10.2 - Sul (non) inganno
*
Il tintinnio armonico dei cucchiaini contro la porcellana è l'unico suono a rimbalzare tra le pareti rosate della camera numero cinque. Parrebbe di trovarsi in una sala da tè, non fosse per l'occasionale sommovimento di mobili strusciati per terra o versi umani dalle stanze vicine e per le figure erotiche dipinte d'un delicato seppia sulla superficie delle tazzine, quasi confuse ai fiori, che ricordano loro dove si trovino.
Bruno, seduto sul letto, prende un piccolo sorso dalla propria. Gemma, che è rimasta in piedi, è intenta a rimescolare tra loro troppo zucchero e molto caffè, a formare una crema d'un dolce da carie, probabilmente, ma che pare gradire assai. A lui viene un po' da sorridere, a dispetto di tutto, nel vederla spiluccare il composto con la punta di un cucchiaino, come a centellinarlo cosicché non finisca subito.
Gemma nota il suo sguardo e subito rattrappisce le labbra in una smorfia altera, quasi avesse assaggiato invece un limone acerbo; riporta in basso la tazzina e raddrizza la schiena. Bruno si sforza di guardarla negli occhi, anche se non troppo a lungo da farsi venire in mente cose che, al momento, stanno bene dietro una porta serrata a doppia mandata.
È lei che rompe il silenzio con voce aguzza, affatto addolcita dalla crema zuccherina:
«Voi lo sapete che, dopo quello che m'avete detto or ora, io dovrei sperare d'essere incinta, così me ne vado da questa bettola, mi faccio sposare da voi e mi piazzo a casa vostra col ninno?»
A Bruno sembra di veder scorrere quella sequela di eventi sul fondo delle retine: un incubo, senza se e senza ma – si sente un collare addosso solo a pensarci e un collasso cardiaco in petto. Un incubo di cui, però, lui è l'unico e solo artefice.
«È un rischio che correrò,» ribatte quindi, affogando le parole nel caffè.
«O potrei farmi mettere incinta apposta, da un cliente qualunque, e spacciarlo per vostro.»
«Correrò pure questo, di rischio.» La guarda in volto, nota la sua confusione e si lascia infine scappare un accenno di sorriso. «Mi sembri piuttosto sicura del fatto che manterrò la parola in ogni caso.»
Lei fa un cenno del mento, secco, sprezzante:
«Uno non torna qua a dar vento alla bocca per niente.» Mangia un cucchiaino di zucchero intriso di caffè che le scrocchia sotto ai denti. «Potevate starvene a casa, era più facile assai.»
«Magari sono qui solo per lavarmi la coscienza.»
«E per lavarvela mi fate promesse da non mantenere, così poi ve la insozzate di nuovo?»
Un sopracciglio scuro di Gemma s'inarca di una tacca, a sottintendere un implicito e bravo 'o fesso. Bruno soffia dal naso un accenno d'ilarità che, però, suona mesto e soffocato sul nascere. Non contraddice Gemma: certo, che è lì anche per lavarsi la coscienza. Lo sanno entrambi, quello. Non vuol dire che le stia mentendo, però.
Si allunga a posare la tazzina vuota sul comodino.
«L'hai detto a Mamma Clara? Del ritardo?»
Gemma esita per un istante, poi scrolla in fretta la testa – come se per il tempo di un caffè si fosse voluta scordare, in parte, del problema.
«Ma siete matto? No, no. E poi...» s'interrompe e stringe le braccia sotto al seno. «Non siete mica il primo, che fa così. Non sarete nemmeno l'ultimo.»
Bruno comprime le labbra e non ribatte. Gli scotta ancora la guancia, tenue memento di quel fatto. Ha pure avuto il coraggio di dire a Marisa, l'altro giorno, di segnalare i clienti che fanno gli infami. Mai avrebbe creduto di poter capitare pure lui in quella risma.
La ragazza posa la tazzina sul comò, con un tintinnio definitivo. Alza le spalle esili, le clavicole che scorrono sotto la pelle nivea.
«Se proprio deve succedere, dico io, meglio con voi che con qualcun altro che magari si mette pure 'int 'a capa d'accideme.»
«Immagino non sia un gran complimento.»
«No... però a ttutto ce stà rimmedio, fora ca 'a morte.»
Bruno rialza gli occhi a guardarla, nel sentire quella frase gettata lì con tanta noncuranza. Nel petto, sente solo un rimestarsi scomodo, una sorta di nebbia umida che gli strizza i polmoni e cerca di risalire su per le vie aeree. Non è una bella sensazione.
«Se davvero sei incinta, aspettiamo finché non sarà certo. Poi, mi dirai cosa vuoi fare tu.» Giunge le mani tra loro, respirando piano dal naso. «E non ci arriveremo, alla morte, questo posso promettertelo. Come medico, soprattutto, ma anche come uomo, se per te vale ancora qualcosa.»
Gemma tace e china il capo, pensosa, le ciglia che scendono a celarle le iridi chiare. Poi, d'un tratto, si morde il labbro inferiore a trattenere una smorfia, come angustiata – forse sull'orlo del pianto, e ne avrebbe anche ogni ragione.
Bruno s'acciglia, col cuore ora in pizzo a un battito troppo forte sporto sul vuoto.
Fa per alzarsi, in un gesto forse sgradito che gli sorge spontaneo; ma si arresta nel vedere Gemma lasciarsi scappare dalle labbra un sorriso trattenuto che le intiepidisce il volto spigoloso e le arriccia appena il naso. Rialza gli occhi e li pianta nei suoi, senza esitare.
«Dottore, mi son venute ieri.»
Bruno non dà immediato senso a quelle parole. Sente solo una successione di suoni, una cacofonia inintelligibile – che poi diventa melodica e gli squaglia il cuore e lo stomaco.
La fissa, con occhi sbarrati, per un istante interminabile, in cui non scorge ombra di scherzo sul suo volto – se non la scintilla d'ilarità che le scoppietta nelle pupille, quella di chi ha giocato finora e s'è pure divertito a farlo.
Bruno si lascia cadere all'indietro sul letto, con entrambe le mani premute sul volto e le gambe ciondoloni dal materasso. Gli sfugge un verso a mezza via tra una risata e un sospiro, che riecheggia nella conca dei palmi. Avverte gli occhi umidi sotto i polpastrelli e rimane così per una manciata di secondi, accogliendo ossigeno fresco in corpo.
Non sa chi ringraziare. Il caso, probabilmente. Mero caso fortuito e nient'altro. Gli va bene ringraziare pure quello, se vale qualcosa – gli andrebbe bene pure ringraziare un demone o un fascio di passaggio, in questo momento.
«Mannaggia a te,» gli sfugge invece, soffocato, «e all'anema 'e chillemuort.»
Sente Gemma che si siede sul letto, lì accanto, con un cigolio di molle. Bruno schiude una fessura tra i palmi, scoccandole un'occhiata sbieca, ma priva di risentimento.
«Tu mi volevi fregare, di' un po'.»
«Sì.» Gemma risponde senza alcuna esitazione. «Qualcuna c'è riuscita, da che so; con quei pochi che una coscienza la tengono. Qualcuna c'è pure morta perché l'hanno scoperta, però.»
Bruno si fa più serio e si puntella sui gomiti a sollevare un poco il busto, col cuore ancora in lieve tachicardia. Si chiede come avrebbe reagito lui se Gemma gli avesse mentito fino in fondo, inducendolo a un matrimonio riparatore per poi fingere di perdere un bambino inesistente.
Si sarebbe irritato, certo, magari anche alterato – no, si sarebbe incazzato e basta, ma forse nella consapevolezza di essere artefice del proprio male e che Gemma non gli dovesse sincerità alcuna. Ed è un medico, dopotutto: di certo non si metterebbe ad alzare le mani sulla gente, tanto meno su una donna, anche se ora ha scoperto di poter ferire in maniera più subdola e non meno dolorosa.
Si chiede anche se a trattenerla sia stata una qualche remora morale, il timore della sua reazione o il semplice fatto che lui, in quanto medico, avrebbe potuto scoprire con più facilità e prima l'inganno.
In fondo, conclude, non importa – eppure, Gemma parla ancora, con leggerezza:
«Però, sì, volevo fregarvi. Ci ho pensato tutto ieri e ho detto a Mamma Clara di far passare solo voi da me, finché tenevo le cose mie. Volevo provarci, perché Marisa, e pure altre, m'hanno detto che non siete uno che alza le mani.» Fa una pausa che sembra sofferta e strizza le labbra, così come le dita tra loro. Lo fissa, con un misto di rancore e diffidenza. «Anzi, dicono proprio che siete una brava persona e un uomo perbene, con tutto che state qua dentro. Io, però, ho visto il contrario ieri e che è ovrero oggi. E quindi non lo so, che cosa siete.»
Bruno scrolla il capo, ma non conferma né nega.
Gemma accavalla le gambe snelle e scoperte, intrecciando le dita su un ginocchio e intrecciando a lui lo stomaco, che pare essersi scordato della situazione. Ne osserva per un istante la figura longilinea, priva di curve accentuate e continua a non sapere se gli piaccia perché lei è così in quanto donna o se perché a guardarla un po' di sguincio gli ricorda qualcun altro che non potrebbe mai osar desiderare.
Distoglie lo sguardo da lei, quasi l'avesse violata di nuovo anche solo così, con quei pensieri.
Non lo sa più nemmeno lui chi accidenti sia diventato in quegli ultimi giorni. Di certo, non un uomo migliore di prima – forse è solo meno uomo, a ben vedere.
«Chiunque io sia, ci hai ripensato.»
«Mica per voi,» chiarisce subito, con una stoccata d'occhi. «Pure se m'avete fatto pigliare un colpo, quando siete entrato a quel modo, e quindi son contenta se è pigliato un colpo pure a voi. C'ho ripensato solo perché non sono brava a metter su la faccia finta.»
«Non direi proprio,» sorride appena Bruno. «Io c'ero cascato con tutte le scarpe.»
«Appunto, poi però mi toccava tenerla su, la faccia finta. Qui, almeno, vado a ore e non per tutta la vita.»
E scocca un'occhiata all'orologio sul comodino, che segna dieci minuti mancanti alla fine di quell'ora anomala tra loro. Bruno segue il suo sguardo e asseconda l'invito implicito. Si tira su a sedere, ora di fianco a Gemma; si scansa un poco di lato per non toccarla col braccio.
Si rimette in piedi, con le gambe ancora molli per il grosso sollievo che l'ha pervaso e la guancia un poco accaldata. Coglie il proprio riflesso nella specchiera e il segno rossastro dello schiaffo sulla guancia è inequivocabile, camuffato malamente dalla barba rada e scura.
Vabbuò, se l'è cercata. Non che debba render conto a qualcuno di come va in giro.
«Tolgo il disturbo, allora,» dice a mezza voce. Esita però a metà del primo passo verso la porta, e la fronteggia di nuovo. «Non mi aspetto niente, ma mi dispiace lo stesso per quello che ti ho fatto. E per come ti ho trattata, anche.»
Gemma lo guarda, ma non risponde, né si aspettava lo facesse. Forse – di certo – sono parole che servono più a lui che a lei, ma si sarebbe sentito comunque meschino non pronunciarle. Afferra il cappello e fa per calcarselo in testa, quando si arresta una seconda volta, trattenuto dalla sua voce:
«Dottore.» Ed esita, con le labbra minute che sembrano voler afferrare le parole a mezz'aria; poi continua, tutta d'un fiato: «Ma voi con me ci tornereste?»
Bruno trattiene l'istinto di sfregarsi un orecchio – sta decisamente sviluppando problemi d'udito – e rimane col cappello fermo a mezz'aria nell'atto di metterlo. Si sente un prestigiatore che ha appena scordato il trucco e deve sembrarle anche piuttosto tardo.
Riporta il cappello in basso e ci infila il pugno, prendendo a farlo girare su se stesso a piccoli scatti.
«Io pensavo che non volessi più vedermi manco per sbaglio,» tenta di raccapezzarsi, sotto lo sguardo fisso e limpido di lei che, però, sembra celare una traccia di smarrimento. «E che non ti piacessero le facce finte.»
«Sì, è così.»
Sospira e si siede a gambe incrociate sul letto. Lo guarda dabbasso con quelle iridi cristalline ora intristite. S'è poggiata coi gomiti allargati sulle ginocchia, china in avanti, in una posa affatto femminile o provocante. Non c'è segno della rabbia che l'ha colta poco fa: legge solo fioca rassegnazione, su quel volto troppo giovane – di certo troppo giovane per lui e troppo giovane per star chiusa là dentro.
«È vero... ma non è che tengo poi tanti clienti. Almeno quei pochi, me li devo tener buoni, pure se non mi piacciono.»
Bruno si acciglia, con una sensazione sgradevole nello stomaco, lì dove gli si accumula da giorni ogni cosa marcia. Quella sorta di nuvola umida riprende a premergli dietro lo sterno, gonfia di tutto ciò che non gli riesce di esprimere a voce perché troppo complesso o fumoso. La guarda in viso e lei sfugge il suo sguardo, schiva, nascondendolo oltre le ciglia bistrate.
Quanta disperazione deve avere, per offrire di nuovo il suo corpo a qualcuno che l'ha violato? Soprattutto, quanto schifo dovrebbe fare, lui, per accettare?
L'idea di crogiolarsi nelle proprie fantasie, adesso che da quella porta proibita schiusa sull'altro Bruno ci entra ed esce con più agio, lo stuzzica e nemmeno poco – ma è un qualcosa che deve fare in solitaria. O, al massimo, che dovrebbe affrontare con Ricciardi, se mai terrà le palle e la follia per farlo. Stringe il pugno sotto il cappello, trattenendo un sospiro stentato e quella nube acquosa che rischia di sfuggirgli dagli occhi – si sta invertendo del tutto, ormai, non gli riesce più di pensar diritto.
Batte le palpebre e si lascia scivolar via una domanda che, forse, farebbe meglio a non porre:
«Che tipo di clienti sono, questi pochi?»
Lei tira appena un angolo delle labbra; e non è un sorriso, gli pare più una linea stretta di reticenza e complicità.
«Dottore, voi sapete perfettamente perché m'avete scelta. Io credo che ve lo potete immaginare da solo, chi sono i miei clienti di solito, senza che mi fate dir nulla.» Bruno scosta il capo, come a schivare quelle parole; gli si infiggono comunque nelle orecchie come dardi. «A me non fa differenza. Io lavoro e basta: chillu ca tenite 'int 'a capa so' fatti vuoste.»
Lo dice con completa assenza d'emozione, come se stesse parlando di una giornata particolarmente calda o fredda; abbastanza insolita da meritare un commento, ma non tanto da guadagnarsi la sua attenzione. Apprezza, in silenzio e a occhi bassi, quella sorta di delicatezza immeritata.
«E poi, io dove lo trovo, un altro cliente che si viene a scusare con un caffè dopo che ha fatto una porcata, invece di riempirmi di botte?»
Bruno stringe la stoffa della fodera e non chiede se sia già successo. Gli sembra un non detto implicito in quelle parole e nel fatto che Gemma, anche solo a guardarla e senza aver ricevuto una sventola in faccia da lei, tiene una cazzimma che farebbe impallidire un leone. Ma non un omuncolo offeso, forse. Non si sente migliore di una bestia del genere: al contrario, vi si sente fin troppo vicino, come se bastasse un pensiero sbagliato per assomigliarvi troppo.
Si riavvicina di un passo, cauto – si sente di camminare su un filo sottile, di poter far male e ferire di nuovo, se dirà qualcosa di sbagliato.
«Facciamo così,» la riscuote infine, e si incunea nei suoi occhi cerulei. «Finché stai qui, io andrò solo con te – la convinco io Mamma Clara. Dimmi tu quante volte alla settimana; tanto i soldi li tengo. Ti pago la marchetta, riordino il caffè per due, ce lo beviamo e poi tu fai quello che ti pare. Mi vendi il tuo tempo, invece del tuo corpo.»
Gemma sbatte le ciglia un paio di volte, poi tre, come a schiarirsi i pensieri. Infine, si scosta una ciocca scura dagli occhi e aggrotta la fronte.
«Cioè, mi diventate un cicero*?»
Bruno preme un sorriso tra la barba.
«Se vuoi, sì, ma mica per forza devi stare a sentire me che parlo a vanvera o dirmi qualcosa tu. Me ne posso pure star zitto; giuro che ogni tanto ci riesco. E ho tanto di quel sonno arretrato che una dormita in più me la faccio pure volentieri. Tenete letti più comodi del mio, qua.»
Lei si morde il labbro inferiore, invece di rispondere; segno che forse ci sta pensando, e pure bene.
«Se Mamma Clara lo scopre, io ci passo i guai,» proferisce infine, titubante – ed è già una risposta, in effetti.
«E come lo dovrebbe scoprire, scusa?» A Bruno scappa una mezza risata. «Che fa, entra nelle camere a controllare che i cristiani chiavino sul serio e poi s'unisce alla festa? Puah!» Gira su se stesso, fa un fiacco gesto della croce a mezz'aria e si bacia le dita unite. «San Jennaro, salvame te.»
Gemma comprime le labbra così forte da sbiancarle, a quella pantomima improvvisata – come a non dargli soddisfazione d'averle strappato un sorriso. E quando parla, però, la frase le scappa via sull'onda di una mezza risatina incredula:
«Ma vuje dicite overamente?»
Bruno, di tutta risposta, non ride più né asseconda il gioco: ritorna composto, invece, e le tende la mano d'istinto, così come farebbe con un altro uomo in una trattativa d'affari.
«Dico sul serio, come dicevo sul serio prima.»
Gemma, ancora seduta a gambe incrociate, lo fissa con innegabile sospetto, o forse stupore o forse disprezzo – e andrebbe bene ogni cosa, in fondo. Infine, allunga una mano esile e stringe la sua con forza inaspettata, a suggellare il tutto.
«Vi piglio in parola, dottore.»
Note dell'Autrice:
Cari Lettori,
io spero di avervi preso in contropiede con questa svolta di trama. In particolare, spero che Gemma abbia ingannato per bene anche voi :D
Perché, sì, volevo affrontare tematiche serie, ma volevo anche farlo con una sorta di leggerezza e, d'altronde, la storia è partita come (tragi)commedia. Ovvio che le interazioni tra Bruno e Gemma vadano viste nell'ottica dell'epoca, in cui non vi era alcuna parità tra uomo e donna e l'immobilismo sociale era un dato di fatto: Bruno non si pone troppo il problema di tirar fuori Gemma da lì, quando di rendergliela meno gravosa come situazione e Gemma si presta a questo accordo di sua volontà perché è lei stessa incastrata in schemi estremamente sessisti.
Insomma, un po' d'amaro in bocca deve rimanervi. Gemma apparirà ancora, così come Marisa, per mettere qualche ultimo puntino sulle i, ma nel prossimo capitolo tornano i due polli partenopei a riprendere la scena ♥
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