto, ma vi assicuro che è tutto pensato e ragionato e avrà un senso. E che Bruno ha ancora un paio di cose su cui elucubrare...

Grazie a tutti voi che leggete e commentate ogni volta ♥
Siamo in dirittura d'arrivo, ormai!

-Light-

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